La storia della guerra sulle etichette la racconta il New York Times in un articolo che fa capire quanto la questione, al di là delle prese di posizione ideologiche, sia delicata sotto diversi punti di vista, e non di facile soluzione. Da circa una dozzina d'anni, gli Stati stanno ragionando su proposte di legge specifiche riguardanti le etichette dei prodotti Ogm (finora mai approvate), e una petizione nazionale presentata alla Food and Drug Administration (Fda) ha già raccolto più di un milione di firme.
Come spesso accade, lo Stato di riferimento è la California, all'avanguardia su molte tematiche ambientali e della difesa della salute del
Tutto ciò accade in un contesto dove per anni la presenza di specie geneticamente modificate non ha causato troppe preoccupazioni, soprattutto in confronto a quanto avvenuto in Europa, dove è previsto l'obbligo di un'etichettatura specifica (regolamento CE 1830/2003). Negli Usa la percentuale di mais e soia Ogm rappresenta la stragrande maggioranza del mercato, e buona parte di prodotti che usano queste materie prime dovrebbero dichiararne la presenza. Fino a oggi non è stata richiesta una indicazione specifica: ma la sensibilità dei consumatori dopo le recenti vicende del bisfenolo A e della carne separata meccanicamente (pink slime), sta cambiando e la gente vuole più trasparenza.
Gli agricoltori, le aziende biotecnologiche e agroalimentari sostengono che la scritta “contiene Ogm” spingerebbe i consumatori a rifiutare in blocco i prodotti “marchiati”, senza sapere nulla né delle reali conseguenze sulla salute né del vantaggio che l'introduzione dei vegetali geneticamente modificati ha già portato all'agricoltura americana, e cioè la diminuzione drastica dell'impiego di fitofarmaci. Di fatto, sempre secondo loro, sarebbe in atto un tentativo strisciante, cavalcato ad arte dai produttori del biologico, di espellere dal mercato molti concorrenti con la scusa della libertà di scelta.
Cathleen Enright, vice presidente della Biotechnology Industry Organization che riunisce colossi quali Monsanto e DuPont, ha dichiarato: «Stanno cercando di ottenere con la politica ciò che non riescono a raggiungere con il mercato». Di fronte a questo approccio non del tutto privo di fondamento, ma che rivela una certa arroganza, Marion Nestle, una delle nutrizioniste più note d'America, docente alla New York University e animatrice del blog Food Politics, ha replicato al NYT: «I consumatori hanno diritto di sapere tutto ciò che riguarda modifiche genetiche del cibo; se le aziende ritengono che le loro obiezioni siano stupide e irrazionali, spetta a loro spiegare perché non è così».
Alcune associazioni di categoria, come la Grocery Manufacturer Association che riunisce marchi più famosi nel campo alimentare, rifiutano di esprimersi. Ma c'è chi
Ronnie Cummins, direttore dell'Organic Consumers Association, ha infatti scritto in una lettera che accompagna una petizione on line per sostenere le iniziative referendarie: «Se passerà la legge sulle etichette per gli Ogm, la California farà il primo passo verso l'eliminazione totale di questi prodotti. Immaginate un'azienda come la Kellog's che scrive sui suoi Corn Flakes: ottenuti con mais geneticamente modificato. Sarebbe il bacio della morte, qui e in tutto il mondo».
La guerra delle etichette è insomma in pieno svolgimento, e dal suo esito dipenderà in parte il futuro orientamento della produzione agricola e di cibo non solo degli Stati Uniti. Sarebbe auspicabile che, prima di prendere una decisione su come votare, ogni californiano (ma molti si augurano referendum simili in tutti gli Stati americani) ragionasse su pro e contro e cercasse di lasciare fuori dal seggio ideologie e interessi che poco hanno a che vedere con la tutela della salute.
Agnese Codignola
foto: Photos.com
www.ilfattoalimentare.it
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