Nessuno dimentica errori e incertezze in Afghanistan, ma 20 anni di missione non sono stati vani. Almeno una parte del Paese ha toccato con mano un minimo di progresso sociale
“Voi avete tutti gli orologi, ma noi abbiamo tutto il tempo” recita un adagio diffuso in Afghanistan tra i talebani, che in questi giorni sfruttano il vantaggio offerto loro dal ritiro delle forze militari internazionali e annunciano con enfasi di avere ormai assunto il controllo di gran parte del Paese. Da ultimo, due giorni fa, sono passate nelle mani dei talebani due città, Islam Qala e Torghundi, nella provincia di Herat sinora presidiata dal contingente italiano. In realtà, i dati più affidabili indicano che su 419 distretti afghani i talebani ne controllano 130, ma la sensazione diffusa, alimentata anche da una abile comunicazione, è che la loro pressione sia inarrestabile e che presto potrebbe concentrarsi su Kabul per spazzare via il Governo centrale.
Il ritiro dei militari americani, voluto da Trump e assecondato da Biden, ha aperto la via a cascata al disimpegno degli alleati da tempo impegnati lì nell’operazione Resolute Support. Addio all’Afghanistan, dopo una presenza di inaudita lunghezza, venti anni, da quando quei due maledetti aerei contro le Torri gemelle cambiarono il mondo e la percezione della nostra sicurezza. Certo, in quel territorio aspro e fiero, mai colonizzato da altri, un po’ di tempo in più, il rispetto della ideale scadenza del 2024, prima del ritiro avrebbe forse consentito di preparare meglio le forze regolari afghane ad assumersi le proprie responsabilità nel contrasto di attacchi e attentati dei talebani.
Sì, perché la missione Nato nell’ultima fase era focalizzata sull’addestramento dell’esercito governativo per rafforzarne capacità e regole d’ingaggio e oggi non pochi pensano che un ulteriore, limitato periodo di training sarebbe stata una premessa migliore per il ritiro dei contingenti stranieri. Ma già da tempo l’intenzione di Washington, dopo un impegno lungo e pesante in termini di vite umane e di costi sostenuti, era di riportare a casa i soldati. Ora si tratta di sostenere per quanto possibile, con altri mezzi, la tenuta di un Paese in guerra da quaranta anni e la cui popolazione è costituita per due terzi da giovani sotto i venticinque anni. Per i quali la pace è un idea molto astratta.
Il ripiegamento dei militari, per ragioni di sicurezza in corso senza troppi annunci o dichiarazioni, induce a qualche bilancio, con più accenti. L’amarezza di chi considera l’operazione Afghanistan un fallimento si stempera nella malcelata soddisfazione per la sconfitta degli Usa e delle loro “mire egemoniche” e si irradia nella condanna per il tentativo, goffo e sterile, di esportare la democrazia in contesti impossibili. Ma nell’arco di un’intera generazione Enduring Freedom, Isaf e Resolute Support hanno significato proprio questo? E davvero l’abbandono dell’Afghanistan è come la fuga in elicottero da Saigon? Nessuno dimentica errori e incertezze, in particolare con il governo di Kabul, ma il giudizio va contestualizzato. L’eccezionale mobilitazione di uomini e di mezzi, scaturita dal consenso della comunità internazionale e azionata, per la Nato, per la prima volta nelle sua storia, dalla leva dell’art. 5 dell’Alleanza ha avuto indubbiamente costi elevatissimi e risultati al di qua delle speranze, tuttavia non è stata vana.
Almeno una parte del Paese ha toccato con mano non improponibili (né proposti) schemi e regole di vita occidentale, bensì un minimo di progresso sociale, di diritti fondamentali, di speranza di uscire dalla spirale di violenza e di sopraffazione. Lo dico anche dopo aver letto l’articolo di sabato del direttore di Huffpost. Gran parte del lavoro, anche se incompiuto, si deve all’impegno militare in lunghi anni di presenza sul territorio. L’Italia ha dato un contributo importante, con le migliaia di suoi uomini in divisa avvicendatisi in Afghanistan per stabilizzare e collaborare, non per colonizzare, né “per esportare la democrazia” come George Bush jr. voleva fare in Iraq. Per quell’obiettivo anche noi abbiamo pagato un pesante tributo di sangue, che non può essere dimenticato, con 53 caduti e 723 feriti. E sarebbe doveroso onorarne pubblicamente la memoria insieme al nostro contingente in rientro dall’Afghanistan.
Nelle prossime settimane si verificherà l’efficacia delle misure approntate per respingere l’offensiva talebana, prevedibile e minacciosa. Riposizionamento dei presìdi dell’esercito governativo, finanziamento di forniture e personale di sicurezza, garanzie di libera agibilità delle strutture sanitarie e dell’aeroporto di Kabul, quest’ultimo affidato alla responsabilità di militari turchi sono le prime sfide. Vedremo se la pressione di circa centoventimila talebani armati, motivati e capaci di forte proselitismo avrà la meglio sui trecentoventimila uomini dell’esercito afghano. Osserveremo le mosse di Paesi attivi nell’area ora soddisfatti per il disimpegno occidentale, specie di quelli in qualche modo vicini ai gruppi talebani (Pakistan, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi).
Insomma, occorrerà non perdere di vista quello scacchiere. Alla nuova fase che si apre con il ritiro dovranno corrispondere nuovi strumenti, diplomatici, di assistenza e cooperazione. L’investimento è stato consistente, vanificarlo sarebbe un errore e il fattore tempo, di cui altri dispongono in abbondanza, non deve giocare contro di noi.
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