venerdì 15 agosto 2014

E l’imprenditore sogna la rendita

di Marco Panara, da Repubblica Affari & Finanza
Le imprese italiane non investono più. Da anni. Se la produttività del paese non cresce in buona parte dipende da questo. C’è un dato che ce lo dice: il tasso di ammortamento, che è stato intorno al 6 per cento del fatturato negli anni novanta, dal 2003 ha cominciato a scendere fino al 3,7 per cento nel 2010. Vuol dire che le aziende vanno avanti con macchinari vecchi, allungandone il ciclo di vita anche dopo che l’investimento è stato completamente ammortizzato, e non ne comprano di nuovi.
La data in cui inizia la discesa, il 2003, non è casuale. Finite le svalutazioni competitive, siamo entrati nell’era dell’euro, che impone un ripensamento profondo del modo di essere dell’impresa, che deve imparare a convivere con una valuta forte e stabile. L’imprenditore italiano cosa fa? Invece di scommettere sul grande dividendo dell’euro ovvero i tassi bassi per investire, internazionalizzarsi e innovare, si ferma. Riduce il costo medio del lavoro ricorrendo ai contratti a termine e spreme finché può impianti vecchi ormai ammortizzati, per massimizzare gli utili. L’azienda guadagna anche più di prima, ma quei denari non vengono utilizzati per investire sul futuro ma per ridurre l’indebitamento finanziario e, soprattutto, per portare a casa dividendi. In una misura, nella media del sistema, pari al 100 per cento degli utili realizzati, in alcuni anni anche di più.
Riccardo Gallo, economista industriale, ultimo vice presidente dell’Iri e fino al 2008 presidente dell’Istituto per la Promozione Industriale, ha messo insieme gli effetti di tutto ciò. Il valore aggiunto sul valore della produzione è crollato tra il ’93 e il 2010 dal 27 al 17 per cento, il ritorno sul capitale investito (roe) è balzato da meno 10 a più 8 per cento, la vita media del patrimonio tecnico è passata da meno di 10 anni a quasi 17. E con macchinari vecchi la produttività progressivamente cala e i beni prodotti invecchiano anch’essi, perdendo mercato.
Non c’è un’Italia, lo sappiamo, ce ne sono due, tre, dieci, ci sono imprenditori che in questi anni hanno investito, affrontato la globalizzazione e vinto, come dimostrano i dati brillanti dell’export. Ma la media è tiranna, ci dice che ce n’è un numero molto maggiore che invece ha tirato i remi in barca, ha scelto di spremere l’impresa tirando fuori da essa tutto il cash flow che produce: «munge la vecchia vacca» è la metafora di Gallo, in attesa che muoia. Quel che è fatto è fatto, del futuro si occuperanno gli altri.
Nell’Italia che si gloria del suo diffuso spirito imprenditoriale, viene da chiedersi perché? Che cosa ha determinato la chiusura di questa porta di fronte al futuro. Non la mancanza di denaro, perché gli utili ci sono stati (e sono stati portati fuori dall’azienda) e, ove l’autofinanziamento non fosse bastato, fino al 2008 di credito ce n’era in abbondanza e a prezzi da saldo. Non la congiuntura economica, che a livello globale fino all’esplosione della crisi ha visto il pil del mondo crescere come mai era accaduto nella storia. E allora?
Allora bisogna guardare in casa. All’Italia che penalizza fiscalmente gli investimenti e il lavoro e premia la rendita. L’homo economicus porta i soldi dove gli costa di meno e gli rende di più. Se un hedge fund rende il 20 per cento l’anno che il fisco non vede, perché stare a combattere giorno dopo giorno con burocrazia, creditori, fornitori e quant’altri? E’ la competizione "sleale" della finanza nei confronti dell’economia reale. Ma non ci sono solo il fisco e i lustrini di Wall Street a distorcere le scelte. C’è lo Stato compratore che non paga i fornitori, c’è la selva di ostacoli messi davanti a ogni iniziativa, capaci di frenare ogni spunto di coraggio: così come in Italia non vengono a investire da fuori, per le stesse ragioni non si investe da dentro.
Probabilmente c’è anche un altro fattore che conta, il ciclo generazionale. Se pensiamo alle nostre case, alle nostre famiglie, quando si supera una certa età si comincia ad avere meno voglia di cambiare il salotto o il televisore, con l’avanzare degli anni la proiezione verso il futuro si fa meno forte. Vale anche per l’imprenditore, il mondo cambia troppo in fretta per chi di anni ne ha settanta con quaranta o cinquanta di battaglie alle spalle, si fa più complicato, richiede strumenti nuovi, e allora finché si può si continua sulla vecchia strada e poi pazienza, si chiude o si vende. Ai figli si lasceranno appartamenti e un pacchetto di milioni da qualche parte, sperando che riescano a farseli durare.
A quale delle tante Italie si rivolgono Giorgio Squinzi e Alberto Bombassei nella loro campagna elettorale per la presidenza della Confindustria ancora non è chiaro. Sono ambedue imprenditori veri, pezzi forti di quella Italia industriale che in questi anni ha investito, ma nei loro programmi a quell’altra che ha tirato i remi in barca non si fa riferimento. Si parla di riorganizzazione da lungo tempo dovuta di quel colosso burocratico che è la Confindustria, si parla giustamente di quello che il paese deve fare per l’impresa, ma non c’è molto su quello che l’impresa deve fare per se stessa e per il paese.
A fotografarla, questa impresa, nel suo insieme, non ne viene fuori una foto allegra. Secondo il rapporto Corporate Efige del 2011, nel 2009 la quota dell’attivo delle imprese italiane finanziata con il capitale proprio era pari al 12 per cento, contro il 30 per cento della Francia e il 34 della Germania. Una differenza che spiega il ritardo nell’internazionalizzazione e nell’innovazione, attività rischiose che devono essere finanziate prevalentemente con capitale di rischio, di cui ci dicono i numeri di cui sopra nelle imprese italiane non ce n’è abbastanza. L’età e la vita utile del patrimonio tecnico sono il doppio rispetto alle multinazionali, la produttività è stagnante, la competitività in discesa, il numero dei dipendenti in 17 anni si è ridotto di un quarto.
L’imprenditore non è un benefattore, fa ovviamente il suo interesse, il problema sorge però quando il suo interesse si scinde da quello della sua impresa. E’ quello che in molti casi sta accadendo, e farebbero bene Squinzi e Bombassei ad occuparsene, perché l’impresa virtuosa non basta se in tante, in troppe, virtuose non lo sono.
Oggi il credito non è più facile, e neanche a prezzi di saldo. Ma secondo i dati della Banca d’Italia, quello che viene richiesto è per rifinanziare i debiti pregressi e semmai il circolante, poco o nulla per nuovi investimenti o per acquisizioni. Le banche peraltro non lo danno in nessun caso. Ma è un segnale, l’ennesimo, che il futuro non è al centro. Quello che si deve fare è rimettercelo, utilizzando tutte le leve e ripristinando la fiducia dissipata da uno Stato opportunista, da banche ottuse, da imprenditori stanchi e da sindacati conservatori. La leva numero uno è quella degli incentivi e disincentivi. A cominciare dal fisco. Il governo Monti ha cominciato ma c’è ancora molto fare per riequilibrare una tassazione troppo sbilanciata a favore della rendita e a sfavore del lavoro e dell’impresa. Non basta. Lo Stato per essere credibile e rispettato deve pagare i debiti ai suoi fornitori e per svolgere costruttivamente la sua funzione deve liberare il terreno dagli ostacoli che rendono inutilmente difficile la vita dell’impresa. Le banche devono tornare a finanziare l’economia, scegliendo però: i soldi vanno dati alle imprese che credono nel futuro, che investono e i cui titolari le dotino di adeguato capitale.
Per ripristinare la fiducia perduta la riforma del mercato del lavoro è una grande occasione. L’obiettivo è avere un mercato finalmente funzionante, inclusivo e non esclusivo (nel senso che tende a escludere chi non c’è già dentro) come ora, che renda facile e poco costoso assumere e che dia a "tutti" i lavoratori un sostegno attivo nel caso in cui il lavoro lo perdessero. «La riforma però dice Gallo deve essere strumentale ad una strategia industriale. Se si pretendesse una maggiore flessibilità solo per continuare ad utilizzare impianti vecchi e per distribuire dividendi ad imprenditori attendisti, allora sarebbe un danno macroscopico».
Non c’è più tempo per le tattiche e difese corporative, è ora che ciascuno faccia il suo.
(2 marzo 2012)

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