C’è la cultura del farmaco, quella che ci spinge a riempire la dispensa di anti-infiammatori anche se stiamo bene, perché poi potrebbero sempre servire. E c’è la cultura del pezzo di ricambio: s’è rotto qualcosa? Non ti preoccupare, abbiamo quello che ti serve. Dove lo vuoi, all’anca o al ginocchio? Cercare di guarire non conviene più, meglio comprare un pezzo nuovo. Una lunga conversazione con un medico molto appassionato, Gianluca Fratoni, racconta la cultura opposta, quella della medicina che fa star meglio le persone e della prevenzione. È da questa parte che troviamo la medicina manuale e la cultura dell’autogestione del corpo e dei metodi per curarsi, ma troviamo anche il movimento, cioè la vita. Nessun farmaco può sostituirlo
di Marco Calabria
Nel libro Le labbra del tempo, Eduardo Galeano racconta storie brevi e preziose: Doña Maximiliana, un’anziana ricoverata in ospedale, ogni volta che passa il dottore, puntualmente lo prega di prenderle il polso. Il medico pensa sia un po’ suonata ma è un uomo paziente e l’accontenta sempre. Impiega anni a capire che la vieja stava solo chiedendo di essere toccata.
Le mani possono arrivare lontano, la letteratura sul tema è discussa ma piuttosto ampia. Una mano riesce a raggiungere anche le chiavi dei cancelli più profondi del dolore, là dove un farmaco in pastiglia non entra quasi mai. È la medicina manuale, una di quelle definite, in modo assai pressappochista, “alternative”. Serve a curare i nostri guai, per esempio eliminando gli ostacoli meccanici, strutturali delle vie di comunicazione liquide e nervose: se un vaso sanguigno è compresso da un problema meccanico, il sangue non arriverà come deve ai nervi, gli organi recettori ne risentiranno e avremo difficoltà nel muoverci. L’osteopata usa le mani per sentire quanto movimento abbiamo perso. Il movimento è la vita, dalla respirazione alla danza, da Leonardo da Vinci ad Andrew Taylor Still, medico statunitense del tardo Ottocento considerato dai più ilpadre dell’osteopatia. Per la verità, Still, uomo di lunga vita e straordinaria intelligenza, tenne a precisare che non riteneva di “essere l’autore di questa scienza, nessuna mano umana ne ha disposto le leggi (…) anche perché i principi meccanici su cui l’osteopatia si basa sono vecchi quanto l’universo”.
Osteopatia, chiropratica, chinesiologia, posturologia, medicina e altre tecniche manuali. Come orientarsi? Spinti dalla convinzione che a lettori tanto inclini all’autogestione e all’autogoverno – cioè al far da sé – come quelli di Comune, non potesse non interessare la possibilità di un considerevole aumento del tasso di autogestione del corpo e di autodeterminazione delleproprie cure e guarigioni, abbiamo chiesto aiuto a Gianluca Fratoni. Che è un medico chirurgo molto appassionato ma è anche un omeopata ed è presidente della Società italiana dei medici osteopati e chiropratici. Siamo andati a trovarlo nel suo studio Chinesis di via Beltrami a Roma. Ne è venuta fuori una lunga e piacevole chiacchierata che speriamo possa interessare soprattutto chi ha intenzione di riflettere sulla sostanziale differenza tra la cura di una patologia e di un organo malato e la cura di una persona: una donna, un uomo, un bambino che sta soffrendo.
Molti dei pazienti che soffrono di patologie vertebrali anche molto comuni sono portati a seguire percorsi obbligati. C’è chi la chiama la via crucis vetrebrale: comincia con ilVoltaren, o con altri anti-infiammatori, e finisce in sala operatoria con una semplice ernia del disco. Ci si sente confusi, angosciati, disorientati nel passare da una terapia all’altra, quando poi il dolore diventa frequente e insopportabile si cede all’illusione dell’intervento risolutivo, quello più drastico e invasivo. Ho visto dati, non so quanto attendibili, numericamente impressionanti: alcune fonti parlano di oltre 15 milioni di italiani affetti da lombalgie e addirittura 50 mila interventi chirurgici l’anno per ernia del disco. La spesa annua per i Fans, i farmaci analgesici, anti-infiammtori e antipiretici, secondo il ministero della salute (Impact 2013), è stata di 518 milioni di euro.
Il concetto fondamentale da conoscere è che ci sono delle linee guida a cui tutti devono far riferimento. Per quel riguarda l’ernia del disco, l’Accademia internazionale dei chirurghi ortopedici – che una volta fa riferimento a quella nordeuropea e un’altra a quella americana – già una decina di anni fa, diceva che, per arrivare ad essere operati di ernia del disco, sono indispensabili alcuni elementi. Ci deve essere un dolore lungo la gamba fino al piede che dura da più di un mese; da una risonanza magnetica si deve essere notata una correlazione tra il disco espulso e il dolore; un’elettromiografia deve aver dato un risultato positivo che mostra un danno alla radice. Bisogna infine aver fatto un percorso terapeutico per almeno un mese. Se tutto questo non ha dato un esito soddisfacente, si avrà il placet formale, burocratico per valutare l’intervento chirurgico. Accade spesso, purtroppo, che questa procedura cautelativa venga disattesa da medici che si fermano alla sintomatologia del dolore, che non fanno studi più approfonditi sul caso e, con il consenso del paziente, procedono direttamente alla chirurgia. Qualche anno fa poteva anche essere difficile fare esami diagnostici, ma adesso, con la risonanza magnetica, questo sinceramente non si spiega.
Si può valutare l’intervento ma ci sono sempre alternative?
Certo oggi non si può più nascondere il fatto che esistano discipline che sono sempre mediche ma non sono convenzionali. Finalmente, a fatica, si sono create un loro spazio anche nell’ambito delle discipline mediche tradizionali, tanto è vero che nel 2002 la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, cioè la comunità scientifica in Italia, ha accettato l’osteopatia e la chiropratica come scienze mediche. Il legislatore doveva istituire delle facoltà che poi, per gli annosi problemi economici sulla spesa statale e quella sanitaria, non sono mai state create. C’è un ritardo per il quale noi siamo ancora relegati a un ruolo assurdo, quello di una scienza di serie B. Poi, naturalmente, come in ogni altro campo, c’è osteopata e osteopata. Io sono un medico chirurgo specializzato prima in osteopatia e poi in omeopatia, diciamo che questa scienza, questa medicina non convenzionale, ce l’avevo proprio un po’ nel sangue.
Con i pazienti come ti regoli?
Il percorso che si fa in queste nostre medicine non convenzionali è un po’ diverso. Nel senso che noi sappiamo, da studi confermati dalle più autorevoli riviste internazionali, che a volte il dolore irradiato lungo la gamba non è dato da problemi dei dischi ma da componenti muscolari. Il dolore irradiato lungo il percorso del nervo sciatico, invece, può derivare anche dai legamenti interspinosi. Questo lo dice una ricerca fatta al Rizzoli di Bologna da medici italiani. Quando partecipo ai convegni, qualche volta, scherzando, ricordo che quei medici non li abbiamo più sentiti nominare, chissà magari li avranno infilati nei piloni dell’autostrada che hanno costruito lì intorno insieme alle loro importanti ricerche. Vedi, se io oggi dico che in Italia si fanno 100 interventi di protesi all’anca e di questi 100 ben 50 si potevano evitare, spendendo una cifra irrisoria in prevenzione, ovviamentedo fastidio a coloro che hanno grandi interessi economici sugli interventi all’anca.
È quello il business di oggi?
Non è più quello dell’intervento chirurgico ma quello delle protesi. Quindici anni fa, chiunque avesse un disco nero, cioè oggetto di disidratazione, veniva operato di ernia del disco. L’intervento non era fortemente invasivo e costava 8-10-12 milioni, ma c’è anche chi ne ha spesi 20 in clinica. Nel 1995-1996, Alf Nachemson, svedese, che è stato l’inventore dell’intervento chirurgico sull’ernia del disco, ha fatto una moratoria dei metodi invasivi e ha detto: signori, io ho fatto un follow upa 25 anni e ho visto che i risultati degli interventi di ernia del disco sulle lombalgie croniche sono scadenti. Abbiamo avuto una risoluzione del problema solo per il 17 per cento delle persone. Dobbiamo guardare a qualche altra cosa. Da quel momento, tanta gente, anche tanti chirurghi in buona fede, hanno iniziato a operare di meno. Ultimamente, invece, c’è il grande business delle protesi. Un ortopedico che mette una protesi guadagna parecchio, quindi facilmente a uno che ha un’anca leggermente rovinata dall’artrosi viene detto che deve fare la protesi, anzi più precisamente gli dicono: ma che aspetti a fare la protesi?
Fra 25 anni faranno un altro follow up.
Sì, e magari si accorgeranno che chi si è operato a un’anca poi ha finito per doversi operare anche all’altra. A parte le battute, però, il problema vero è quella che io chiamo la cultura del pezzo di ricambio. Qualcuno la sta spingendo molto e dice: non ti preoccupare, tanto abbiamo il pezzo di ricambio, dove ti serve? Al fegato, all’intestino, al ginocchio, all’anca? Non ti preoccupare, abbiamo già pronto quello che ti serve. Vedi il trapianto quando c’è un servizio del Tg sull’intervento a una mano presa da un cadavere, ma non vanno mai da uno che s’è messo la protesi, che si è fatto il trapianto del fegato, e gli chiedono: ma lei come sta, come si sente? Vive bene? Ecco, la cultura del pezzo di ricambio è davvero pericolosa. Uno non deve più preoccuparsi di non farsi del male, tanto poi ha il pezzo di ricambio, una soluzione si trova. È il contrario di quel che dicevamo prima sulla comprensione dei limiti, dell’esaltazione delle nostre fantastiche capacità di auto-guarigione.
Ci aiuti a orientarci meglio tra le diverse definizioni: per un profano, medicina manuale si capisce meglio di osteopatia…
Beh, in effetti io non parlo più di osteopatia. L’osteopatia non esiste, la medicina è una sola. Ci sono tante sfaccettature diverse del curarsi ma non dovrebbero esistere tante definizioni specialistiche. Sono inutili. C’è una sola cultura per far star meglio le persone.
E non è quella del farmaco, vero?
La cultura del farmaco, del medicinale da prendere, è radicata in modo impressionante dentro di noi. Mia zia ha sempre fatto la scorta per la dispensa dei medicinali. Tu gli domandavi: ma stai male? No, rispondeva, ma potrebbero sempre servire. E su questo poi, in qualche modo, ci hanno mangiato sopra un po’ tutti. Dovremmo parlare invece della cultura della prevenzione. La prevenzione non è scoprire che io ho una patologia ma è fare qualcosa perché quella patologia non si sviluppi. Se lasciamo da parte le ricerche per i farmaci antitumorali, un campo su cui non mi esprimo perché proprio non è il mio, ma per l’ambito delle patologie osteoarticolari, la prevenzione è assolutamente fondamentale. Facciamo un esempio? Non so se qualcuno si sia accorto che quello tra il 2000 e il 2010, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, doveva essere il decennio delle ossa e delle articolazioni. Le finalità erano dunque quelle di far accrescere la cultura sulle patologie osteoarticolari, sulle patologie degenerative, ecc. che tanto incidono sulla spesa sanitaria complessiva, perché parliamo di quella che tu chiami la cultura del Voltaren. Sapevo che le ultime ricerche pubblicate su Spine, una rivista molto autorevole, dicevano che il 95 per cento delle persone tra i 35 e i 55 anni perdono due settimane di lavoro l’anno a causa di una lombalgia acuta. Stiamo parlando di una cifra enorme per la spesa sanitaria. Alcuni esperimenti fatti alla Back School, negli Usa, hanno permesso di risparmiare cifre enormi per il sistema sanitario o i sistemi assicurativi. Si tratta di fare vera prevenzione, cioè andare nelle case, nelle fabbriche e spiegare cos’è la schiena, come funziona, come si protegge. Bisogna dire come bisogna sollevare i pesi e tutto quel che può servire. È semplice, con una mezz’oretta si salvano un sacco di guai per l’elettrauto, l’operaio metalmeccanico, la casalinga. Questa è la prevenzione. Adesso, dimmi: secondo te qui in Italia qualcuno ha mai prlato del decennio dell’Oms? C’è stato mai un meeting, un convegno dove si potesse parlare non agli specialisti di queste cose? No, non le sa nessuno.
Non sarà anche perché le patologie osteoarticolari sono considerate anch’esse un po’ come una serie B rispetto a quelle del cuore, del fegato o dello stomaco?
Sì, però direi che c’è troppo poco interesse a far crescere una cultura della prevenzione. Sai, a livello osteoarticolare, il discorso preventivo può far pure sorridere: evitare che qualcuno si procuri un’ernia del disco non è certo una priorità della sopravvivenza, invece bisogna fare attenzione: oggi le persone di 55 anni si mettono protesi all’anca, al ginocchio. Queste sono cose piuttosto serie. Studi fatti nel 1995 e 1996 dicevano che una protesi all’anca costava 150 milioni di lire al sistema sanitario nazionale, oggi forse saranno 150 mila euro e di certo noi arriviamo con troppa facilità a questo genere di interventi. Perché? Perché evidentemente questa scarsa attenzione agli aspetti preventivi veri, cioè alla prevenzione delle patologie, non interessa, non si capisce. C’è da dire che un po’ dipende pure dalle singole persone. È fin troppo facile dire che è sempre colpa dello Stato o del sistema sanitario. Se le persone fossero disposte ad ascoltare, a interessarsi, a crearsi una loro cultura…Poi ci vuole qualcuno che spieghi, e nessuno lo fa in modo sistematico, basilare. Noi dobbiamo farlo per forza, perché quando il paziente viene, tu lo devi accompagnare in un percorso che è fatto di attenzione, di movimento, di prevenzione. Bisogna spiegare. Allora noi, solo con la medicina manuale, con il movimento, con la bio-meccanica applicata alle articolazioni, al disco protruso, all’ernia, noi riusciamo a ottenere una guarigione che avviene in maniera naturale. Questo significa evitare un intervento chirurgico invasivo e prevenire la ricomparsa dei sintomi, perché spesso anche a chi si opera di un’ernia, magari, dopo un po’ ne spunta un’altra poco più in là. In questo modo, però, diventa un gioco al massacro, no?
Tra i lettori di Comune-info – a giudicare da quello che esprimono scrivendo commenti, mettendo in evidenza preferenze e manifestano comunque in diversi altri modi – dovrebbero essercene parecchi reattivi alla cultura del fai-da-te. Molti di loro si fanno l’orto, riparano da soli le gomme della bicicletta, ecc. Sarebbe strano se non imparassero a curarsi o a prevenire i guai senza delegare questa funzione a una figura istituzionale come il medico curante…
Beh, io ti posso dire che i miei pazienti guariscono proprio quando hanno capito questa autodeterminazione. È una autodeterminazione sul proprio corpo ma anche una presa di coscienza dei limiti, perché è chiaro che uno che ha un certo problema deve capire cosa può e cosa non può fare. Questa è cultura.
Forse dovremmo mettere in evidenza anche il piacere, la gioia di poter decidere da soli come curarsi evitando di spendere soldi inutilmente e di farsi del male
È chiaro che la collaborazione fattiva del paziente, per chi va dal medico manuale o dall’osteopata, è fondamentale. Perché la guarigione è per il 50 per cento nelle mani e nella sapienza del medico ma per l’altro 50 per cento sta nell’attenzione, nella determinazione, nella consapevolezza del paziente. La metà che dipende dal paziente è tanto. Poi, a sua volta, il paziente potrebbe decidere di trasferire la conoscenza che ha sperimentato alla moglie, ai figli, agli amici. Se la casalinga capisce che si deve stirare o rifare il letto in una particolare posizione, vuol dire che lei si salvaguarda la schiena ma riesce anche a stimolare l’attenzione del marito o del figlio i quali imparano che non esiste solo il farmaco. Non voglio demonizzare in assoluto il farmaco, sarebbe stupido, io come medico mi rendo conto che ci sono delle situazioni dove il farmaco, la protesi o l’intervento chirurgico sono indispensabili.
Però diciamo che forse è stato il farmaco a demonizzare il non farmaco. Non sappiamo fare più niente da soli che non sia prendere farmaci, neanche i fumenti…
Vero. La domanda è: perché? Perché c’è così poca attenzione per la propria salute? Perché non si riesce a prevenire, cioè a fare quelle cose che non permettono alla patologia di svilupparsi. Non è difficile da capire: più previeni, più anticipi e meglio starai, poi il medico in modo manuale può sbloccarti le cose che servono, può aiutare a far passare la crisi acuta e può spiegare come non far ricapitare certe situazioni. A quel punto dipende da te.
Sembra perfino banale, ma forse bisognerebbe cominciare da piccoli a scuola…
No, non gliene importa niente a nessuno. Se vai a leggere i programmi delle scuole, anche quelli dell’asilo, vedi cose fantastiche: bisogna lavorare sulla psicomotricità perché, come diceva il suo inventore Jean le Boulch, ne va della strutturazione del sistema nervoso centrale. Se salti certi passaggi, lo strisciare, la deambulazione a quattro zampe, poi avrai dei ritardi strutturali. Nei fantastici programmi, c’è la strutturazione dello spazio tempo, del corpo umano, delle coordinazioni di base. Poi vai a scuola e non ci sono nemmeno le palestre. Sono solo chiacchiere dei legislatori, di quelli che scrivono i programmi. Vedi, il bambino comincia a fare astrazioni solo dopo alcuni anni, ma se tu gli dai due mele in mano e poi altre due, lui conta senza astrarre e arriva a quattro. L’apprendimento passa per la motricità nei primissimi anni ma, ancora una volta, in Italia tutto questo non esiste. Non ci sono soldi per gli psicomotricisti, i soldi sono finiti. Quindi le maestre fanno un corsetto di due ore e fanno fare ginnastica ai bambini. Non c’è alcun interesse al sistema educativo. Io ho fatto corsi per molti anni, venivano un sacco di medici, ma sono rimasto molto deluso.
Peccato, perché muoversi, stare in continuo movimento, vuol dire vivere meglio, no?
Nel 1906, Edison ha detto che il movimento può sostituire tante medicine ma nessun farmaco potrà mai sostituire il movimento. Il movimento è la vita come diceva anche Still, il fondatore dell’osteopatia.
http://comune-info.net/2014/01/stare-bene-dipende-soprattutto-da-noi/
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