lunedì 10 marzo 2014

Addio Robert Ashley, il maestro del contrappunto

Ritratti. Morto a 84 anni il compositore americano, autore di una musica ispirata all’elettronica sperimentale ma che sapeva trovare note malinconiche

↳ Robert Ashley

 La prima volta che se n’è saputo qual­cosa in Ita­lia, certo in ritardo, è stato nel 1974, quando l’etichetta Cramps, quella fon­data da Gianni Sassi – una delle sue tante inven­zioni per il movi­mento cul­tu­rale alter­na­tivo e sov­ver­sivo di allora (e di oggi, come dubi­tarne?) – pub­blicò In Sara, Menc­ken, Christ and Bee­tho­ven there were men and women. Si sentì dall’hi-fi una voce che par­lava solo un po’ melo­di­ca­mente e ina­nel­lava parole, soprat­tutto nomi di grandi arti­sti e pen­sa­tori della sto­ria, e intorno bru­li­ca­vano suoni sin­te­tici assor­titi. Una certa fre­ne­sia e sven­ta­tezza nei suoni, un certo gusto della «mono­to­nia» elen­ca­to­ria nella parte vocale, che pro­ce­deva ser­rata, veloce, senza variare di dina­mica o di dram­ma­tiz­za­zione. La voce parlante-recitante era quella di Robert Ashley e tutta la musica di quel pezzo, scritto due anni prima, era sua.
Sco­prire Ashley fu un pia­cere par­ti­co­lare. Ancora non si era sen­tito il rap di strada e nem­meno quello più «da con­certo» che lo avrebbe accom­pa­gnato. Quando il rap dilagò un pen­sie­rino ad Ashley chi non lo fece? Almeno tra coloro che in Ita­lia si occu­pa­vano di que­sto gran­dis­simo com­po­si­tore ame­ri­cano, ed erano per­sone che non si tro­va­vano nelle società acca­de­mi­che di musica con­tem­po­ra­nea, nor­mal­mente euro­cen­tri­che e ari­sto­cra­ti­che, indif­fe­renti alle ere­sie musi­cali non cer­ti­fi­cate dai for­mu­lari con­sa­crati, tipo seria­li­smo. In quei giri (parec­chio noiosi) lui e vari suoi com­pa­gni d’avventure sonore mera­vi­gliose, David Berh­man, Alvin Lucier, Gor­don Mumma, per esem­pio, erano sconosciuti.
Faceva «musica d’uso», Robert Ashley. Ecco per­ché i san­toni della musica auto­de­fi­ni­tasi «colta» non se ne occu­pa­vano. Ma non ci voleva molto a capire che quella «musica d’uso» era «musica d’arte» — come gli stessi san­toni defi­ni­vano (e defi­ni­scono ancora oggi) la musica «clas­sica» di tutte le epo­che — molto più d’arte di tanti eser­cizi dode­ca­fo­nici. E soprat­tutto non ci voleva molto a capire che si trat­tava di musica ori­gi­na­lis­sima, un tipo di musica che attin­geva all’elettronica spe­ri­men­tale, un po’ al mini­ma­li­smo, ma poi si disten­deva in lan­guidi acri malin­co­nici iro­nici rac­conti sonori che erano tanto raf­fi­nati quanto cor­diali. Infatti, dopo In Sara, la poe­tica di Ashley, come nel ciclo Per­fect Lives (1979-’83), parlò più espli­ci­ta­mente di angoli di strada, di bar, di par­chi cit­ta­dini, di sogni urbani fatti da per­so­naggi soli­tari, strambi e marginali.
Ashley è morto il 3 marzo a 84 anni. Cir­rosi epa­tica. Una sua nuova opera, Crash, era in pro­gramma pro­prio quest’anno. Di sicuro si tratta di un’opera con video, desti­nata al tea­tro e alla tv indif­fe­ren­te­mente. Non sap­piamo se pre­vede la par­te­ci­pa­zione di Ashley stesso come voca­li­sta. L’ultima volta che abbiamo ascol­tato suoi lavori dal vivo, a Fer­rara per l’edizione 2008 del festi­val Ater­fo­rum, era pre­sente nel cast in un titolo, Dust, e assente in un altro, Con­crete. Ma che cast di lusso met­teva in scena! Joan La Bar­bara, a sua volta com­po­si­trice, la musa di Feld­man, Cage, Reich, Glass, Subot­nick, una chan­teuse spe­ri­co­lata e dispo­ni­bile, ai ver­tici della voca­lità con­tem­po­ra­nea mon­diale. Tho­mas Buch­ner, un bari­tono capace di inter­pre­tare le par­ti­ture clas­si­che e di duet­tare con il Roscoe Mit­chell più avant-garde. E poi Sam Ashley e Jaque­line Humbert.
Grandi vir­tuosi. Ma di che cosa quando si sono tro­vati alle prese con opere di Ashley? Di un tipo par­ti­co­la­ris­simo di spre­ch­ge­sang, di un canto che non è canto, di un reci­tato che non è reci­tato, di un par­lato che non è par­lato. Non sol­tanto. E tutte que­ste cose assieme.Dust (1998) a Fer­rara era esem­plare. C’erano in scena home­less che sog­gior­na­vano sulle pan­chine di un parco e un nar­ra­tore che un po’ li pre­sen­tava e un po’ filo­so­feg­giava sulla loro vita e su di sé. Natu­ral­mente il nar­ra­tore era Ashley stesso, che si riser­vava spesso que­sto ruolo nelle sue opere più recenti, da quando non voleva più essere sol­tanto un soli­sta unico con suoni acu­stici e suoni sin­te­tici che lo attor­nia­vano, come nelle opere del periodo Lovely Music. Il nar­ra­tore a un certo punto espo­neva (in sostanza) una sin­tesi delle con­ce­zioni musi­cali del com­po­si­tore. «Se pren­dete un mazzo di idee brevi/e le dispo­nete in modo che si sovrap­pon­gano un po’/otterrete un’idea lunga. Un pensiero…».
Erano le diverse frasi musi­cali di que­sto Ashley. Rea­liz­zate con un ini­mi­ta­bile gioco poli­fo­nico in cui cin­que voci parlanti-melodizzanti si intrec­cia­vano con tempi sem­pre diversi, accenti che si spo­sta­vano sem­pre. Voci che face­vano musica men­tre rac­con­ta­vano sto­rie di quo­ti­dia­nità stram­pa­lata. I vir­tuosi del cast sfog­gia­vano quindi un tipo di dut­ti­lità par­ti­co­lare: alla pre­va­lenza del par­lato che scor­reva senza troppe scosse sape­vano alter­nare brevi fram­menti di «arie» into­nate senza alcun rife­ri­mento alla tra­di­zione dotta. Fino a un finale da vera e pro­pria com­me­dia musi­cale, con i suoni elet­tro­nici lievi dif­fusi nella sala che intro­du­ce­vano il gospel da juke-box tipo Platters.
Simile ma più ricco di mate­riali video un lavoro come Cele­stial Excur­sions (2003). È stato il lavoro con il quale, final­mente, Ashley è stato accolto nel 2006 alla Bien­nale Musica di Vene­zia, allora diretta da Gior­gio Bat­ti­stelli. Ecco come lo pre­sen­tava Ashley stesso in una inter­vi­sta al mani­fe­sto. «C’è una trama, se vogliamo chia­marla così, ma prende le mosse dal fatto che i per­so­naggi (vec­chi in attesa della morte, ndr) inven­tano la loro vita… ognuno di loro si costrui­sce una sto­ria». In scena l’intreccio delle voci par­lanti melo­diz­zanti era ancora più fitto che in Dust, ancora più gio­cato su un’idea clas­si­ca­mente musi­cale e non clas­si­ca­mente tea­trale. Un mae­stro di con­trap­punto, dicia­molo, il grande Ashley.

http://ilmanifesto.it/addio-robert-ashley-il-maestro-del-contrappunto/

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