domenica 2 giugno 2013

Nel profondo dell’Afghanistan è una donna a combattere i Talebani

di  - Maria Bashir, procuratore capo della regione di Helmand, è in prima linea nella repressione dei mariti che picchiano le loro giovani mogli o che permettono che le stesse si brucino vive. La vita sotto la Shari’a, la legge religiosa islamica,


Maria Bashir, procuratore capo della regione di Helmand, è in prima linea nella repressione dei mariti che picchiano le loro giovani mogli o che permettono che le stesse si brucino vive.
La vita sotto la Shari’a, la legge religiosa islamica, non è facile per nessuno, specialmente – ed è noto – per le donne. Nel profondo dell’Afghanistan, anche se l’approvazione della costituzione dello Stato garantirebbe uguali diritti alle donne rispetto agli uomini, questa proclamazione rimane lettera morta, perchè sono ancora gli studenti coranici ad avere il diretto controllo del territorio, senza nessuna intenzione di lasciarlo. E a subire la situazione sono, appunto, le donne afghane.
MEGLIO IL SUICIDIO – Il reportage di Mother Jones, rivista liberal statunitense, si apre nel raccontare l’escalation dei casi di suicidio per autoincendio delle donne del paese. Le ragazze considerate adultere – e per farlo, basta che abbiano un rapporto sessuale all’infuori del matrimonio – hanno un destino crudele: nessuno le vorrà più. Non potranno sposarsi, i padri sono i primi a dargli delle prostitute e il loro destino è la strada. E’ per questo che, molte di esse, si danno fuoco. Shayma Amini, infermiera all’ospedale generale di Kabul, di casi del genere ne ha visti tanti.
Amini calcola di aver visto almeno un migliaio di casi di auto-immolazione da quando ha iniziato a lavorare in ospedale 13 anni fa – praticamente tutti di giovani donne che cercavano di scappare a matrimoni abusivi o all’ipotesi di essere sbattute sulle strade da uomini che non le volevano più. Le donne sono state picchiate – o lasciate morire di fame, come una controversa legge del 2009 permette a qualche marito arrabbiato di fare. Senza via d’uscita, scelgono di darsi alle fiamme. Nel solo primo semestre del 2010, l’ospedale ha trattato 69 casi; a questo ritmo, le autoimmolazioni supereranno il totale del 2009 dal 40 o 50 percento. E lo staff dell’ospedale crede che il vero numero di casi in un singolo anno sia molto più alto di quanto registrato: molte vittime muoiono prima di raggiungere l’ospedale. Molte altre non ammetteranno mai di essersi date alle fiamme.
Storie terribili di ragazze che, oppresse dal disprezzo degli sguardi che le circondano, decidono di farla finita.
La sera prima, il padre della ragazza (poi morta, ndt) l’ha chiamata puttana, accusandola di aver dormito con un uomo fuori dal matrimonio. E’ stata portata da un medico che ha confermato il sospetto. Ora non potrà mai trovare un marito. Era senza valore per la famiglia. Per tutta la notte, la donna ha sofferto. Il giorno dopo, è corsa di sopra, si è chiusa dentro, e si è data fuoco. Ha bruciato per 20 minuti prima che il padre sfondasse la porta. Non voleva bruciarsi così profondamente, ha detto ai dottori. “Mi comporterò meglio. Fatemi vivere. Non mandate il caso alla polizia”.
Storie – tragiche – di donne in un paese dove la lotta per la libertà e la democrazia passano dal superamento sostanziale, nelle lontane provincie rurali, dei capi religiosi talebani. Nessuna forza di polizia ha l’autorità per far rispettare la legge dello Stato.
UNA DONNA AL COMANDO – La speranza di tutte le donne, continua la rivista, sta però in un’altra donna. E’ la procuratrice capo della provincia di Helmand, Maria Bashir, laureata in legge all’università di Kabul, un passato da assistente procuratore e, durante la dittatura talebana, insegnante clandestina a giovani ragazze. Ora è alla guida della procura di Helmand, e la sua vita è un inferno.
Bashir è salita alle cronache come assistente procuratore per le indagini sulla morte della poetessa Nadia Anjuman. Ha accusato il marito di omicidio dopo che egli ammise di averla picchiata. Le amiche di Anjuman dissero che lui si vergognava della poesie della donna, che descriveva molto spesso l’oppressione delle donne Afghane. Anche se confessò solo l’aggressione – e la morte di Anjuman venne classificata come suicidio – il solo fatto di accusarlo venne giudicato come un atto di coraggio, e Bashir si fece le ossa per il posto di procuratore capo. (…) “Tre anni fa”, dice Maria, “la gente aveva un’idea molto chiara del futuro dell’Afghanistan”, dice. “Ora non più”. La nuova costituzione afghana è passata nel 2004, proclamando uguali diritti per uomini e donne, ma ad oggi molti giudici danno preminenza ad un’interpretazione estremamente conservatrice della legge islamica, la Shari’a.
Una donna in trincea, Maria Bashir. Una donna rispettata dall’Occidente e minacciata di morte in patria. Tutto perchè lotta per far fare al suo paese un passo avanti verso la pienezza dei diritti per le donne, come la nuova legge dell’Afghanistan libero pretenderebbe. Ma il cammino è ancora lungo.
Gli uomini sono poligami, ma se una donna è solo accusata di sesso fuori dal matrimonio, racconta Bashir, “la punizione secondo il Corano è la lapidazione”, cosa che può ancora succedere oggi. Una donna Afghana può chiedere il divorzio solo se è in grado di produrre testimoni in Tribunale per attestare l’abuso o la negligenza. E in ogni caso, è il consenso del marito ad essere necessario per finalizzare il divorzio. Gli uomini hanno l’automatica custodia dei bambini sopra i sette anni e delle bambine sopra i nove. “Le donne preferiscono la morte alla separazione dai loro figli. Per questo si danno fuoco.”
Tutto questo deve cambiare, dice Maria Bashir. E inizia a consigliare alle donne di rivolgersi ai Tribunali. Al suo Tribunale.
Come procuratore capo, Bashir sta tentando di aiutare le donne ad alzare le loro lamentele nei Tribunali al posto del suicidio. Ha iniziato ad accusare le famiglie che hanno venduto le loro donne per matrimonio con l’accusa di rapimento. Ha iniziato ad incoraggiare le donne sopravvissute all’auto-immolazione ad accusare i mariti abusivi. Ma molte sopravvissute sono troppo spaventate dalle ripercussioni quando torneranno a casa dall’ospedale; dicono agli investigatori che le loro bruciature sono il risultato di incidenti.
E, continua la rivista, con i suoi sforzi Maria sta riuscendo principalmente ad attirarsi addosso le attenzioni di chi la vorrebbe morta.
NEL MIRINO – Un “simbolo di speranza” da “uccidere”, la definisce Mother Jones. E i Talebani sarebbero già passati dalle parole ai fatti: prima minacce verbali indirizzate ai figli della donna; poi veri e propri attentati. Maria, che era abituata ad andare in giro da sola e in maniera del tutto informale, ha dovuto cambiare il suo stile di vita, e dotarsi di una massiccia scorta armata. Non è detto che basti.
Un giorno, nel 2007, i due figli di Bashir stavano giocando per la strada. Con il numero di minacce di morte che aumentava nel risorgente movimento Talebano in Herat – anche l’ex-sindaco aderì – Bashir ottenne tre poliziotti assegnati a proteggere la sua famiglia a casa. Iniziò a ricevere telefonate: “Sappiamo quando i tuoi bambini vanno a scuola. Li rapiremo se non ti dimetti.” La polizia mantenne una guardia molto stretta, pattugliando le strade contro ogni pericolo. Il cielo si scurì e la pioggia tenne i bambini dentro casa. All’improvviso, tutto scoppiò. Una bomba scosse l’edificio. Dentro, Bashir si sentiva come se il suo corpo fosse schiacciato da una folla invisibile. I vetri rotti, i frantumi che si disperdevano ovunque nel soggiorno. I bambini andarono alla finestra divelta. La bambina urlò. Il fumo si alzava dal posto di guardia. Entrambi i poliziotti erano feriti. Uno avrebbe poi perso una gamba. Bashir corse gù per le scale dell’edificio con la sua pistola, pronta a confrontarsi con gli assalitori. “Non ho paura dei criminali”, disse ai giornalisti il giorno dopo. Solo la pioggia salvò i suoi bambini. Bashir ricevette un secondo messaggio: “Dimettiti o faremo peggio”.
Ma Maria Bashir non si è dimessa. E lotta per un Afghanistan migliore.

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