mercoledì 2 ottobre 2024

Fischia che non ti passa

 


Il Romanista (F.Vecchio)

Lo stadio stordito e stanco di un pomeriggio nato triste si “salva” con il risultato. Cristante (che fa anche gol) e Pellegrini continuano a essere bersagliati senza un reale motivo


Non ho resistito. È un limite. Ma non ho resistito. Appartenendo a quella (evidentemente oramai esigua) minoranza che vorrebbe sempre in campo Cristante e Pellegrini, al seggiolino vicino a me che, al momento dell’annuncio delle formazioni, non risparmiava fischi e grida di disapprovazione ai due, non ho potuto fare a meno di chiedere “perché?”. E questo mi consente, oggi, di farvi conoscere lui, quello che fischia Cristante e (un po’ di più, va detto) Pellegrini, perché «sono il male di questa squadra». E voi mi scuserete, quindi, se facendo un lavoro che è fatto di parole che meritano di essere utilizzate nel loro significato, io abbia aperto un confronto serrato con il mio interlocutore. Perché, a quel punto - a costo di perdermi (che, col senno di poi, avrei fatto meglio) i primi minuti di una partita in cui abbiamo capito, una volta di più, quanto sia bravo ma sfortunato Eusebio - ho incollato il mio interlocutore al confronto senza mollarlo un attimo. Cercando, soprattutto, di stanarlo dal luogo comune. Perché a me non basta che tu mi dica che Cristante e Pellegrini siano «il male di questa squadra». Tu mi devi spiegare il perché lo sarebbero. E me lo devi spiegare ora, perché tu sarai anche libero (e ci mancherebbe) di pensare quello che vuoi di questo o quel calciatore, ma a chi ritiene, come me, che la Roma sia una fede (e sì, l’ho detto), non puoi pensare di raccontargliela così, genericamente, senza dare la prova alla base del tuo disappunto. Perché, altrimenti, significherebbe cavarsela come ai tempi dell’asilo, in cui, dai più accesi certami dialettici, tra grembiuli bianchi e fiocchi blu inesorabilmente sciolti, sarebbe uscito vincitore quello che avesse avuto la fantasia di spararla più grossa. 


E no. Stavolta no. Qui si parla del Capitano della Roma, di cui Mou (sì, Mou) ha detto che ne avrebbe voluti tre, e dell’altro centrocampista che DDR, non esattamente uno di passaggio, ha indicato a noi. E quindi, se dici che loro siano responsabili, ora, di chissà quali colpe, tu stai qui finché non me ne spieghi le ragioni. Ma malgrado la mia predisposizione ad un confronto lungo e dettagliato, quella discussione durava davvero poco. E finiva nel momento in cui, quando il mio pressing si faceva più asfissiante, quel seggiolino replicava con una domanda («Se tutto lo Stadio li fischia, ci sarà un motivo, o no?»). A quel punto, era un attimo fargli notare che quelli che sin lì avevo sentito, anche da lui, fossero, appunti, i fischi, ma non i motivi. E mi giravo ancora più convinto del fatto mio, giusto in tempo per vedere Svilar iniziare a fare Svilar.


Da quel momento, piano piano, gli strali iniziavano a concentrarsi su altro. Segnatamente, su Soulé, colpevole di non dare concretezza alle proprie azioni («è ’n artista de strada: se capisce che cò la palla ce fa quello che vole, ma nun ha capito che deve dà ’n senso alle giocate»). Ma, soprattutto, piano piano il disappunto si focalizzava sull’assenza di un gioco offensivo («Abbiamo capito che il girotondo col pallone lo sanno fare. Devono ancora studiare come si fa la diagonale»), sull’incapacità di arrivare al tiro («Quanti ne abbiamo fatti?»), su di una prestazione che metteva in risalto tutti i nostri limiti e, di contro, tutti i pregi di un Venezia che giocava – con molti giocatori reduci dalla Serie B – davvero bene («Di Francesco è bravo»). Quando, quindi, il primo tempo si chiudeva con Mancini che evitava l’ecatombe, le file per birra e panini nello spazio antistante le scale d’accesso della Tevere erano tutte racchiuse in un «si stava meglio quando si stava peggio» («Quest’anno lo ricorderemo per i troppo cambi di allenatore, vedrai»). E, ovviamente, la domanda che iniziava a serpeggiare è cosa ne sarebbe stato, alla fine della partita, se il risultato fosse rimasto quello («Non voglio pensare a quello che inevitabilmente succederà se perdiamo oggi»). 


Per fortuna, non c’era il tempo di cercare una soluzione a quella scomoda ipotesi, perché iniziava il secondo tempo e la testa, di tutti, non era più a quello che era stato ma a quello che non avrebbe dovuto essere («Basta tutti contro tutti: adesso tocca pensà a vince»). Il problema, nostro, è che il Venezia risegnava dopo un’azione bellissima, che metteva in mostra troppi nostri limiti, ma la soluzione, per noi, è che risegnava grazie ad uno che stava in fuorigioco forse con un pezzetto di menisco. Un segnale. Da quel momento, la partita prendeva un’altra piega. E la prendeva anche perché Svilar rifaceva Svilar, perché entravano Baldanzi e Pisilli, perché Cristante, su appoggio di Pellegrini, riscuoteva il credito che da Marassi avevamo con la sfortuna. Poi, dopo, lo sentivi che avremmo potuto farcela. E quando Paredes, uno che non a caso gioca con la 16, decideva di andare a battere il calcio d’angolo sulla testa di Pisilli, potevo risentire, dallo stesso seggiolino dell’altra partita, che il gol l’aveva segnato «Capitan Futuro». Finiva, quindi, come avrebbe dovuto finire fin dall’inizio. Anche se in mezzo c’è stata una partita che ha aumentato tutti i dubbi che già avevamo copiosi («Nel gioco, molti passi indietro»). E finiva con la Squadra costretta, malgrado la vittoria, a prendersi i fischi dalla Sud; con Eusebio che ci aveva fatto vedere che a pallone si può giocare bene anche se non sei il Madrid; con tutti convinti che, se tra giovedì e domenica non fai due vittorie, da questo clima non esci. In poche parole, si stava meglio quando si stava peggio.

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