Tina la conosceva bene la montagna. E quindi sapeva cosa poteva succedere. L’aveva detto e l’aveva scritto diverse volte. E per questo si era guadagnata il nomignolo di Cassandra. In fondo lei chi era? Una semplice giornalista di provincia, forse troppo ideologizzata, che non capiva che il mondo andava avanti, e il progresso comportava delle scelte.
Ma lei Tina Merlin, che da giovanissima era stata partigiana, continuava a sostenere che il progresso non si può fare sulla pelle delle persone. E quindi non aveva paura di criticare quel faraonico monumento alla modernità, ma anche alla cupidigia e alla sventatezza umana, rappresentato da una diga di 261 metri di altezza, per un volume di 360.000 metri cubi. Quando fu costruita, tra il 1957 e il 1960, la diga del Vajont era la più alta del mondo.
Tina aveva raccontato della fragilità della montagna, dei rischi per le persone, dei soprusi della SADE, l’azienda costruttrice. Aveva raccolto le preoccupazioni e le paure degli abitanti della zona, e per questo chiedeva alle istituzioni di intervenire a tutela del territorio e delle persone. Ma le istituzioni non la ascoltarono, e la SADE la denunciò per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico”. Il tribunale ovviamente la assolse, perché quello che Tina Merlin scriveva era drammaticamente vero, tanto che in quel periodo si erano già verificate delle frane.
E dove ci sono frane non si possono costruire dighe. Non lo dice solo il senso comune ma anche studi scientifici già noti all’epoca. Eppure, la logica del profitto a ogni costo che animava funzionari corrotti, tecnici compiacenti, politici e industriali senza scrupoli, fece ignorare gli studi, chiudere nei cassetti le relazioni tecniche che rilevavano i rischi, e archiviare gli esperimenti che dimostravano cosa sarebbe potuto accadere se un pezzo di montagna fosse finito nel bacino artificiale.
E cosa è successo lo sappiamo benissimo: una frana si staccò dal monte Toc, precipitò nel bacino, provocò un’onda di duecentocinquanta metri.
Ma non fu una tragica fatalità, o una rivalsa della natura, come pure scrisse gran parte della stampa in quei giorni.
Quello che accadde il 9 ottobre 1963 alle 22.35 fu una strage annunciata che si sarebbe potuta e dovuta evitare. Un paese intero, Longarone, spazzato via. Duemila morti.
Tina Merlin all’indomani della tragedia si rimproverava di “non aver fatto di più per indurre il popolo di queste terre a ribellarsi alla minaccia mortale che ora è diventata una tragica realtà”.
Ma lei ci aveva provato ad avvertire, solo che nessuno voleva sentirla. Era considerata talmente scomoda, che per anni non riuscì nemmeno a trovare un editore per il suo libro “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont”. Ci riuscirà venti anni dopo la tragedia, nel 1983.
E basandosi proprio su questo libro, Marco Paolini ha costruito quel capolavoro di teatro civile che è “Il racconto del Vajont”, che tutti dovremmo vedere, almeno una volta, perché come ha scritto Tina Merlin:
“Oggi, tuttavia, non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa”.
La farfalla della gentilezza
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