Con le sue milizie il generale uzbeko dell'Alleanza del nord combattè i Talebani
Violento e spregiudicato, fu usato dagli americani e poi ricompensato
di GUIDO RAMPOLDI
Rashid Dostum
Se in futuro si farà quel Processo
all'amministrazione Bush considerato salutare dalle organizzazioni per i
diritti umani, ma inopportuno da Obama (almeno in questo momento), il
massacro di duemila prigionieri Taliban probabilmente non sarà un
cavallo di battaglia dell'accusa. Anche se trovasse conferma che la Casa
Bianca scoraggiò ogni tentativo di fare luce sulla strage, presidente e
vicepresidente potrebbero appellarsi con diritto alla Ragion di Stato.
Ad assassinare i prigionieri e gettarli nelle fosse comuni a
Dasht-e-Leili, vicino a Shibergan, furono i miliziani del generale
Dostum, una figura di spicco di quell'Alleanza del Nord cui gli
americani avevano di fatto consegnato l'Afghanistan. Arrestarlo,
condannarlo, avrebbe messo a rischio le relazioni con l'intero
schieramento dei mujahiddin afgani, e in definitiva lo stesso piano di
stabilizzazione del Paese, così come Washington l'aveva (erroneamente)
prefigurato. E tuttavia proprio Dostum ci introduce ai due peccati
capitali per i quali, se non la giustizia ordinaria, certamente la
storia condannerà i Bush e i Cheney, e quegli otto anni sventurati: una
cieca indifferenza ai diritti fondamentali, un affarismo sfrenato. Della
prima colpa sappiamo quasi tutto, e se siamo onesti, dovremmo
aggiungere che abbiamo sempre saputo. Invece non conosciamo ancora il
sistema che, in Iraq e in Afghanistan, premiò la rete di imprese che
viaggiava al seguito degli intraprendenti neocons.
Ma potremmo saperne presto, se è vero che, cambiata l'amministrazione, è cambiata anche la disposizione con cui lavorano i due uffici ispettivi ad hoc, il Sigir e il Sigar, demandati a vigilare sulla ricostruzione in Afghanistan e in Iraq. Nelle relazioni al Congresso, finora Sigir e Sigar non hanno notato irregolarità sistematiche. Ma a Kabul politici assai vicini al governo raccontano di un metodo collaudato per il quale le tangenti sui grandi appalti vengono spartite tra un'impresa statunitense e un'impresa afgana (la prima in genere legata all'apparato militare, la seconda a leader locali). E stando a quanto raccontano diplomatici di casa in Medio Oriente, intorno alla ricostruzione dell'Iraq sarebbe accaduto ben di peggio.
Posto su questo sfondo, il corpulento
Dostum non risulta una figura atipica. Oggi considerato il leader degli
afgani di etnia uzbeka, ha sempre mostrato una notevole predisposizione a
sovrapporre affari e collocazione politica. Ufficiale addestrato nelle
accademie militari sovietiche, quando capì che il regime comunista
sarebbe stato sconfitto aprì le porte di Kabul ai mujahiddin. Ne ebbe in
premio, oltre ad un lauto ingaggio, una sorta di signoria sul
nord-ovest dell'Afghanistan, popolato dall'etnia uzbeka. Quando i
Taliban presero Kabul si arroccò nelle sue terre. La sua fama pessima di
capo di una milizia di tagliagole non gli impedì di essere invitato
negli Stati Uniti da un pensatoio influente e autorevole, Carnegie
Endowment. Concluse quel viaggio con una puntata in Texas, dove arrivò,
si racconta, con un fascio di mappe, le carte delle prospezioni
minerarie compiute dai sovietici. Qualsiasi accordo avesse concluso, fu
vanificato dalla guerra. I Taliban occuparono i suoi possedimenti dopo
una guerra ferocissima e punteggiata da massacri orrendi. Il primo nel
1998, quando gli uzbeki di Mazar-i-sharif finsero di arrendersi e la
notte uccisero i Taliban che erano entrati in città, ignari della
trappola.
La vendetta dei Taliban non fu meno atroce: conquistata la città con l'aiuto dei consiglieri militari pachistani, ammazzarono le centinaia che si erano arresi e tutto il personale del consolato iraniano, in quanto Teheran aiutava l'Alleanza del nord, dunque anche gli uzbeki.
Dati questi precedenti era fin troppo chiaro quel che avrebbero fatto le sgangherate milizie uzbeke quando i bombardamenti dell'aviazione americana le avessero messe nella condizione di riprendersi il nord-est. Ma nessuno se ne preoccupò. I guerrieri di Dostum ammazzarono i prigionieri Taliban all'incirca nello stesso modo in cui i Taliban avevano ammazzato, due anni prima, i prigionieri uzbeki. Li fecero viaggiare nel deserto nei cassoni di camion arroventati dal sole; chi non morì per asfissia fu freddato all'arrivo alla fossa comune. Altri cinquecento prigionieri Taliban vennero uccisi all'interno di una fortezza adibita a carcere. Stando agli uzbeki, un detenuto lanciò una granata contro alcuni secondini e altri prigioneri si unirono alla rivolta. Ma la strage fu di tale entità da far dubitare di questa versione. Comunque l'Occidente non ne fu impressionato e non si pose domande. Di lì a qualche mese gli americani mandarono in Iraq i 150mila soldati che avrebbero potuto stabilizzare l'Afghanistan. I governi europei mandarono cinquemila soldati Nato a Kabul, ma con l'ordine di non uscire dalla capitale. Si fossero spinte nelle altre città, quelle truppe avrebbero potuto tentare di rimettere in piedi lo Stato. Ma avrebbero dovuto ricevere rinforzi e affrontare rischi. Così tutti, americani ed europei, bellicisti e pacifisti, preferirono che alla stabilizzazione dell'Afghanistan provvedessero le uniche truppe disponibili, le milizie dei comandanti mujahiddin. Dei generali Dostum.
Ma potremmo saperne presto, se è vero che, cambiata l'amministrazione, è cambiata anche la disposizione con cui lavorano i due uffici ispettivi ad hoc, il Sigir e il Sigar, demandati a vigilare sulla ricostruzione in Afghanistan e in Iraq. Nelle relazioni al Congresso, finora Sigir e Sigar non hanno notato irregolarità sistematiche. Ma a Kabul politici assai vicini al governo raccontano di un metodo collaudato per il quale le tangenti sui grandi appalti vengono spartite tra un'impresa statunitense e un'impresa afgana (la prima in genere legata all'apparato militare, la seconda a leader locali). E stando a quanto raccontano diplomatici di casa in Medio Oriente, intorno alla ricostruzione dell'Iraq sarebbe accaduto ben di peggio.
La vendetta dei Taliban non fu meno atroce: conquistata la città con l'aiuto dei consiglieri militari pachistani, ammazzarono le centinaia che si erano arresi e tutto il personale del consolato iraniano, in quanto Teheran aiutava l'Alleanza del nord, dunque anche gli uzbeki.
Dati questi precedenti era fin troppo chiaro quel che avrebbero fatto le sgangherate milizie uzbeke quando i bombardamenti dell'aviazione americana le avessero messe nella condizione di riprendersi il nord-est. Ma nessuno se ne preoccupò. I guerrieri di Dostum ammazzarono i prigionieri Taliban all'incirca nello stesso modo in cui i Taliban avevano ammazzato, due anni prima, i prigionieri uzbeki. Li fecero viaggiare nel deserto nei cassoni di camion arroventati dal sole; chi non morì per asfissia fu freddato all'arrivo alla fossa comune. Altri cinquecento prigionieri Taliban vennero uccisi all'interno di una fortezza adibita a carcere. Stando agli uzbeki, un detenuto lanciò una granata contro alcuni secondini e altri prigioneri si unirono alla rivolta. Ma la strage fu di tale entità da far dubitare di questa versione. Comunque l'Occidente non ne fu impressionato e non si pose domande. Di lì a qualche mese gli americani mandarono in Iraq i 150mila soldati che avrebbero potuto stabilizzare l'Afghanistan. I governi europei mandarono cinquemila soldati Nato a Kabul, ma con l'ordine di non uscire dalla capitale. Si fossero spinte nelle altre città, quelle truppe avrebbero potuto tentare di rimettere in piedi lo Stato. Ma avrebbero dovuto ricevere rinforzi e affrontare rischi. Così tutti, americani ed europei, bellicisti e pacifisti, preferirono che alla stabilizzazione dell'Afghanistan provvedessero le uniche truppe disponibili, le milizie dei comandanti mujahiddin. Dei generali Dostum.
(14 luglio 2009)
https://www.repubblica.it/2009/07/sezioni/esteri/afghanistan-15/rampoldi-dostum/rampoldi-dostum.html
Bush71
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