di Marco Barone (guest blogger)
Nel centenario dell’inizio della Grande guerra, questo articolo affronta nodi simbolici ed eredità odierne della cosiddetta «impresa di Fiume». Evento che, per linguaggio, stile, retorica e violenza, fu un’anticipazione del fascismo e un anello di congiunzione tra le due guerre mondiali.
Partendo dalla Calabria raggiungeremo Fiume per poi fermarci a Ronchi dei Legionari, provincia di Gorizia. Attraverso una lettura critica dell’impresa di occupazione fiumana e del personaggio D’Annunzio, metteremo in discussione la denominazione «dei Legionari», cercando di restituire la giusta dignità a un luogo, a una comunità, a una cittadina che ha lottato contro il fascismo, per quella libertà che va difesa anche attraverso i simboli, proprio quello che ci accingiamo a fare.
«Egli sapeva amarmi come tu medesimo sai. Dal Vittoriale degli Eroi egli partì per la morte a tradimento. L’orbo veggente scoprì subito il tradimento. I testimoni sono vivi.»
Con queste parole di amicizia e amore fraterno Gabriele D’Annunzioricordava il suo amico Luigi Razza, nato a Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia). Razza fu redattore del Popolo d’Italia e segretario dei Fasci d’azione di Milano, poi Deputato (dal 1924), segretario e poi presidente della Confederazione dei sindacati fascisti dell’agricoltura (1928-33), membro del Gran Consiglio del fascismo e ministro dei Lavori pubblici (1935). Morì mentre si recava all’Asmara.
Il legame tra D’Annunzio e Razza passa anche attraverso i luoghi e i simboli, e attraverso il mito dell’Impero Romano, «spada lucente» usata per calpestare la dignità di intere comunità, popoli e semplici cittadini.
Nel 1939 a Vibo Valentia venne inaugurata da Benito Mussolini, durante la sua visita alla città, il monumento dedicato a Razza. Eccolo, in Piazza San Leoluca, su un imponente piedistallo, alle sua spalle una stele con l’effigie marmorea della Vittoria alata.
Il legame tra D’Annunzio e Razza passa anche attraverso i luoghi e i simboli, e attraverso il mito dell’Impero Romano, «spada lucente» usata per calpestare la dignità di intere comunità, popoli e semplici cittadini.
Nel 1939 a Vibo Valentia venne inaugurata da Benito Mussolini, durante la sua visita alla città, il monumento dedicato a Razza. Eccolo, in Piazza San Leoluca, su un imponente piedistallo, alle sua spalle una stele con l’effigie marmorea della Vittoria alata.
A Razza «la sua città grata» ha riservato un’altra effigie nel Palazzo del Municipio, anche questo a lui intitolato. «La sua città grata» è scritto anche sul nastro della corona che periodicamente viene apposta alla base del monumento.
A Luigi Razza sono stati intitolati anche il locale aeroporto militare – base del reparto «Cacciatori Calabria» dei Carabinieri, lo stadio comunale, una piazza e la via principale del cimitero cittadino, ove primeggia su tutte l’immensa cappella del Ministro Fascista preceduta da un vialetto circondato, ancora oggi, da fasci littori, e ovviamente all’interno di quest’ultima si trovano foto di Mussolini e del periodo fascista. Del resto, sono a lui intitolate anche diverse vie in svariate città e cittadine d’Italia: Vibo, Milano, Palermo, Avola, Nicotera… Ma non finisce qui: Poste Italiane, su richiesta del Comitato Vibonese Luigi Razza, ha realizzato a margine di un recente convegno sul ministro fascista, uno stand per lo speciale annullo filatelico a lui dedicato, da apporre su una cartolina celebrativa a tiratura limitata.
A Luigi Razza sono stati intitolati anche il locale aeroporto militare – base del reparto «Cacciatori Calabria» dei Carabinieri, lo stadio comunale, una piazza e la via principale del cimitero cittadino, ove primeggia su tutte l’immensa cappella del Ministro Fascista preceduta da un vialetto circondato, ancora oggi, da fasci littori, e ovviamente all’interno di quest’ultima si trovano foto di Mussolini e del periodo fascista. Del resto, sono a lui intitolate anche diverse vie in svariate città e cittadine d’Italia: Vibo, Milano, Palermo, Avola, Nicotera… Ma non finisce qui: Poste Italiane, su richiesta del Comitato Vibonese Luigi Razza, ha realizzato a margine di un recente convegno sul ministro fascista, uno stand per lo speciale annullo filatelico a lui dedicato, da apporre su una cartolina celebrativa a tiratura limitata.
Il 19 gennaio 1928, come molte altre città dell’Italia meridionale ma non solo, Monteleone venne richiamata con il suo antico nome latino di Vibo Valentia, in omaggio alla politica fascista di «romanizzazione» dell’Italia.
Le iniziative di omaggio e identificazione con l’antica civiltà dell’Impero Romano erano state anticipate proprio nel luogo che aveva fatto da base logistica (e null’altro) al caro amico di Razza, Gabriele D’Annunzio, ovvero Ronchi di Monfalcone, da cui era partita la marcia su Fiume.
Ronchi di Monfalcone divenne Ronchi dei Legionari. Fu uno dei primi, se non addirittura, il primo cambio di nome di un Comune d’Italia, nel pieno spirito della romanizzazione del Paese a opera del regime fascista. Ronchi dei Legionari deve il suo attuale nome alla spedizione capeggiata da Gabriele D’annunzio e sfociata nell’occupazione militare di Fiume. Una forza prevalentemente volontaria e irregolare di nazionalisti ed ex combattenti italiani, partendo da Ronchi, invase e occupò Fiume, città che – è bene ricordarlo – nel Patto di Londra del 26 aprile 1915 negli articoli 4 e 5 Fiume non era inclusa nelle richieste italiane in caso di vittoria.
«In nome di tutti i morti per l’Italia giuro di essere fedele alla Causa Santa di Fiume, non permetterò mai con tutti i mezzi che si neghi a Fiume l’annessione completa ed incondizionata all’Italia. Giuro di essere fedele al motto: Fiume o morte».
Questa la formula del giuramento di Ronchi. Venti ufficiali, duecentoventidue granatieri, quattro mitragliatrici, quattro pistole mitragliatrici, sedicimila munizioni per i fucili, la spedizione ebbe l’apporto determinante di una parte di esercito, soldati frustrati e confusi in seguito alla pace, alla riduzione di personale, alla smobilitazione, che vedevano in D’Annunzio ed in Fiume, con la piena complicità dello stesso Vate, mezzi utili per fini che solo la storia sarebbe riuscita a spiegare con gli eventi successivi. Fiume era solo uno strumento, non il fine. E’ interessante, a tale proposito, la testimonianza del maggiore Carlo Reina, Capo di Stato maggiore del comando fiumano dal settembre al dicembre 1919, poi per diversi motivi allontanato dal Vate e spedito in via punitiva a Zara.
Nella relazione sulle vicende fiumane che inviò a Prezzolini nel 1921, Reina scriveva:
Nella relazione sulle vicende fiumane che inviò a Prezzolini nel 1921, Reina scriveva:
«veniva trattato l’invio di circa un centinaio di Ufficiali in Italia per avvicinare e lavorare gli ambienti più facilmente rivoluzionabili, studiare gli edifici che in ogni singola Città avrebbero dovuto essere occupati, come banche, stazioni ferroviarie, poste, telegrafi ed infine studiare il moto di armare la milizia cittadina […] Era intenzione del Poeta di inviare in Italia [durante il periodo delle elezioni politiche, NdR] un adeguato numero di legionari col preciso mandato di rompere le urne il giorno delle elezioni. Già tutto era pronto per questa spedizione quando corse a Fiume Mussolini ad impedire l’attuazione.»
Poco prima della partenza per Fiume D’Annunzio – in seguito uno deiprimi firmatari del manifesto degli intellettuali fascisti – scrisse aBenito Mussolini: «domattina prenderò Fiume con le armi». Poi lo implorò di non lasciarlo solo nell’impresa. Il 23 marzo del 1919, a Milano, Mussolini fondò i fasci di combattimento, e sempre in tale anno finanziò l’impresa di Fiume raccogliendo quasi tre milioni di lire. Una prima tranche di denaro, ammontante a 857.842 lire, fu consegnata a D’Annunzio ai primi di ottobre. In una lettera successiva, D’Annunzio certificò che parte della somma raccolta era stata utilizzata per finanziare lo squadrismo a Milano, e invitò Mussolini a fare suo il motto degli autoblindo di Ronchi:
«Mio caro Benito Mussolini,
chi conduce un’impresa di fede e di ardimento, tra uomini incerti o impuri, deve sempre attendersi d’essere rinnegato e tradito “prima che il gallo canti per la seconda volta”. E non deve adontarsene né accorarsene. Perché uno spirito sia veramente eroico, bisogna che superi la rinnegazione e il tradimento. Senza dubbio voi siete per superare l’una e l’altro. Da parte mia, dichiaro anche una volta che — avendo spedito a Milano una compagnia di miei legionari bene scelti per rinforzo alla vostra e nostra lotta civica — io vi pregai di prelevare dalla somma delle generosissime offerte il soldo fiumano per quei combattenti. Contro ai denigratori e ai traditori fate vostro il motto dei miei “autoblindo” di Ronchi, che sanno la via diritta e la meta prefissa.
Fiume d’Italia, 15 febbraio 1920 Gabriele D’Annunzio.»
E’ vero che quell’impresa è stata ben vista anche da una parte di sinistra, anche per alcuni principi adottati nella Carta del Carnaro, ma quest’ultima aveva diversi aspetti di autoritarismo puro: vietava il diritto di sciopero, e in caso di grave pericolo per la Repubblica l’Assemblea Nazionale poteva nominare un Comandante per un periodo non superiore ai sei mesi. Il Comandante esercitava tutti i poteri politici e militari, sia legislativi che esecutivi. I membri del potere esecutivo funzionavano come suoi semplici segretari. Allo spirare del termine fissato per la carica, l’Assemblea Nazionale si doveva riunire e deliberare sulla conferma in carica del Comandante stesso, sulla sua eventuale sostituzione o sulla cessazione della carica. La Carta legittimava la proprietà privata e pur confermando la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione riconosceva maggiori diritti ai produttori.
Certo, la Russia bolscevica fu l’unico paese a riconoscere la Reggenza italiana di Fiume, e alcuni esponenti politici e intellettuali della sinistra videro nell’impresa un’occasione per rivoluzionare l’esistente, ma è il caso di precisare che il resto della sinistra e molti intellettuali, artisti e persone di cultura giudicarono il tutto una buffonata.
Ecco cosa scrissero alcuni professori e intellettuali in merito alla volontà di realizzare il monumento a D’Annunzio a Ronchi:
«[...] Oggi risulta chiaro – anche secondo il giudizio della più recente storiografia – che l’impresa dannunziana rappresentò [...] la premessa ideologica e tattica del fascismo [...] D’altra parte la stessa impresa, esasperando odi locali e conflitti nazionalistici, ostacolò l’avvio ad un’equa soluzione dei problemi politici dell’Alto Adriatico. Celebrare oggi questo episodio significa screditare l’ordinamento democratico del paese e compiere opera di diseducazione politica e civile, particolarmente nei riguardi dei più giovani, ai quali si addita come esemplare un gesto irrazionale di sovversione e violenza.»
Pier Paolo Pasolini ha scritto:
«[D'Annunzio] rappresenta e esprime l’Italia nel suo momento involutivo: nel momento cioè in cui il Risorgimento ha mostrato i suoi limiti, la sua vera essenza di rivolta aristocratica, il suo liberalismo apocrifo (cfr. Gramsci), e la nuova classe borghese è cominciata a diventare quello che è: una mostruosa riserva di egoismo, di conformismo, di paura, di mistificazione, di ristrettezza mentale, di provincialismo […] L’impresa di Fiume è stata una pagliacciata narcisistica. I poveri, onesti nazionalisti friulani ne sono delle ingenue vittime.»
Narcisismo e pagliacciate tra le antiche mura di Fiume. Reina, sempre nella relazione inviata a Prezzolini nel gennaio del 1921, denunciò che «ogni sera il Poeta andava a pranzo alla mensa degli Aviatori e sempre portava in regalo a ogni commensale una bottiglia di champagne; 27 erano i commensali e 27 le bottiglie che ogni sera venivano sturate da quei signori, mentre fuori la popolazione veramente soffriva la fame».
Veniamo al punto: il motivo reale del nome Ronchi dei Legionari. Dal libro di Silvio Domini Ronchi dei Legionari Storia e documenti, 2006, a pag. 147 emerge un documento tratto dall’Archivio Comunale di Ronchi, dove si evidenzia il chiaro intento politico di stampo nazionalistico e fascista. La proposta di ridenominazione presentata il 4 ottobre del 1923 dal Consiglio comunale popolar-fascista dice:
«rammentando la nobile ed audace Impresa del Comandante G.D’Annunzio, il quale partì con i suoi Legionari da Ronchi, per suggellare l’Italianità della Città di Fiume, rendendo con ciò noto per la seconda volta il nome di Ronchi nella storia delle rivendicazioni italiane.»
Mussolini ritardò l’accoglimento della richiesta come formulata dai fascisti di Ronchi, probabilmente perché in competizione con D’Annunzio. Ma quando comprese che la denominazione «dei Legionari» si conciliava perfettamente con lo spirito della romanizzazione dell’Italia che egli voleva imporre e avrebbe imposto, e pensando che la Marcia su Fiume altro non era stata che l’anticipazione della Marcia su Roma, non poté che acconsentire, ma perché acconsentisse fu necessario un mero atto di omaggio e di fedeltà che Ronchi doveva manifestare espressamente nei confronti del Duce.
Benito Mussolini e Gabriele D’Annunzio al Vittoriale, Gardone Riviera, foto di anonimo, metà anni Venti.
Il 17 maggio del 1924 il Consiglio Comunale a maggioranza fascista di Ronchi si riunisce in seduta straordinaria e delibera di nominare Benito Mussolini «cittadino onorario di Ronchi di Legionari».
Il 2 novembre del 1925, con il Regio Decreto firmato da Rocco e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n° 283 del 5 dicembre, il governo ufficializzò il nome «Ronchi dei Legionari».
Il 20 settembre 1938 Mussolini, dopo aver presentato a Trieste le Leggi Razziali (una delle scene-chiave del libro Point Lenana di Wu Ming 1 e Santachiara), si fermò a Ronchi dei Legionari per consacrare la fascistizzazione del toponimo in armonia con la fascistizzazione dell’Italia razzista.
Va precisato che la decisione di consacrare il nome di Ronchi ai legionari di D’annunzio, all’impresa di Occupazione ed italianizzazione di Fiume, avviene nel periodo delle leggi fascistissime, come la legge n. 2029 del 26 novembre 1925 che predispone la schedatura dell’associazionismo politico e sindacale operante nel regno, o la n.2300 del 24 dicembre 1925 che rimuove dal servizio di tutti i funzionari pubblici che rifiutano di prestare giuramento di fedeltà al regime, o la n. 563 del 3 aprile 1926 che proibisce lo sciopero. Il nome «Ronchi dei Legionari» cade proprio nel bel mezzo della fascistizzazione dell’Italia. Del resto, il fascismo si è appropriato dell’impresa di Fiume, ha fatto propri i simboli introdotti dal guerrafondaio D’Annunzio durante l’occupazione della città, come il saluto romano con il braccio alzato, la camicia nera istoriata di teschi e il grido «Eia, eia, alalà!». Il nome «Ronchi dei Legionari» sarà fascista e non potrà che essere fascista.
Il 2 novembre del 1925, con il Regio Decreto firmato da Rocco e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n° 283 del 5 dicembre, il governo ufficializzò il nome «Ronchi dei Legionari».
Il 20 settembre 1938 Mussolini, dopo aver presentato a Trieste le Leggi Razziali (una delle scene-chiave del libro Point Lenana di Wu Ming 1 e Santachiara), si fermò a Ronchi dei Legionari per consacrare la fascistizzazione del toponimo in armonia con la fascistizzazione dell’Italia razzista.
Va precisato che la decisione di consacrare il nome di Ronchi ai legionari di D’annunzio, all’impresa di Occupazione ed italianizzazione di Fiume, avviene nel periodo delle leggi fascistissime, come la legge n. 2029 del 26 novembre 1925 che predispone la schedatura dell’associazionismo politico e sindacale operante nel regno, o la n.2300 del 24 dicembre 1925 che rimuove dal servizio di tutti i funzionari pubblici che rifiutano di prestare giuramento di fedeltà al regime, o la n. 563 del 3 aprile 1926 che proibisce lo sciopero. Il nome «Ronchi dei Legionari» cade proprio nel bel mezzo della fascistizzazione dell’Italia. Del resto, il fascismo si è appropriato dell’impresa di Fiume, ha fatto propri i simboli introdotti dal guerrafondaio D’Annunzio durante l’occupazione della città, come il saluto romano con il braccio alzato, la camicia nera istoriata di teschi e il grido «Eia, eia, alalà!». Il nome «Ronchi dei Legionari» sarà fascista e non potrà che essere fascista.
«E’ necessario impiegare il maggior numero di persone nella propaganda in paese e fra le truppe, oggi bisogna agitare e far sì che la Nazione tutta senta l’ora storica che attraversa. Il gesto compiuto a Fiume deve aver termine a Roma», queste le parole di Giovanni Giurati nel rivolgersi a un esponente di primo piano del combattentismo giuliano, ringraziandolo per il contributo offerto da Trieste ai legionari.
Francesco Giunta, il capo dei fascisti triestini, disse che bisognava liberare l’intera regione dall’incubo slavo, dimostrare a certi subdoli stranieri che Trieste era una città italiana che non teneva affatto alla qualifica anseatica, e poi marciare su Roma e scacciare i mercanti del tempio (Cfr. A.M. Vinci, «Dannunzianesimo e fascismo di confine», in Pupo – Todero (a cura di) Fiume, D’Annunzio e la crisi dello Stato liberale in Italia, IRSML 2011)
Né si deve dimenticare che il fascismo inserì D’annunzio tra i suoi precursori anche grazie ad alcuni stretti collaboratori del Vate come Malusardi, Marpicati, Amilcare De Ambris, che senza perdere tempo alcuno si congiunsero al nascente regime.
Innanzi al palazzo del Municipio di Ronchi domina nella piazza un monumento dedicato alla Resistenza. Ronchi ha la decorazione al Valor Militare per la Guerra di Liberazione, perché centinaia e centinaia furono i nostri concittadini che combatterono per la libertà contro il nazifascismo e per questo persero la vita.
E’ stridente il contrasto tra la denominazione fascista e la reale storia di Ronchi, l’identità di Ronchi, la vita della comunità di Ronchi, il senso di appartenenza a Ronchi. All’impresa di D’Annunzio non parteciparono cittadini di Ronchi. La città fu ed altro non fu che una semplice base logistica temporanea.
In un giorno di fine estate 2013, un gruppo di cittadine e cittadini decide di aprire un gruppo Facebook chiamato Ronchi dei Partigiani. Lo scopo del gruppo, che ha centinaia di condivisioni, è proporre una riflessione, una discussione, un dibattito sull’imposizione della denominazione «dei Legionari». Al tempo stesso, ne proponiamo anche la cancellazione, in modo assolutamente democratico, partecipato e dal basso, perché la reputiamo impropria, estranea all’identità di Ronchi e figlia della cultura fascista.
Il 15 novembre 2013 ho inoltrato una istanza di Accesso agli atti al Comune di Ronchi, dove formulavo vari quesiti e risollevavo il problema della cittadinanza onoraria di Mussolini a Ronchi, fatto strettamente connesso all’attuale denominazione.
Il Sindaco di Ronchi ha risposto in modo positivo, prendendo pubblicamente l’impegno di adoperarsi il prima possibile per revocare la cittadinanza onoraria a quasi 90 anni dalla concessione.
Anche il Partito della Rifondazione Comunista di Ronchi ha presentato una mozione per sollecitare la revoca della cittadinanza onoraria, e l’ANPI si è espresso in termini analoghi.
La campagna ha iniziato ad avere un piccolo ma importante effetto domino. Sono ancora tanti i Comuni italiani che hanno riconosciuto la cittadinanza onoraria a Mussolini senza mai revocarla. Uno di questi è Gorizia. Già, anche Gorizia ha tra i suoi “cittadini” Mussolini.
Il giulivo sindaco di Gorizia Ettore Romoli (Forza Italia)
Il Piccolo del 13 dicembre 2013 riportava la risposta data dal Sindaco di Gorizia Ettore Romoli a chi parlava di revocare la cittadinanza:
«Mi aspettavo che prima o poi qualcuno mi avrebbe posto questa domanda. Mi sembra che ci siano cose più importanti da risolvere. Lasciamo che la storia continui a dormire».
No, la storia non può continuare a dormire, l’indifferenza è il male dei mali e l’antifascismo è sempre attuale. I principi, la dignità, i valori, i diritti civil e, l’etica, devono essere sempre al primo posto. «Ci sono cose più urgenti» è la solita scusa, adottata non solo per evitare di affrontare il problema, ma anche perché, probabilmente, si condivide ciò che non si vuole revocare. Revocare l’atto di cittadinanza a Mussolini non è un semplice atto formale e simbolico, inutile per la città considerata, è invece un atto di sostanza e questa sostanza si chiama rispetto per la libertà, per la dignità di una intera comunità, rispetto per chi ha lottato contro la dittatura. Non voler revocare la cittadinanza onoraria a Mussolini significa semplicemente essere favorevoli alla sua cittadinanza ed a tutto ciò che egli e il fascismo hanno rappresentato in questo Paese.
Nello stesso tempo, ecco risvegliarsi i sentimenti dell’Irredentismo. La Lega Nazionale di Gorizia ci accusa di essere antistorici:
«Nessuno può modificare la storia ed è pretestuosa qualsiasi divagazione sull’argomento. Il 12 settembre 1919 partì da Ronchi la Marcia su Fiume e in seguito la città divenne parte integrante dello Stato italiano!».
Ancora una volta, è il caso di rimarcare che il legame tra l’impresa di Fiume e la comunità di Ronchi è un grande artificio. E’ lo stesso d’Annunzio nei suoi diari a definire Ronchi «piccolo borgo inconsapevole». Inoltre, l’impresa non ha inciso minimamente nella coscienza collettiva dei ronchesi, che non vi hanno preso parte né ne sono stati condizionati. Ne è dimostrazione il forte impegno antifascista della popolazione durante la guerra di liberazione. Quanto a rivendicare l’italianità di Fiume, è un comportamento incomprensibile oltre che anacronistico.
La Lega Nazionale ci accusa anche di aver manipolato le foto storiche, e ciò sarebbe degno della Enciclopedia Sovietica. In verità, premesso che gli abbonati dell’enciclopedia Sovietica quando un personaggio eminente “scompariva” ricevevano nuove voci da incollare sopra quelle degli scomparsi, noi non abbiamo manipolato nessuna foto. Semplicemente, abbiamo realizzato un logo che vede cancellati con una X il nome i Legionari, sostituiti dai Partigiani.
La Lega Nazionale ci accusa anche di aver manipolato le foto storiche, e ciò sarebbe degno della Enciclopedia Sovietica. In verità, premesso che gli abbonati dell’enciclopedia Sovietica quando un personaggio eminente “scompariva” ricevevano nuove voci da incollare sopra quelle degli scomparsi, noi non abbiamo manipolato nessuna foto. Semplicemente, abbiamo realizzato un logo che vede cancellati con una X il nome i Legionari, sostituiti dai Partigiani.
Ronchi non è dei Legionari, non appartiene ai Legionari e mai potrà appartenere ai Legionari.
«Il Dio di Dante è con noi», disse il Vate in un’altra occasione, il 20 settembre 1919. «Il Dio degli eroi e di martiri è con noi. È con noi il Dio tremendo e soave che ha i suoi oratorii sul Grappa, sul Montello, nel Carso, che ha le sue mille e mille croci nei cimiteri silenziosi dei fanti, che ha quattordicimila croci in quella terra arsiccia di Ronchi da dove l’altra notte ci partimmo credendo sentire nell’aria l’odore beato del sangue di Guglielmo Oberdan misto al fiato leonino dei combattenti di Marsala accorsi. […] Chi può sperare non dico di abbattere ma di flettere questa volontà umana e divina? […] E il Dio nostro faccia che il vento del Carnaro, passando sopra Veglia, sopra Cherso, sopra Lussin, sopra Arbe, sopra ogni isola del nostro arcipelago fedele e giurato, nel natale italico di Roma e di Fiume romana, giunga ad agitare vittoriosamente tutte le bandiere d’Italia.»
Queste parole di D’Annunzio sono tratte da Nel Natale di Roma, discorso pronunciato il 20 settembre 1919. E’ questo lo spirito che ancora oggi qualcuno difende e rivendica. La Fiume romana che festeggia i propri natali assieme a Roma, sua madre ideale; il ricordo di Buccari, con l’indiretto ma ovvio richiamo alla Grande guerra; l’italianità dall’area adriatica; il richiamo al luogo della cattura di Oberdan che era proprio a pochi passi dalla dimora che ospitò D’Annunzio prima di partire per Fiume; il richiamo al primo martire dell’irredentismo, alla redenzione, tutti elementi che ben connotano la marcia su e di Fiume.
Ronchi è un luogo collocato vicino al confine. E ciò che era oltre il confine orientale veniva considerato barbaro e selvaggio. D’Annunzio, al quale recentemente è stato anche dedicato uno spazio espositivo – altamente celebrativo dell’impresa fiumana – a pochi passi dal Municipio di Ronchi, così si esprimeva parlando dei croati:
«il croato lurido, s’arrampicò su per le bugne del muro veneto, come una scimmia in furia, e con un ferraccio scarpellò il Leone alato oppure (…) quell’accozzaglia di Schiavi meridionali che sotto la maschera della giovine libertà e sotto un nome bastardo mal nasconde il vecchio ceffo odioso…» (dalla Lettera ai Dalmati)
Un altro esempio del suo razzismo è ne Gli ultimi saranno i primi. Discorso al popolo di Roma nell’Augusteo, 4 maggio 1919:
«Fuori la schiaveria bastarda e le sue lordure e le sue mandrie di porci!»
«Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. Io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani.» Queste le parole esplicite, pronunciate da Mussolini durante un viaggio nella Venezia Giulia nel settembre del 1920. Come si può notare, c’è piena sintonia con il linguaggio, lo stile e l’intento dannunziano.
A tal proposito è interessante riportare quanto scrive Anna Di Gianantonio in relazione alle barbarie del fascismo in questa fetta di terra.
«Nel nostro territorio in quel breve lasso di tempo il duce aveva già mostrato il suo volto anti slavo, accanendosi contro gli sloveni della zona per non macchiare l’identità italiana di luoghi per la cui “redenzione” erano morte centinaia di migliaia di soldati durante la guerra. Territori per nulla compattamente italiani e che bisognava dunque stravolgere nella loro identità. Da qui spedizioni punitive nei villaggi intorno a Gorizia, legge Gentile sulla scuola che prima limiterà, poi impedirà di parlare la lingua slovena, inizio della procedura di italianizzazione dei cognomi, prime persecuzioni contro il clero. E siamo appena agli inizi della dittatura. Mi pare inutile continuare nell’elenco dei successivi, e ben noti, crimini del fascismo al confine orientale, segnati in maniera radicale dalla politica razzista nei confronti degli slavi, che non erano affatto, come ha recentemente affermato Sergio Romano, esclusivamente provenienti dal “contado” ma costituivano un pezzo importante della borghesia cittadina. Intervistato sulla questione della cittadinanza al duce, il sindaco Romoli ha detto che “bisogna lasciare dormire la storia”, dimenticando che è proprio perché la storia si è lasciata troppo a lungo sonnecchiare che la città ha un’identità così frammentata e debole. E’ proprio perché come italiani non abbiamo mai voluto chiedere scusa agli sloveni e riconosciuto i nostri errori che la città ha stravolto a fini ideologici il suo passato, cercando di guadagnare il più possibile dalla finta identità del “bono italiano”. Ora i tempi sono maturi per chiudere i conti con quelle vicende e iniziare una fase nuova di collaborazione tra le popolazioni del goriziano. Il GECT, l’organismo che lo stesso sindaco ha individuato come quello che dovrà rilanciare l’economia di Gorizia, è ospitato proprio nel Trgovski dom, edificio sottratto agli sloveni dal fascismo. Come si può collaborare senza togliere la cittadinanza al duce che ordinò il sequestro e la razzia di quell’edificio?»
Parole che ovviamente condivido.
Eppure in una delle pareti del Palazzo che ospita il Comune di Ronchi sono riportate due date: la prima è quella dell’impresa di Fiume, la seconda quella dell’annessione di Fiume all’Italia avvenuta il 16 Marzo 1924, quando Vittorio Emanuele III arrivò a Fiume e ricevette le chiavi della città.
Luca Meneghesso ha scritto:
«esistono, come nel caso di Ronchi, imposizioni di tipo ideologico. Più diffuse quelle di tipo nazionalistico: basti pensare a tutti i toponimi slavi (ma anche friulani?) stravolti. Ad esempio il caso del monte Krn che in italiano diventa monte Nero (per la somiglianza di Crn – nero in sloveno – e Krn) nonostante si tratti di un “becco affilato” che scintilla candido di neve per tutto l’inverno come ricorda Boris Pahor. Oppure il caso che unisce entrambe le imposizioni con Sdraussina (Zdravščine) che diventa Poggio Terza Armata: deslavizzazione, italianizzazione ed esaltazione dell’esercito al tempo stesso. Pasolini però, che nella parte critica mi pare convincente, nella parte propositiva, un monumento (?) a Ascoli, mi pare ingenuo e fuori luogo. Graziadio Isaia Ascolinon solo non fu rivoluzionario, ma neanche fu una vittima del fascismo (essendo morto nel 1907). A lui inoltre è dedicata quella Società Filologica Friulana che, nata nel 1919, è cresciuta durante il fascismo senza rischi. Ascoli, inoltre, è stato l’inventore di quel nefasto neologismo concettuale di “Venezia Giulia” che è da rigettare per diversi ordini di motivi che «altri prima di me hanno analizzato e che sono gli stessi, più altri, per cui rigettare il monumento ai legionari (oltre che il suffisso a Ronchi). È possibile a posteriori una revisione critica di un’opera imperialistica anche su un piano semplicemente toponomastico? Ronchi dei Partigiani mi piace ma la questione è più complessiva e non la risolveranno i ‘taliani/talians/italiani in quanto amministratori (e gli amministratori anche se furlani bisiachi e sloveni pur sempre italiani restano). D’altra parte neppure i sottani, furlani, bisiachi o sloveni che siano, si interesseranno alla cosa. La nominazione-denominazione è annichilente atto d’imperio. Cose da padri e padroni: non è di là che passa l’emancipazione… Scardinare il linguaggio istituzionale, viralizzare i dialetti, imbastardirsi, ripartire dal basso. Nessuno in dialetto dice “Ronchi dei Legionari” o “Venezia Giulia”: è così che Legionari e gens italiche sono già morti.»
Chissà che magari un giorno, oltre a revocare la cittadinanza onoraria a Mussolini, non si proceda anche a cancellare la denominazione «dei Legionari». E chissà che in tale momento non sia possibile realizzare tra Fiume/Rijeka e Ronchi un gemellaggio, nel nome di una storia che non dorme ma è viva e sveglia, perché la storia siamo noi. Ronchi potrebbe essere uno dei primi comuni a essere intitolato formalmente ai partigiani, e la forma sarà sostanza, sostanza di dignità.
Fiume / Rijeka oggi
Chiudo riportando la motivazione della Medaglia d’Argento al valor militare assegnata a Ronchi per l’attività partigiana svolta dai suoi cittadini dopo l’8 settembre 1943
«Già duramente provato dalle operazioni nel primo conflitto mondiale e, forte delle sue tradizioni di dignità civile e politica, reagendo con indomito coraggio alla lunga e crudele dittatura fascista, il popolo di Ronchi dei Legionari, pur se in condizioni di grave inferiorità tecnica e numerica, dopo l’8 settembre 1943, organizzò la Resistenza contro l’occupatore, impegnandolo in numerosi e cruenti scontri. Nel corso di venti mesi di lotta partigiana, malgrado persecuzioni, deportazioni nei campi di sterminio, distruzioni e torture, i Ronchesi furono tra i protagonisti della rinascita della Patria, lasciando alle future generazioni un patrimonio di elette virtù civili, di coraggio e di fedeltà agli ideali di giustizia.»
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=15535
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