Quando giocò l'ultima partita sul campo del Cosmos, a New York, non nascose le lacrime. Dopo aver vinto con la Nazionale verdeoro – caso unico – tre titoli mondiali, e dopo aver segnato quasi 1300 gol. "Il football è musica", diceva, "danza e armonia. E non c'è niente di più allegro della palla che rimbalza". Ma ha elaborato una precisa concezione del calcio, fondata sul rispetto e sulla semplicità che devono combinarsi armonicamente; e se si commette un errore, aggiunge, non si deve mai disarmare. I successi non lo hanno mai esaltato: gli piaceva ripetere che ognuno nasce con un dovere, "e il mio era quello di giocare al pallone. Ma non è il caso di cadere in delirio: non c'è partita che potrei vincere da solo, nemmeno contro undici ragazzi". Incalzato da un cronista su quali fossero le personalità al cui cospetto – nonostante la fama – provasse un po' di rimorso, citò il dottor Schweitzer e Gandhi. Diventato ricchissimo, ammise con candore che gli sarebbe piaciuto essere ricordato "come colui che ha mostrato al mondo che la semplicità è ancora la più importante qualità umana". Nel momento del congedo dal professionismo ammise la tristezza, compensata dalla consapevolezza di aver messo tutto se stesso in ciò che faceva. "E' meglio finire mentre ancora sono in cima. Meglio ritirarsi quando lo si può fare con stile". Da sempre parsimonioso e lontano da fumo e alcolici, si definiva "buon figlio, buon padre, buon marito, buon amico, buon vicino, buon tutto". Il calcio bisogna lasciarlo in tempo, prima che sia lui ad andarsene. Pelè ha mantenuto l'impegno.

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