Colin Campbell, geologo irlandese da sempre nel settore petrolifero, ha
la pazienza di chi crede senza mediazione «nei fatti» ed è abituato da
anni a veder sbeffeggiate le proprie previsioni dagli economisti e
«dagli ingegneri petroliferi». Salvo poi prendersi grandi soddisfazioni,
come quando un altro professore, nella sala del Teatro Novelli, si alza
per ricordare che «nel 1996 lei disse che nel 2005 il prezzo del
greggio sarebbe arrivato tra i 70 e i 100 dollari». Come sappiamo, è
arrivato a 71 un mese fa. Non è l'unica, e ricorda quando, da giovane
«esploratore» per conto della Bp, trovò una promettente area all'interno
della Colombia; la compagnia preferì investire per cercare il greggio
in zone più vicine al mare a ai porti, senza trovarne. 25 anni dopo,
un'altra società scavò dove lui aveva detto, con grande successo. E' per
questo che la mette giù dura: «i re ascolteranno adesso i navigatori
(gli scienziati, ndr) o ancora i monaci (ingegneri ed economisti che `hanno fede' nell'inesauribilità a medio termine del petrolio, ndr)?». Così come quando, alla fine del Medioevo, si discuteva ancora se la terra fosse piatta o tonda.
Se la prende con gli economisti, incapaci a suo giudizio di accettare o
concepire la «finitezza» delle risorse non riproducibili; cita Adelman,
che avrebbe scritto «i minerali sono inesauribili». Nel tentativo di
spiegare gli alti prezzi del greggio, per esempio, «il geologo dice che
sono stati violati dei limiti fisici», mentre «l'economista dice una
volta che mancano gli investimenti, un'altra che c'è la guerra, un'altra
ancora che è colpa degli uragani». Riassume il tutto in un concetto: «è
una diatriba tra dottori e guaritori. Da chi vi fareste curare?».
I suoi dati sono impietosi. Le «stime sulle riserve» fornite dai paesi
produttori sono «gonfiate» a partire dalla metà degli anni '80, con
improvvisi aumenti non corroborati da nessuna scoperta di nuovi
giacimenti di grandi dimensioni. La «fede» nelle capacità taumaturgiche
delle «nuove tecniche di estrazione» è immotivata, perché «tecniche più
efficienti aumentano la produzione entro una certa quantità di tempo, e
quindi esauriscono più velocemente i giacimenti». La «fede» in «altri 40
anni di petrolio» è dovuta a un calcolo elementare che le compagnie
propongono al pubblico: dividono le «riserve stimate» (gonfiate) per il
consumo annuo attuale. Un doppio errore, perché con la crescita
economica aumentano anche i consumi di greggio; e perché nessun
giacimento può mai essere sfruttato «fino all'ultima goccia». Buona
parte rimane irrangiungibile, sotto terra. Invita a guardare ai tassi di
scoperta di nuovi giacimenti: il «picco», qui, c'è stato alla fine
degli anni '60; da allora se ne scopre sempre meno. Dall'inizio degli
anni '80 la quantità dei consumi è superiore a quella delle scoperte.
E' il fondatore e coordinatore dell'Aspo, l'associazione che studia il
«picco» della produzione petrolifera, e quindi è obbligato a rispondere
alla domanda che un po' tutti gli fanno: «quando ci sarà il picco?». La
risposta non piacerà a nessuno: «quest'anno». Come se ne esce, se ha
ragione? «Si tratta di una condizione senza precedenti», perché «davanti
al declino di una risorsa per la prima volta non ne abbiamo una
migliore a disposizione». Per questo propone una serie di misure
chiamate «Il protocollo di Rimini», secondo cui bisognerebbe tagliare le
importazioni di greggio al tasso del 2,6% l'anno, convincere i
produttori ad accettare verifiche scientifiche sulle proprie riserve,
investire in altre fonti energetiche (anche lui cita il nucleare).
Altrimenti «rischiamo di prendere anche noi posto nella serie delle
specie fossili per eccesso di adattamento all'era del petrolio». Pure
ironico, l'irlandese.
https://ilmanifesto.it/archivio/2003079176
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