domenica 2 giugno 2013

IL MONDO/ Addio Timisoara. La delocalizzazione fa marcia indietro

Cambia la geopolitica del manifatturiero: produrre in Romania o in altri Paesi occidentali non conviene più. E c'è già una proposta di legge per incoraggiare i rientri


IL MONDO/ Addio Timisoara. La delocalizzazione fa marcia indietro
Milano, 1 giu. C’era una volta la Romania che parlava italiano. Quando a Timisoara, l’«ottava provincia veneta» come si diceva allora con enfasi, risultavano residenti oltre diecimila nostri connazionali, e più voli la settimana collegavano la città rumena con gli scali di Verona e Venezia. Quando almeno 1.200 aziende, praticamente l’intero distretto della scarpa sportiva di Montebelluna, più tutta la filiera del tessile e abbigliamento sull’asse Vicenza-Treviso, avevano scelto di spostare parte della produzione a 600 chilometri dalla frontiera, attratte dai salari «da fame» cui era abituata la popolazione nella Romania post-Ceausescu, e dalla totale assenza di leggi, normative e controlli. Ma poi è arrivato l’ingresso nell’Unione Europea, nel 2007; e piano piano la delocalizzazione nel «Far East dietro casa» è rallentata, fino praticamente ad esaurirsi. Se tra il 2005 e il 2010 il numero di aziende a capitale italiano registrate in Romania, secondo un’analisi effettuata dalla Fondazione Impresa di Mestre (su dati Reprint, Ice e Politecnico di Milano), è aumentato mediamente al ritmo di circa cento l’anno, successivamente c’è stato un tracollo. Nel 2011 tra Timisoara, Arad e Bucarest, le tradizionali destinazioni degli insediamenti produttivi del nostro Paese in Romania, sono state avviate appena 35 società a controllo italiano, sulle quasi 2 mila già esistenti. E l’anno scorso dovrebbe essere andata anche peggio, se pure il capofila per eccellenza dei nostri imprenditori in Romania, ovvero il patron della Geox, Mario Moretti Polegato, già console onorario generale per il Nord Est d’Italia, ha deciso di gettare la spugna e andarsene. La sua azienda, che dal 1993 era ad Arad, città 30 chilometri a Nord di Timisoara, con uno stabilimento che era arrivato a impiegare 2 mila operai, che lavorando su tre turni, 24 ore su 24, riuscivano a produrre 6 mila paia di scarpe al giorno (modelli di alta gamma, cuciti e assemblati in piccoli laboratori sparsi anche nelle campagne limitrofe, per pagare la manodopera femminile ancora meno). Polegato ha infatti messo in liquidazione nel corso del 2012 la controllata rumena Technic Development (dopo che già da un paio d’anni la gestione era stata ceduta a terzi). In Romania sono rimaste solo le aziende dell’indotto, che pur avevano seguito la Geox, trasferendosi da Montebelluna nella nuova zona industriale a sud di Timisoara, a Calea Sagului, per ricostituire una sorta di rete di servizi e forniture tutt’intorno alla multinazionale trevigiana di calzature. Ma la Romania non è un caso isolato.

La spinta alle delocalizzazioni si è andata esaurendo un po’ dappertutto. Anche in quei Paesi occidentali che nell’ultimo decennio avevano assorbito il maggior numero di aziende spostatesi all’estero. Come Francia, Stati Uniti e Germania, che nel periodo compreso tra il 2000 e il 2010, sempre secondo i censimenti realizzati dalla Fondazione Impresa (sulle sole società con un giro d’affari fuori dai confini nazionali superiore ai 2,5 milioni di euro), hanno accolto più di 7 mila aziende a partecipazione italiana, un quarto di tutte le imprese espatriate. In Francia, addirittura, il saldo 2011 tra le imprese italiane arrivate, e quelle andate via, è stato negativo, seppure di poco (-9). Più decisa invece, anche per motivi comprensibilissimi, la fuga dalla Spagna, che nell’ultimo anno preso in considerazione dalla Fondazione Impresa (il 2011) ha accusato la sparizione di oltre una trentina di aziende a capitale italiano, rispetto alle 60 e più che mediamente venivano avviate annualmente. Ma sono diminuite anche le imprese italiane in Svizzera (-11) e nel Regno Unito (-10), in Portogallo e Polonia, Canada, Australia e Repubblica Ceca. Persino in Cina (compresa Hong Kong) il saldo tra le imprese create, e quelle liquidate dai nostri connazionali, ha evidenziato nel 2011 il segno meno. Le delocalizzazioni produttive, in definitiva, si sono arrestate o quanto meno hanno conosciuto una frenata.

Il trasferimento all’estero di attività e posti di lavoro era stato in ogni caso massiccio nel primo decennio del secolo. Tra il 2000 e il 2010, più di 10 mila aziende hanno spostato parte della produzione all’estero, all’inseguimento di una maggiore produttività e un più forte contenimento delle spese. Un esodo per fuggire da tasse infrastrutturali, che ha portato alla delocalizzazione di più di 400 mila posti di lavoro. Ma questa emorragia si è andata a sommare al milione e più di impieghi già fuoriusciti dai confini nazionali, con le delocalizzazioni della prima ora, che avevano spinto a partire altre 17 mila aziende. In tutto, oltre 1 milione e mezzo di posti di lavoro che per più dei due terzi se ne sono andati da Lombardia, Piemonte, Lazio e Veneto, approdando in Usa, Francia, Brasile, Germania, Romania e Spagna, Cina, Regno Unito, Polonia e Argentina, per citare le dieci più importanti destinazioni del made in Italy. «Il rallentamento dell’internazionalizzazione è evidente», commenta Daniele Nicolai, ricercatore della Fondazione Impresa, «ed è dovuto in parte all’andamento generale dell’economia e al deterioramento della nostra imprenditoria falcidiata da cinque anni di crisi». «Ma è difficile che questa voglia di andar via venga completamente meno», continua Nicolai, «fin quando non saranno stati rimossi gli ostacoli che rendono difficile fare impresa nel nostro Paese: tassi d’interesse elevati, ritardi nei pagamenti, tempi della giustizia lunghi».

È difficile, insomma, che adesso le aziende italiane decidano di spostarsi verso le ultime frontiere della globalizzazione, come Bangladesh, Vietnam, Cambogia. Ma è anche improbabile che rientrino tutte in Italia, almeno spontaneamente. Per incoraggiarne il possibile ritorno esiste già una proposta di legge. A presentarla è stata l’onorevole Simonetta Rubinato, del Pd, che l’ha già fatta avere al nuovo ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato. Il testo di legge, elaborato dal commercialista veneziano Giovanni Piasentin, si ispira a una riforma introdotta in Germania nel 2008, che ha determinato il calcolo a fini fiscali delle attività trasferite all’estero dalle aziende che delocalizzano. Anche quelle immateriali, come licenze, brevetti e marchi. In sostanza, si tratta di una nuova tassa, che ricadrebbe sui profitti realizzati fuori dai confini da quelle imprese che utilizzano competenze e know-how sviluppati in patria.

Sandro Orlando

http://www.ilmondo.it/esteri/2013-06-01/il-mondo-addio-timisoara-delocalizzazione-fa-marcia-indietro_266340.shtml

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