mercoledì 25 luglio 2012

Come si poteva essere comunisti?


Come si poteva essere comunisti?

Scovare le tracce di comunismo cancellate, specialità di Pierluigi Battista, è ormai una ridondanza. Ma il mistero della prassi benefica che faceva tanto male, e con successo di pubblico e di critica, resta ben presente.

Sono piuttosto in ansia, perché forse sta per arrivare, prima o poi arriverà, il momento in cui Pierluigi Battista, benché amico, mi sceglierà come bersaglio e rivelerà che ho cancellato alle mie spalle le tracce vergognose di un comunismo giovanile. Se quel momento non arriverà presto è solo perché io non sono importante, non rappresento che me stesso, non sono opinion maker, non sono autore di bestseller e (per discrezione o prudenza) non alzo troppo la voce. Perciò Pigi avrà forse pietà di me e mi risparmierà. Ma io lo aiuterò a dire la verità, tutta la verità su tutti, anche su di me, impietosamente.
Ebbene anch’io, se non mi sono mai sentito all’altezza del comunismo, né riformista italiano, né rivoluzionario internazionale, confesso tuttavia di aver simpatizzato. Ho scritto su riviste estremiste oscillanti fra socialismo radicale, anarcosindacalismo, trotzkismo, maoismo e marxismo critico-utopico, condito di radicalismo liberale e anarchismo.
Dunque, in verità, non sono del tutto certo di essere stato comunista nel senso in cui Battista usa il termine quando smaschera gli ex comunisti. Però ho dei sospetti su di me. Mi pare di aver parlato e di essermi comportato a volte come se fossi comunista. E visto tutto ciò che ora e da tempo sappiamo del comunismo reale, di quello teorico, utopistico e morale, sento che dovrei almeno intellettualmente vergognarmi di aver creduto che la tradizione rivoluzionaria su basi marxiste non fosse esaurita, ma fosse attuale nell’Europa e nell’America degli anni Sessanta.
Non ero il solo a crederlo. E ora mi chiedo incredulo come sia stato possibile darsi da fare immaginando che una rivoluzione operaia o proletaria fosse alle porte a Milano, a Torino, a Berlino, a Parigi e in Calabria, mentre nell’est europeo rivoluzione voleva dire liberarsi dei comunisti al potere.
Se penso che più del cinquanta per cento degli intellettuali occidentali (e parlo dei migliori) si accusavano a vicenda di non essere abbastanza marxisti, rivoluzionari e comunisti, mi tranquillizzo un po’: Pigi Battista prima di accorgersi di me, che sono stato e sono così poco importante, avrà molto da lavorare nella sua ricerca delle tracce e macchie vergognose degli intellettuali. Aver simpatizzato per il fascismo, che fu alleato del nazismo, era ed è considerato vergognoso. Ma essere stati fieri di dichiararsi comunisti non è meno grave. Moralmente forse meno grave: perché i comunisti dicevano di volere il bene dell’umanità, la liberazione e l’autogoverno degli oppressi, il libero sviluppo di ognuno e di tutti in una società di uguali: mentre i vari fascismi predicavano la disuguaglianza come sacrosanta, l’asservimento dei deboli, degli inferiori e degli sconfitti, la società gerarchica, lo stato autoritario e la bellezza della guerra. Farsi piacere il fascismo, così chiaro su se stesso, era perciò immorale. Ma intellettualmente era molto peggio l’adesione al comunismo reale (ce n’è stato un altro? il marxismo ha sempre esaltato il proprio realismo scientifico, credendo di avere in pugno la realtà).
Non capire o fare finta di non sapere (per non “fare il gioco dei padroni”) che in nome del bene il comunismo aveva fatto il male, sterminando e terrorizzando milioni di innocenti, questa è una vergogna intellettuale il cui peso, per ogni intellettuale, dovrebbe essere schiacciante.
Ho letto due settimane fa sul Corriere della Sera l’articolo di Battista sull’occultato passato stalinista della poetessa Wislawa Szymborska. Ho letto poi sabato scorso sul supplemento libri di Avvenire l’articolo della polonista Giovanna Tomassucci in cui si dimostra che Szymborska non ha occultato nulla, anzi ha pubblicato perfino una poesia sul suo passato politico, limitandosi a non riproporre in volume i suoi versi su Lenin e sulla morte di Stalin, non solo per il loro contenuto, ma perché evidentemente brutti. Chissà per quale concomitanza di antipatie Battista si è messo a esercitare la pratica dello smascheramento in un caso in cui non c’erano maschere. Non riesco a sospettare l’Avvenire, che ha difeso Szymborska, di essere radical chic, né la Adelphi, che ha pubblicato le sue opere, di essere affetta da populismo filocomunista.
Faccio una proposta. Visto che una buona metà del Novecento è stata occupata dalla lotta fra comunisti e fascisti; visto che in questa lotta era difficile non schierarsi, dubbiosamente, tatticamente o con fede cieca; visto che fra il 1920 e il 1945 migliaia di intellettuali sono stati militanti o simpatizzanti da una parte o dall’altra, darei per scontato che ormai, in materia, da scoprire non c’è molto. O meglio, c’è troppo: i casi individuali sono innumerevoli, a raccontarli tutti non si finirebbe più, a equipararli tutti si farebbe torto alla storia e alle storie di ognuno. Una cosa (come giustamente Battista riconosce) è certa: non si capisce che cos’è una dittatura se si dimentica che rifiutando di ubbidire, anche solo a parole, si rischia la vita, cosa che spiega debolezze e tradimenti delle proprie convinzioni.
Ma credo che il problema più interessante per le nostre generazioni, per chi è nato negli anni Quaranta e Cinquanta, sia oggi un altro. Dovremmo spiegarci e spiegare come è stato possibile credere con veemenza nel comunismo rivoluzionario fra il 1960 e il 1980. Questo è il problema.
Leggi Marx e Lenin attraverso i tiggì di Giuliano Ferrara

Fonte: Il Foglio

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