di Chiara Baldi
Un Paese di precari e sottopagati. È
quanto emerge dall’indagine Excelsion di Unioncamere e Ministero del
Lavoro e dalla Relazione Annuale di Bankitalia. Precari perché, secondo
Unioncamere, ormai meno di due lavoratori su dieci ottengono un
contratto a tempo indeterminato, e gli stipendi sono fermi al 2000.
Sottopagati perché, per Bankitalia, dall’inizio del Millennio al 2010
gli stipendi sono aumentati di soli 29 euro (+2%), passando quindi dai
1410 euro ai 1439 euro. Chiaramente, la mannaia l’hanno data la crisi
economica e anche i tagli agli statali che, almeno per il momento, non
vedranno toccarsi le tredicesime (a differenza di quelli spagnoli che, a
Natale non avranno abbastanza euro per festeggiare).
Ma sarebbe ipocrita e anche abbastanza
pressappochista continuare a dire che “è (solo) colpa della crisi”. Ché,
forse, se non ci fosse la crisi saremmo un Paese con zero precari e con
stipendi da sogno? No, decisamente no. La lunga marcia verso il
precariato comincia nel lontano 1983, quando viene introdotto il
contratto di formazione lavoro. L’anno dopo, poi, il contratto
part-time. Ma è tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000 che il
processo di precarizzazione comincia seriamente e in modo irreversibile.
Nel 1997, infatti, l’allora Ministro del Lavoro Tiziano Treu mise il
suo nome in calce al famoso “Pacchetto Treu”, che introduceva, tra le
tante novità, lavoro interinale, co.co.co. e stage gratuiti. Nel 2005,
lo stesso Treu ammetterà, in un’intervista, che «gli abusi registrati
successivamente non riguardano tanto la quantità. I numeri
dell’interinale sono limitati, ma il ricorso reiterato a questo
strumento perpetua situazioni di precarietà e che colpisce soprattutti i
giovani. Lo stesso abuso che si registra nella reiterazione dei
contratti a termine; uno strumento non inventato nel 1997, ma esistente
da sempre». E poi ancora, sempre in quell’intervista, Treu avvertiva
che, con la Legge Dini sulle pensioni, e malgrado i ritocchi all’insù
del Governo Prodi, «finché sul lavoro subordinato grava il 33% di
contributi sociali e sui co.co.co. Il 18%, la tentazione a mascherare il
lavoratore dipendente da co.co.co. sarà difficilmente superabile». La
chiamava tentazione, oggi i molti giovani precari a spasso da un’azienda
all’altra la chiamerebbero “truffa legalizzata ai danni del
lavoratore”. Punti di vista, insomma.
Il colpo di grazia arriva però nel 2003,
con l’entrata in vigore della Legge Biagi, approvata anche un po’ sulla
scia emotiva dell’assassinio del giuslavorista bolognese.
Quarantaquattro forme contrattuali e tantissime possibilità, per le
aziende, di risparmiare sulla forza lavoro. Contratti a progetto con
stipendi miseri e nessuna garanzia per il lavoratore, che nei mesi di
pausa tra un progetto e un altro ha solo una possibilità: appoggiarsi
alla famiglia, vero e unico ammortizzatore sociale di una generazione
costretta a “rimanere a casa”. L’hanno chiamata “flessibilità”, l’hanno
definita «indispensabile» e un po’ i giovani ci hanno anche creduto.
Prima si sono iscritti in massa all’università riformata, poi si sono
laureati spesso con ottimi voti e pagando fior fior di tasse e ora si
ritrovano con le mani in mano, a chiedersi che cosa debbano farci con le
competenze acquisite se poi, nessuno, ritiene necessario pagarli
equamente per il lavoro svolto.
Ecco perché oggi, a leggere questi dati,
per i precari e i sottopagati di questo Paese alla deriva non c’è
davvero nessuna “notizia”: non serviva Unioncamere e Bankitalia a
ricordare loro quanto in basso sia caduto il loro stipendio e la loro
dignità di lavoratori. Non serviva neanche l’Istat che, qualche
settimana fa, ha annunciato che il 36% dei giovani tra i 15 e 24 anni
sono disoccupati: bastava fare un giro negli uffici di collocamento,
negli uffici del personale delle aziende stracolme di curricula per
capire che in quelle stanze c’era probabilmente più di un terzo dei
giovani italiani in fila. Bastava aprire la casella di posta elettronica
di un qualsiasi (neo)laureato e andare a curiosare nella “posta
inviata” per vedere quanti cv quotidianamente manda e poi passare in
“posta ricevuta” per capire in quanti gli rispondono, e magari pure
positivamente. Bastava, insomma, stare tra di loro, tra quelli che
“sognano un lavoro” per capire che non è solo la crisi ad aver ridotto
la quarta potenza economica europea ad un ricettacolo di precari,
disoccupati e sottopagati.
Il posto fisso, dice Monti, è “monotono”
e infatti il ritornello di questi anni è stato: “siate flessibili,
perché la flessibilità aumenta la vostra professionalità”. Ora, dopo più
di dieci anni di flessibilità ci siamo resi conto che ad essere
aumentata è solo la precarietà, mentre gli stipendi si sono
vertiginosamente abbassati. Probabilmente abbiamo un esercito di lavori
super competenti e ad alta professionalità, ma cosa ce ne facciamo se
poi non li impieghiamo per far ripartire il Paese?
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