lunedì 23 luglio 2012

Precari, sottopagati e disoccupati. Ecco l’Italia del Terzo Millennio

 

precario1 e1343048248178 Precari, sottopagati e disoccupati. Ecco lItalia del Terzo Millennio
di Chiara Baldi

Un Paese di precari e sottopagati. È quanto emerge dall’indagine Excelsion di Unioncamere e Ministero del Lavoro e dalla Relazione Annuale di Bankitalia. Precari perché, secondo Unioncamere, ormai meno di due lavoratori su dieci ottengono un contratto a tempo indeterminato, e gli stipendi sono fermi al 2000. Sottopagati perché, per Bankitalia, dall’inizio del Millennio al 2010 gli stipendi sono aumentati di soli 29 euro (+2%), passando quindi dai 1410 euro ai 1439 euro. Chiaramente, la mannaia l’hanno data la crisi economica e anche i tagli agli statali che, almeno per il momento, non vedranno toccarsi le tredicesime (a differenza di quelli spagnoli che, a Natale non avranno abbastanza euro per festeggiare).
Ma sarebbe ipocrita e anche abbastanza pressappochista continuare a dire che “è (solo) colpa della crisi”. Ché, forse, se non ci fosse la crisi saremmo un Paese con zero precari e con stipendi da sogno? No, decisamente no. La lunga marcia verso il precariato comincia nel lontano 1983, quando viene introdotto il contratto di formazione lavoro. L’anno dopo, poi, il contratto part-time. Ma è tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000 che il processo di precarizzazione comincia seriamente e in modo irreversibile. Nel 1997, infatti, l’allora Ministro del Lavoro Tiziano Treu mise il suo nome in calce al famoso “Pacchetto Treu”, che introduceva, tra le tante novità, lavoro interinale, co.co.co. e stage gratuiti. Nel 2005, lo stesso Treu ammetterà, in un’intervista, che «gli abusi registrati successivamente non riguardano tanto la quantità. I numeri dell’interinale sono limitati, ma il ricorso reiterato a questo strumento perpetua situazioni di precarietà e che colpisce soprattutti i giovani. Lo stesso abuso che si registra nella reiterazione dei contratti a termine; uno strumento non inventato nel 1997, ma esistente da sempre». E poi ancora, sempre in quell’intervista, Treu avvertiva che, con la Legge Dini sulle pensioni, e malgrado i ritocchi all’insù del Governo Prodi, «finché sul lavoro subordinato grava il 33% di contributi sociali e sui co.co.co. Il 18%, la tentazione a mascherare il lavoratore dipendente da co.co.co. sarà difficilmente superabile». La chiamava tentazione, oggi i molti giovani precari a spasso da un’azienda all’altra la chiamerebbero “truffa legalizzata ai danni del lavoratore”. Punti di vista, insomma.
Il colpo di grazia arriva però nel 2003, con l’entrata in vigore della Legge Biagi, approvata anche un po’ sulla scia emotiva dell’assassinio del giuslavorista bolognese. Quarantaquattro forme contrattuali e tantissime possibilità, per le aziende, di risparmiare sulla forza lavoro. Contratti a progetto con stipendi miseri e nessuna garanzia per il lavoratore, che nei mesi di pausa tra un progetto e un altro ha solo una possibilità: appoggiarsi alla famiglia, vero e unico ammortizzatore sociale di una generazione costretta a “rimanere a casa”. L’hanno chiamata “flessibilità”, l’hanno definita «indispensabile» e un po’ i giovani ci hanno anche creduto. Prima si sono iscritti in massa all’università riformata, poi si sono laureati spesso con ottimi voti e pagando fior fior di tasse e ora si ritrovano con le mani in mano, a chiedersi che cosa debbano farci con le competenze acquisite se poi, nessuno, ritiene necessario pagarli equamente per il lavoro svolto.
Ecco perché oggi, a leggere questi dati, per i precari e i sottopagati di questo Paese alla deriva non c’è davvero nessuna “notizia”: non serviva Unioncamere e Bankitalia a ricordare loro quanto in basso sia caduto il loro stipendio e la loro dignità di lavoratori. Non serviva neanche l’Istat che, qualche settimana fa, ha annunciato che il 36% dei giovani tra i 15 e 24 anni sono disoccupati: bastava fare un giro negli uffici di collocamento, negli uffici del personale delle aziende stracolme di curricula per capire che in quelle stanze c’era probabilmente più di un terzo dei giovani italiani in fila. Bastava aprire la casella di posta elettronica di un qualsiasi (neo)laureato e andare a curiosare nella “posta inviata” per vedere quanti cv quotidianamente manda e poi passare in “posta ricevuta” per capire in quanti gli rispondono, e magari pure positivamente. Bastava, insomma, stare tra di loro, tra quelli che “sognano un lavoro” per capire che non è solo la crisi ad aver ridotto la quarta potenza economica europea ad un ricettacolo di precari, disoccupati e sottopagati.
Il posto fisso, dice Monti, è “monotono” e infatti il ritornello di questi anni è stato: “siate flessibili, perché la flessibilità aumenta la vostra professionalità”. Ora, dopo più di dieci anni di flessibilità ci siamo resi conto che ad essere aumentata è solo la precarietà, mentre gli stipendi si sono vertiginosamente abbassati. Probabilmente abbiamo un esercito di lavori super competenti e ad alta professionalità, ma cosa ce ne facciamo se poi non li impieghiamo per far ripartire il Paese?


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