Giuseppe Pinelli, detto Pino, era un ferroviere. Lavorava alle Ferrovie dello Stato come manovratore.
Era nato a Milano nel 1928, quartiere Porta Ticinese. Aveva cominciato a lavorare prestissimo per aiutare la famiglia. Garzone, magazziniere. Manovale. Nel frattempo studiava da solo, leggeva voracemente qualunque cosa gli capitasse a tiro; a un certo punto si metterà pure a studiare l’Esperanto. Credeva, Pino, che la cultura fosse l’unica arma per emanciparsi per un proletario come lui.
Partecipò alla Resistenza come staffetta partigiana nella Brigata autonoma Franco.
Aveva poco più di quindici anni.
In quegli anni incontrò l’anarchismo, che per lui non fu mai estremismo, ma scelta etica.
Libertà individuale, solidarietà concreta, rifiuto della violenza.
Nel 1955 sposò Licia Rognini, conosciuta proprio a un corso di Esperanto.
Negli anni Sessanta fu tra gli animatori del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa.
Contribuì alla nascita del circolo Sacco e Vanzetti. Sostenne riviste, assemblee, comitati di base. Era uno che non amava i palchi, la ribalta, se ne stava dietro le quinte, c’era sempre quando un compagno aveva bisogno di lui.
Nel 1969, dopo gli attentati del 25 aprile poi attribuiti ai neofascisti di Ordine Nuovo, si occupò della solidarietà agli anarchici arrestati. Cibo, vestiti, libri. Cose concrete, poca teoria, molta pratica politica.
Il 12 dicembre 1969 il botto che cambiò la sua vita, in piazza Fontana.
La sera stessa Pinelli fu fermato e portato in questura per accertamenti. Ci arrivò con la sua moto, seguendo spontaneamente il commissario Calabresi, tanto era “pericoloso”.
In questura ci rimase tre giorni, ben oltre il limite delle 48 ore previsto dalla legge. Un fermo mai convalidato, e quindi illegittimo.
La notte del 15 dicembre precipitò da una finestra del quarto piano. Morì poche ore dopo. Aveva 41 anni.
La prima versione ufficiale parlò di suicidio.
Per un’intera generazione di compagni Pino Pinelli fu assassinato.
Nel 1975 una sentenza attribuì la morte a una formula sconvolgente: “malore attivo”.
Nessun responsabile.
Nessuna colpa.
Per anni la moglie Licia ha combattuto con una dignità infinita contro i mulini a vento per avere verità e giustizia.
Solo nel 2009 Pinelli venne riconosciuto come “vittima innocente”. Un riconoscimento tardivo, che non ripara, che non ricuce, perché senza verità anche la memoria è retorica.
E la verità è che Giuseppe Pinelli era innocente, completamente estraneo alla strage neofascista di piazza Fontana e a qualsiasi atto o forma di violenza. Come era innocente l’anarchico ballerino di fila Pietro Valpreda, arrestato il giorno dopo.
La verità è che Pino Pinelli morì mentre era trattenuto illegalmente dallo Stato. Una ferita che sanguina ancora.
La verità è che Pinelli “fu suicidato”.
E oggi, 15 dicembre, a distanza di 56 anni esatti da fatti che ormai scorrono in bianco e nero e di cui le nuove generazioni non sanno più nulla, il minimo che possiamo fare è ricordare questo giovane uomo che combatteva per i diritti e studiava l’Esperanto.
Un pensiero a Pino e uno alla moglie Licia, che se n’è andata un anno fa, nel novembre 2024, dopo una vita di molto coraggio, troppo dolore, pochissima verità e nessuna giustizia.

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