Le sue immagini dai quattro angoli del
pianeta sono apparse sulle più celebri riviste internazionali. Il
ritratto di Ho Chi Minh nel 1966 gli valse la copertina di Life. Aveva
82 anni
Una copertina di Life, uno scoop mondiale, nel gennaio del
1966: era un ritratto informale, sorridente e quasi giocoso di Ho Chi
Minh. Poi, decine di altre copertine e di foto da prima pagina sul Times, l'Observer, il New York Times, il Guardian.
Romano Cagnoni è stato forse il fotoreporter italiano più pubblicato
dalla stampa internazionale, e i lettori italiani a stento lo sanno.
Cagnoni Ha lasciato oggi, a 82 anni di età, il mondo di cui ha raccontato, fin dagli anni Sessanta, la prima feroce globalizzazione, quella delle guerre postcoloniali, per continuare fino alle guerre asimmetriche e ai conflitti etnoreligiosi della fine del secolo. Se n'è andato nella casa di Pietrasanta, da cui era partito, ragazzo, per inseguire a Londra quella passione per la fotografia che in Italia gli sembrava poco apprezzata. Lì incontrò un allevatore di talenti, Simon Guttman, che aprì all'entusiasta talentuoso giovane italiano le porte delle redazioni. Da allora, il mondo fu il teatro d'azione di Cagnoni, del suo occhio accurato e preciso, attento alla notizia e alla forma in cui doveva essere raccontata per essere efficace.
Forse perché apolide e libero fu ammesso, primo fotografo non comunista, a viaggiare nel Vietnam del Nord durante il conflitto: dove riuscì a conquistarsi l'accesso al grande leader semplicemente dicendogli che "i popoli dell'occidente che amano la giustizia sono ansiosi di vederla in buona salute". La risposta fu "lei è un ottimista e l'ottimismo fa il buon rivoluzionario. Fotografi pure". Nel corso degli anni Cagnoni coprì le aree più calde del pianeta, dalla Cambogia a Israele (dove seguì la guerra dello Yom Kippur), dal Cile di Allende (dove lavorò fianco a fianco con Graham Greene) all'Argentina di Peron, fino in tempi più recenti ai Balcani, alla Cecenia, alla Turchia, al Medio Oriente; pochi anni fa volle entrare, clandestinamente, in Siria. Ma seguì soprattutto e con grande partecipazione umana l'Africa delle catastrofi e delle guerre, Biafra, Etiopia, Nigeria...
Di sé diceva di non essere un fotogiornalista, ma "un fotografo che pubblica le sue foto sui giornali". La sua paura più grande, di ripetersi, di crearsi un cliché, di "diventare un robot insensibile". L'impressionante archivio che ci lascia testimonia che non è andata così.
Cagnoni Ha lasciato oggi, a 82 anni di età, il mondo di cui ha raccontato, fin dagli anni Sessanta, la prima feroce globalizzazione, quella delle guerre postcoloniali, per continuare fino alle guerre asimmetriche e ai conflitti etnoreligiosi della fine del secolo. Se n'è andato nella casa di Pietrasanta, da cui era partito, ragazzo, per inseguire a Londra quella passione per la fotografia che in Italia gli sembrava poco apprezzata. Lì incontrò un allevatore di talenti, Simon Guttman, che aprì all'entusiasta talentuoso giovane italiano le porte delle redazioni. Da allora, il mondo fu il teatro d'azione di Cagnoni, del suo occhio accurato e preciso, attento alla notizia e alla forma in cui doveva essere raccontata per essere efficace.
Forse perché apolide e libero fu ammesso, primo fotografo non comunista, a viaggiare nel Vietnam del Nord durante il conflitto: dove riuscì a conquistarsi l'accesso al grande leader semplicemente dicendogli che "i popoli dell'occidente che amano la giustizia sono ansiosi di vederla in buona salute". La risposta fu "lei è un ottimista e l'ottimismo fa il buon rivoluzionario. Fotografi pure". Nel corso degli anni Cagnoni coprì le aree più calde del pianeta, dalla Cambogia a Israele (dove seguì la guerra dello Yom Kippur), dal Cile di Allende (dove lavorò fianco a fianco con Graham Greene) all'Argentina di Peron, fino in tempi più recenti ai Balcani, alla Cecenia, alla Turchia, al Medio Oriente; pochi anni fa volle entrare, clandestinamente, in Siria. Ma seguì soprattutto e con grande partecipazione umana l'Africa delle catastrofi e delle guerre, Biafra, Etiopia, Nigeria...
Di sé diceva di non essere un fotogiornalista, ma "un fotografo che pubblica le sue foto sui giornali". La sua paura più grande, di ripetersi, di crearsi un cliché, di "diventare un robot insensibile". L'impressionante archivio che ci lascia testimonia che non è andata così.
https://www.repubblica.it/cultura/2018/01/30/news/morto_romano_cagnoni-187658394/
Costanzo71
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