Da oggi a venerdì a Bruxelles Europa e Stati Uniti provano a creare con il Transatlantic Trade and Investment Partnership (o TTIP) un mostro a due teste che rischia di limitare per sempre l’autonomia politica e la qualità della vita di 29 Paesi e 800 milioni di persone.
Sono circa 50, e da stamattina a Bruxelles negoziano per gli Stati Uniti la creazione della più grande operazione di liberalizzazione mai tentata, soprattutto per la sua portata simbolica. Sono avvocati commerciali, esperti e lobbisti a stelle e strisce che, da oggi e fino al 15 novembre prossimo, proveranno nel confronto con i loro colleghi d’oltre Atlantico a far saltare tra Usa e Ue non soltanto tasse d’importazione, dazi e quote che separano i due mercati – in realtà abbastanza bassi, in media un 3% sul valore di gran parte delle merci che vale 25 miliardi di euro di fatturato in più tra le due sponde, valuta la Commissione europea – ma anche ad “armonizzare” le regole di qualità, di sicurezza e di fornitura che oggi non permettono a molte merci di varcare i reciproci confini.
Il Transatlantic Trade and Investment Partnership (o TTIP), è stato vantato al G8 irlandese dal primo ministro britannico David Cameron come “il premio di una intera generazione, che siamo determinati a vincere”. Non so, però, chi di noi in piena coscienza vorrebbe scartare questo pacco-sorpresa che farà saltare la maggior parte di quegli standard, quelle regole di qualità, sicurezza, qualità del lavoro ottenuti in Europa a prezzo di dure battaglie, e che verrebbero svenduti, secondo i calcoli della Commissione europea, al prezzo di un aumento di 275 milioni l’anno di euro di fatturati commerciali, di cui circa 100 finirebbero nelle tasche delle imprese europee facendo crescere il Pil dell’Ue di un magro 0,5%.
Una delle vittime eccellenti di questo piccolo affaruccio sarebbe, ad esempio, il trattato Reach, che ha riscritto le regole europee per la chimica nel 2007 e che intendeva ridurre la circolazione di inquinanti nei prodotti, classificando 30mila sostanze di cui le imprese sono obbligate a dichiarare la presenza ma che le corporations statunitensi non vogliono esporre in etichetta, né, tantomeno, eliminare da parte delle loro produzioni ad oggi non vendibili in Europa, e a ragion veduta. La stessa fine farebbero molte altre clausole e normative importanti, che ad oggi costituiscono parte della nostra qualità della vita e che, purtroppo, potrebbero essere liquidate con leggerezza dalla Commissione europea – che già oggi li definisce “aggravio di costi non necessario che pesa sugli affari – ansiosa di poter vantare nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento previste per la primavera 2014 un potenziale “successo” commerciale che – sempre con unilaterale ottimismo – secondo la Commissione si potrebbe tradurre in 2 milioni di posti di lavoro nei paesi membri. Gli Stati Uniti vorrebbero, inoltre, inserire nel pacchetto un Trattato Bilaterale sugli Investimenti, che generalizzerebbe la libera circolazione finanziaria che gli Stati Uniti hanno già concordato con alcuni dei Paesi membri della Ue. Ma soprattutto permetterebbe agli investitori di far causa agli Stati se un loro provvedimento, anche positivo per la popolazione, potsse rivelarsi lesivo dei propri interessi e fatturati anche in un lontano futuro.
Il vero obiettivo del TTIP, non se l’è nascosto Barack Obama nel primo round di negoziati del luglio scorso a Washington D.C., è geopolitico: formare “un’alleanza economica forte quanto quella politica e quella sulla sicurezza”. Una sorta di NATO dei quattrini, mostro bicefalo al comando di portafogli e sovranità di 29 Paesi e oltre 800 milioni di persone, in funzione di opposizione alla forza crescente di Cina, Brasile, India e emergenti vari.
L’enormità del risultato dunque, fa sembrare sacrificabili standard e requisiti di valore, ad esempio, per gli appalti pubblici come per i farmaci. L’Europa chiede, invece, la fine di tutte le campagne “Buy american” che hanno fatto di Obama il campione della mini-ripresa commerciale statunitense, mentre sembra che terrà duro sul principio di precauzione che ha portato tra l’altro, almeno in parte, al bando degli Ogm. Gli Stati Uniti premono, però, perché si velocizzi il processo di approvazione “caso per caso” per questo tipo di prodotti. Tutti questi cosiddetti “ostacoli” alla libera circolazione di merci e investimenti potrebbero essere inclusi in capitoli separati dei trattati, e articolati intorno ai temi generali del lavoro e delle questioni ambientali, oppure racchiusi un capitolo sulla “sostenibilità”, come l’Unione Europea già ha fatto in altri trattati bilaterali (con la Korea, principalmente, ma anche con Perù e Colombia).
La Commissione Europea vorrebbe il tutto concluso entro il settembre 2014, mentre il Congresso Usa potrebbe prendersi fino a novembre 2014, cioè prima del proprio rinnovo. Il prossimo round negoziale è previsto a inizio dicembre a Washington, subito dopo la convocazione dell’Assemblea Ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio che si terrà a Bali, in Indonesia, dal 3 al 6 dicembre prossimo. David Martin, alla guida del gruppo parlamentare socialista europeo, ha aspramente criticato l’accordo per la clausola di protezione degli investimenti privati che porta con se’. Ha definito il meccanismo “uno scandalo”, la resa al potere delle corporations da parte delle democrazie europee. E l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel suo nuovo rapporto “La dimensione sociale degli accordi di libero scambio”, ha costatato che nel giugno 2013 erano 58 gli accordi contenenti misure sul lavoro, ovvero quasi un quarto del totale dei 248 accordi di libero scambio attualmente in vigore. “Il crescente numero di accordi commerciali che includono previsioni relative alle norme del lavoro indicano una maggiore consapevolezza che la liberalizzazione del commercio, per quanto sia importante, deve andare di pari passo con i progressi sociali e sul fronte dell’occupazione”, ha affermato Raymond Torres, Direttore del Dipartimento Ricerca dell’ILO.
Un bilanciamento delicato, quello tra diritti e interessi, che meriterebbe un grande processo di concertazione democratica e partecipata, non certo un confronto a porte chiuse tra un pugno di tecnici e portatori d’interessi.
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