Anna Lombroso per il Simplicissimus
Un Paese dove l’ultimo ponte in ordine cronologico, quello di Calatrava – peraltro prossimamente e pudicamente offuscato dall’edificazione di un falansterio – risulta essere bello e impossibile, una macchina celibe che già tentenna, divorando soldi di manutenzione, quel Paese,dicevo, dovrebbe arrendersi al buonsenso. Ma sul Ponte dello Stretto non sventola bandiera bianca: ci informa la schizofrenica Repubblica – che sui temi ambientali dà un consenso intermittente al Governo Monti, proprio per non tradire del tutto le sue originarie battaglie, quelle di Cederna o di Argan – che Pietro Ciucci – uno dei più formidabili testimonial del conflitto di interessi, amministratore delegato di Anas, commissario governativo per il ponte e numero uno della Società Stretto di Messina, fondata negli anni Ottanta con il compito di progettare e realizzare l’opera – reclamando il carattere di priorità dell’opera, ha inviato un ricorso straordinario al Capo dello Stato, in cui considera di fatto illegittimo il definanziamento di 1,6 miliardi del progetto, deciso dal Cipe nel gennaio scorso.
A conferma così che la convezione che la società ha sottoscritto con lo Stato non è mai stata abrogata, è ancora attiva e se non si procede con il mostro è solo per mancanza di fondi.
Si sa che quando un manager richiama all’ordine, il governo, zelante, risponde: il Ministero dell’Ambiente – si, paradossalmente continua a chiamarsi così – ha riattivato nel luglio scorso l’iter della procedura di valutazione di impatto ambientale (Via), iniziata nove anni fa. Il Ministro dello Sviluppo – anche quello continua a chiamarsi così, nel paese leader del rigore senza crescita – senza attendere la necessaria Via ha indetto la conferenza dei servizi, cioè l’organismo di coordinamento incaricato di fornire tutte le autorizzazioni necessarie sul progetto definitivo per far partire l’opera.
Il definanziamento del Cipe era servito a zittire temporaneamente gli invertebrati alleati: perfino loro consideravano esagerato lo spirito di adattamento dei finti tecnici al visionario delirio di onnipotenza degli speculatori amici di Berlusconi.
E la causale della decisione del Cipe, a monte dell’esplosione dei costi, della scarsa trasparenza, delle procedure discutibili, dell’accertato danno ai territori, della mancanza dei collegamenti con la rete infrastrutturale, era ineccepibile e dovrebbe esserlo ancora: l’incubo di un Ponte sullo Stretto non si era mai dotato di un piano definitivo, che tanto un progetto della Fiat tramite Impregilo si presenta da sé e non ha bisogno di orpelli.
Nel frattempo il suo costo è lievitato dai 6,3 miliardi dell’aprile 2010 agli 8,5 del luglio 2011 (+34 per cento in un anno). In un dossier depositato l’8 settembre 2011, abborracciato come spesso succede quando c’è la Fiat di mezzo come progetto definitivo, mancherebbero sia il calcolo costi-benefici, sia il piano economico finanziario dell’opera (fonte WWF). E lo stesso Ciucci, forse per invogliare gli imprenditori disposti a investire in interventi di project financing, ha dichiarato nel novembre 2011 che fino ad allora, “aveva speso 283 milioni di euro, con un raddoppio in sei anni dei costi sostenuti nei precedenti 12”, come a dire che là circolano monete sonanti.
Niente spending review dunque su un intervento che lo stesso ministro Passera in un baleno di resipiscenza aveva dichiarato di non annoverare tra le opere fondamentali. E che nel frattempo, indisturbata, aveva succhiato risorse per mantenere l’impalcatura, foraggiare Impregilo e pagare penali, come raccontato con dovizia di particolari qui.
È che il Ponte ereditato da Berlusconi appaga i desideri di questo governo che lo intende come una cattedrale eretta alla sua religione, un pilastro della sua ideologia, un omaggio a quel gigantismo, a quella smania di grandezza e illimitatezza che è alla base della crisi. E risponde a quell’equilibrismo retorico che secondo il quale per riavviare la crescita lo Stato dovrebbe investire, soprattutto in grandi infrastrutture, in particolare in quelle di trasporto (vedi linea Torino-Lione, le preferite da sponsor politici e industriali. Tempo fa un certo professor Prud’homme dell’Università di Lione, prudente ma non poi troppo, ha condotto un’analisi che ha definito indiziaria sul rapporto tra la spesa in investimenti in infrastrutture di trasporto in 8 paesi europei e Pil. Pur auto denunciano la limitatezza dei dati e del campione, si è arrischiato a affermare che i risultati smentiscono il luogo comune che recita “più grandi investimenti in trasporti = più crescita economica”. E un Paese in difficoltà potrebbe trarre una lezione dalla storia: il Giappone: negli anni Novanta spese un’enorme quantità di denari pubblici in infrastrutture per rilanciare la crescita economica, con l’unico risultato di una spettacolare crescita del debito e di livelli di corruzione altrettanto spettacolari.
Anche Omero sonnecchia e anche Keynes prese delle solenni cantonate, oltre a quella di pensare che un giorno i ricchi avrebbero capito che non si può vivere di profitto per dedicarsi alle delizie della vita. E non è certo più tempo, se mai lo è stato, di “impiegare i disoccupati anche a scavar buche e riempirle”. Le Grandi Opere oltre a partecipare pesantemente alla voragine della spesa pubblica, creano poca occupazione, qualitativamente poco rilevante e per giunta lentamente. Creano poca occupazione, perché oggi nelle opere civili si fa quasi tutto a macchina (si pensi per esempio alle “talpe” per scavare tunnel). Il costo diretto del lavoro non supera il 25% dei costi totali. Non la creano rapidamente perché i cantieri durano 10 anni, e il “picco” di addetti necessari è spostato in là, quando si arriva ai lavori di finitura e messa in opera.
Ma al governo Monti le sue Piramidi interessano anche perché gli si addicono particolarmente quegli strumenti cari alla finanza creativa, iProject Bond e la “golden rule”, quelle “garanzie” europee sui prestiti (bond) che i privati possono fare per realizzare progetti, come la Tav, per scavare e riempire buche, pensati prima della crisi, di importo molto elevato e con orizzonti temporali molto lunghi. Garanzie su un futuro secondo le regole dei giocatori d’azzardo che non vogliono rischiare: così se poi l’opera si rivela scarsamente utile e avrà poco traffico, l’Europa, cioè ancora le casse pubbliche, pagheranno.
E siccome le Grandi Opere sono fondate, in genere, su non meno Grandi Previsioni e su ancora più gigantesche Grandi Patacche, si tratta di una pura e semplice speculazione che induce un ulteriore debito pubblico, mascherato e rimandato nel tempo.
Eppure la grande Tav europea perde pezzi: via Lisbona e via Kiev, niente Slovenia, Ungheria e Polonia, la Spagna non ha soldi. E l’alta velocità si conferma per Madrid il più grosso fattore di default producing.
È probabile ci sia un’indole suicida in governi schiavi di un modello economico che vuole curare la malattia con i suoi germi patogeni. E forse in previsione della sua fine vuole costruirsi i suoi monumenti funebri.
http://www.tzetze.it/2012/09/alla-fiat-che-fugge-ponte-doro.html
Un Paese dove l’ultimo ponte in ordine cronologico, quello di Calatrava – peraltro prossimamente e pudicamente offuscato dall’edificazione di un falansterio – risulta essere bello e impossibile, una macchina celibe che già tentenna, divorando soldi di manutenzione, quel Paese,dicevo, dovrebbe arrendersi al buonsenso. Ma sul Ponte dello Stretto non sventola bandiera bianca: ci informa la schizofrenica Repubblica – che sui temi ambientali dà un consenso intermittente al Governo Monti, proprio per non tradire del tutto le sue originarie battaglie, quelle di Cederna o di Argan – che Pietro Ciucci – uno dei più formidabili testimonial del conflitto di interessi, amministratore delegato di Anas, commissario governativo per il ponte e numero uno della Società Stretto di Messina, fondata negli anni Ottanta con il compito di progettare e realizzare l’opera – reclamando il carattere di priorità dell’opera, ha inviato un ricorso straordinario al Capo dello Stato, in cui considera di fatto illegittimo il definanziamento di 1,6 miliardi del progetto, deciso dal Cipe nel gennaio scorso.
A conferma così che la convezione che la società ha sottoscritto con lo Stato non è mai stata abrogata, è ancora attiva e se non si procede con il mostro è solo per mancanza di fondi.
Si sa che quando un manager richiama all’ordine, il governo, zelante, risponde: il Ministero dell’Ambiente – si, paradossalmente continua a chiamarsi così – ha riattivato nel luglio scorso l’iter della procedura di valutazione di impatto ambientale (Via), iniziata nove anni fa. Il Ministro dello Sviluppo – anche quello continua a chiamarsi così, nel paese leader del rigore senza crescita – senza attendere la necessaria Via ha indetto la conferenza dei servizi, cioè l’organismo di coordinamento incaricato di fornire tutte le autorizzazioni necessarie sul progetto definitivo per far partire l’opera.
Il definanziamento del Cipe era servito a zittire temporaneamente gli invertebrati alleati: perfino loro consideravano esagerato lo spirito di adattamento dei finti tecnici al visionario delirio di onnipotenza degli speculatori amici di Berlusconi.
E la causale della decisione del Cipe, a monte dell’esplosione dei costi, della scarsa trasparenza, delle procedure discutibili, dell’accertato danno ai territori, della mancanza dei collegamenti con la rete infrastrutturale, era ineccepibile e dovrebbe esserlo ancora: l’incubo di un Ponte sullo Stretto non si era mai dotato di un piano definitivo, che tanto un progetto della Fiat tramite Impregilo si presenta da sé e non ha bisogno di orpelli.
Nel frattempo il suo costo è lievitato dai 6,3 miliardi dell’aprile 2010 agli 8,5 del luglio 2011 (+34 per cento in un anno). In un dossier depositato l’8 settembre 2011, abborracciato come spesso succede quando c’è la Fiat di mezzo come progetto definitivo, mancherebbero sia il calcolo costi-benefici, sia il piano economico finanziario dell’opera (fonte WWF). E lo stesso Ciucci, forse per invogliare gli imprenditori disposti a investire in interventi di project financing, ha dichiarato nel novembre 2011 che fino ad allora, “aveva speso 283 milioni di euro, con un raddoppio in sei anni dei costi sostenuti nei precedenti 12”, come a dire che là circolano monete sonanti.
Niente spending review dunque su un intervento che lo stesso ministro Passera in un baleno di resipiscenza aveva dichiarato di non annoverare tra le opere fondamentali. E che nel frattempo, indisturbata, aveva succhiato risorse per mantenere l’impalcatura, foraggiare Impregilo e pagare penali, come raccontato con dovizia di particolari qui.
È che il Ponte ereditato da Berlusconi appaga i desideri di questo governo che lo intende come una cattedrale eretta alla sua religione, un pilastro della sua ideologia, un omaggio a quel gigantismo, a quella smania di grandezza e illimitatezza che è alla base della crisi. E risponde a quell’equilibrismo retorico che secondo il quale per riavviare la crescita lo Stato dovrebbe investire, soprattutto in grandi infrastrutture, in particolare in quelle di trasporto (vedi linea Torino-Lione, le preferite da sponsor politici e industriali. Tempo fa un certo professor Prud’homme dell’Università di Lione, prudente ma non poi troppo, ha condotto un’analisi che ha definito indiziaria sul rapporto tra la spesa in investimenti in infrastrutture di trasporto in 8 paesi europei e Pil. Pur auto denunciano la limitatezza dei dati e del campione, si è arrischiato a affermare che i risultati smentiscono il luogo comune che recita “più grandi investimenti in trasporti = più crescita economica”. E un Paese in difficoltà potrebbe trarre una lezione dalla storia: il Giappone: negli anni Novanta spese un’enorme quantità di denari pubblici in infrastrutture per rilanciare la crescita economica, con l’unico risultato di una spettacolare crescita del debito e di livelli di corruzione altrettanto spettacolari.
Anche Omero sonnecchia e anche Keynes prese delle solenni cantonate, oltre a quella di pensare che un giorno i ricchi avrebbero capito che non si può vivere di profitto per dedicarsi alle delizie della vita. E non è certo più tempo, se mai lo è stato, di “impiegare i disoccupati anche a scavar buche e riempirle”. Le Grandi Opere oltre a partecipare pesantemente alla voragine della spesa pubblica, creano poca occupazione, qualitativamente poco rilevante e per giunta lentamente. Creano poca occupazione, perché oggi nelle opere civili si fa quasi tutto a macchina (si pensi per esempio alle “talpe” per scavare tunnel). Il costo diretto del lavoro non supera il 25% dei costi totali. Non la creano rapidamente perché i cantieri durano 10 anni, e il “picco” di addetti necessari è spostato in là, quando si arriva ai lavori di finitura e messa in opera.
Ma al governo Monti le sue Piramidi interessano anche perché gli si addicono particolarmente quegli strumenti cari alla finanza creativa, iProject Bond e la “golden rule”, quelle “garanzie” europee sui prestiti (bond) che i privati possono fare per realizzare progetti, come la Tav, per scavare e riempire buche, pensati prima della crisi, di importo molto elevato e con orizzonti temporali molto lunghi. Garanzie su un futuro secondo le regole dei giocatori d’azzardo che non vogliono rischiare: così se poi l’opera si rivela scarsamente utile e avrà poco traffico, l’Europa, cioè ancora le casse pubbliche, pagheranno.
E siccome le Grandi Opere sono fondate, in genere, su non meno Grandi Previsioni e su ancora più gigantesche Grandi Patacche, si tratta di una pura e semplice speculazione che induce un ulteriore debito pubblico, mascherato e rimandato nel tempo.
Eppure la grande Tav europea perde pezzi: via Lisbona e via Kiev, niente Slovenia, Ungheria e Polonia, la Spagna non ha soldi. E l’alta velocità si conferma per Madrid il più grosso fattore di default producing.
È probabile ci sia un’indole suicida in governi schiavi di un modello economico che vuole curare la malattia con i suoi germi patogeni. E forse in previsione della sua fine vuole costruirsi i suoi monumenti funebri.
http://www.tzetze.it/2012/09/alla-fiat-che-fugge-ponte-doro.html
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