Mercoledì 31 luglio Mukhtar Ablyazov viene arrestato in Francia a seguito di un mandato di cattura internazionale emesso dall’Ucraina. “La detenzione è confermata – spiega Open Dialogue Foundation – con la necessità di eleggere un domicilio in cui risultare reperibile, e con una sorveglianza elettronica”. Un nuovo tassello in quello che le cronache italiane hanno chiamato “caso Shalabayeva”. Al di là degli effetti destabilizzanti sul fragile governo presieduto da Enrico Letta, la deportazione di Alma Shalabayeva e della figlia minorenne e la persecuzione giudiziaria della sua famiglia ci insegnano almeno tre cose.
In primo luogo ci apre una finestra sui limiti del diritto d’asilo e sul prevalere dei calcoli economici sui diritti umani. Numerosi trattati internazionali ci tutelano contro “trattamenti inumani o degradanti”, impedendo di praticarli, di inviare verso stati che li praticano e nel peggiore dei casi prevedendo forme di rimedio giuridico e istituendo un diritto alla riabilitazione. Eppure Shalabayeva rischia di essere sottoposta a un processo di natura politica, di essere rinchiusa in una colonia penale femminile e separata dalla figlia. Per Anna Koj, ricercatrice presso la Open Society Foundation, che si occupa da anni di diritti umani nell’Asia centrale, “c’è un rischio effettivo che Alma subisca trattamenti disumani e sia carcerata al termine di processi sommari miranti in realtà a colpire il marito, l’ex ministro e banchiere Mukhtar Ablyazov”. Nursultan Nazarbayev, presidente nonché autorità unica e indiscussa del Kazakistan da oltre 20 anni, “vede infatti in Ablyazov un nemico personale prima che politico, in una sorta di ossessione vendicativa”.
Rilasciato dal carcere nel 2002 su pressione internazionale, di Amnesty International e Human Rights Watch in primo luogo, Ablyazov ha in seguito abbandonato il paese che lo aveva arricchito e poi torturato come pericoloso nemico della patria, continuando a investire in modo spavaldo in banche d’affari e trovando finalmente asilo nel Regno Unito nel 2011. Pur accusato per pesanti crimini economici dalla stessa magistratura inglese, il governo Cameron ha risposto negativamente alla richiesta di estradizionedel banchiere mossa da Nazarbayev, facendo prevalere il diritto su possibili vantaggi economici e strategici o, più probabilmente, coniugando abilmente i due. Un comportamento che non è riuscito al governo italiano e che mette in seria difficoltà altri governi europei, tanto che Alex Tinsley, avvocato di Fair Trial International, è convinto che l’Unione Europea, così come altri stati che ospitano rifugiati politici, debba “fermare l’uso politico dell’Interpol da parte di regimi autoritari”.
Interpol, una delle più grandi organizzazioni internazionali, con sede a Lyon in Francia, gioca purtroppo un ruolo particolare nella repressione degli oppositori politici a livello globale, pur essendo allo stesso tempo un’arma fondamentale per combattere traffico di esseri umani, armi e droga, pedofilia e crimini contro l’umanità nei 190 paesi del mondo che vi aderiscono. Un lavoro importantissimo, che rischia però di essere offuscato dalla poca trasparenza dell’organizzazione. I mandati di cattura internazionale, i così detti “red notice”, sono infatti emanati su richiesta della magistratura degli stati membri senza un’automatica valutazione dei legami politici di quest’ultima, diventando così strumento di regimi spregiudicati e dei loro alleati, come nel recentissimo caso di Abklyazov per l’Ucraina.
Un utilizzo indebito che ha portato Sayed Abdellatif, militante detenuto durante il regime di Hosni Mubarak in Egitto, a essere accusato di terrorismo e omicidio e a vagare per 20 anni fra Europa e Asia prima di vedere considerata la propria richiesta di protezione dall’Australia e a ottenere la cancellazione della red notice dall’Interpol nel giugno 2013. O, ancora, che ha portato Benny Wenda, attivista indonesiano per l’indipendenza del West Papua, più volte torturato e oggi rifugiato nel Regno Unito, a trovarsi sulla lista dei più pericolosi criminali del mondo, rischiando di essere rimpatriato forzatamente e salvandosi nel 2012 grazie all’azione legale e alla pressione di o.n.g. e politici inglesi, che hanno portato alla cancellazione del mandato
La lista dei ricercati internazionali, consultabile sul sito di Interpol, include anchemilitanti ambientalisti russi, oppositori bielorussi, leader curdi irakeni e naturalmente avversari politici e attivisti kazaki. Per il paese asiatico, sulla “lista rossa” c’è oggi il nome di Aleksandr Pavlov, ex guardia del corpo di Ablyazov, il cui red notice è ancora attivo. Fermato in Spagna nel dicembre 2012, Pavlov è accusato di terrorismo e appropriazione indebita, accuse chiaramente politiche che, dopo il diniego della domanda d’asilo, hanno portato la magistratura di Madrid a firmarne l’estradizione lo scorso 23 luglio, al termine di processi che secondo Open Society Foundation non hanno avuto adeguate garanzie procedurali. “Oltre a noi – spiega Koj –il caso in Spagna è stato sollevato da Amnesty, ma Pavlov si trova in un carcere spagnolo e il suo destino è tuttora incerto. Va ricordato che la Spagna è l’unico paese dell’Unione ad aver firmato un trattato di estradizione con il Kazakistan, paese in cui ha interessi economici molto forti”.
Sorte simile ha Muratbek Ketebayev, ex ministro e oggi oppositore democratico di Nazarbayev, incarcerato lo scorso giugno in Polonia, dove attende una decisione sulla domanda di asilo, con le stesse accuse di Pavlov. Insomma regimi corrotti e autoritari come quelli di Nazarbayev, di Putin o Lukashenko utilizzano sempre di più Interpol per motivi politici, sfruttando a loro vantaggio un sistema che, secondo un’indagine dell’International Consortium for Investigative Journalism, proclama la propria neutralità senza mettere in atto nessun meccanismo per garantirla realmente. La responsabilità ultima sta però ai singoli stati, che possono decidere di non ottemperare a un mandato in nome dei diritti fondamentali della persona. In caso di regimi “amici”, un diritto già fragile come l’asilo rischia però di essere cancellato, di volatilizzarsi come Alma Shalabayeva e la figlia e come tanti altri di cui non conosciamo nomi e volti, con conseguenze che nessun goffo tentativo d’indagine governativa potrà compensare. Fra questi nomi molti si sono dimenticati quello di Kazhegeldin, ministro kazako passato all’opposizione e passato anche, per poche ore nell’estate del 2000, per il carcere di Regina Coeli di Roma, fermato all’aeroporto ma non estradato grazie all’intervento dell’allora ministro Fassino, nonostante la red notice di Interpol fresca di pubblicazione, a riprova che le persone possono valere più dei contratti petroliferi.
La storia di Alma ci ha raccontato in secondo luogo un’altra storia, fatta di scatole cinesi che si rincorrono e giochi di potere mostrati senza pudore, e ambientata come il film “Syriana” fra i palazzi dei petro-arricchiti, le cancellerie occidentali, le banche svizzere e le carceri dure del regime. Il Kazakistan, non tutti lo sapevamo, gioca un ruolo chiave nella politica internazionale grazie alle sue risorse naturali. Un ruolo che riesce a gestire con pianificata freddezza, oliando letteralmente parecchi meccanismi.
Al potere dal 1990, Nazarbayev è riuscito a diventare il principale beneficiario di una partita appetitosa per molti: le privatizzazioni e la riforma terriera di un ex repubblica sovietica costruita su gas, uranio e petrolio. Dopo le elezioni truccate del 1999 iniziano i fermenti di un’opposizione democratica che non si è ancora fermata, nonostante uccisioni, torture e detenzioni arbitrarie. A mettere in pericolo il potere assoluto dellafamiglia Nazarbayev sono in particolare la creazione di DVK (Scelta Democratica per il Kazakistan), partito fondato da Ablyazov nel 2001 e soprattutto il così detto Kazakhgate, uno dei più grandi casi di corruzione giudicati da un tribunale americano, legato chiaramente a appalti per l’estrazione del petrolio. Se per far tacere la società civile il regime ha usato la repressione, la chiusura di partiti, televisioni e giornali e la persecuzione degli oppositori in tutto il globo, per evitare il tracollo d’immagine e quindi finanziario legato al Kazakhgate ha invece lavorato sul soft power, convincendo a suon di contratti e petrodollari Europa e Stati Uniti che il suo paese fosse un ottimo partner economico e strategico.
Una tela tessuta con abilità, tanto che i processi per il Kazakhgate hanno portato a pene irrisorie mentre oggi i leader dell’eurozona in crisi fanno visite d’affari nella capitale Astana dove, paradossalmente, il prossimo ottobre il britannico Cameron potrebbe incontrare l’ex avversario politico Tony Blair, oggi consulente politico di Nazarbayev. Alla tela ha contribuito poi l’inizio della guerra in Afghanistan, che ha trasformato il paese in un alleato prezioso per gli U.S.A., tanto che oggi Idrissov, ex ambasciatore kazako a Washington è diventato ministro degli esteri. A conferma dell’influenza kazaka vi ricordato come a capo dell’ufficio europeo delle Nazioni Unite a Ginevra sieda dal 2011 Kassym-Jornart Kayev, che dietro il curriculum di ex primo ministro e studioso nasconde una delle pagine peggiori della repressione politica kazaka, l’ondata di arresti e violenze del 2001, ordinata dal presidente e da lui coordinata. Una repressione che ha dato il la a quello che alcuni dissidenti hanno chiamato il “Super Khan project”, un progetto della famiglia Nazarbayev per garantirsi il potere per altri 20 anni almeno, oltre il regno assoluto del presidente ultra-settantenne. Un progetto che purtroppo fa comodo a molti, per cui il magro tentativo di primavera kazaka, sfociato a fine 2011 in una carneficina e in processi sommari, potrebbe essere solo un ostacolo, e i diritti umani continuare a essere il prezzo da pagare per il petrolio.
L’ultima cosa che impariamo dalla vicenda di Alma è che possiamo e dobbiamo fare qualcosa. “Promuovere visite in Kazakistan di parlamentari e giornalisti, fare pressione a più livelli, scrivere e raccontare. L’unico modo per salvare Shalabayeva – spiega Koj – è tenere alta l’attenzione mediatica soprattutto nel mese di agosto, per evitare che il regime approfitti delle vacanze di istituzioni europee e italiane per insabbiare il caso”. Evitando così che con le nostre istituzioni vadano in vacanza anche i diritti e le coscienze.
Nessun commento:
Posta un commento