venerdì 31 agosto 2012

Incendio in Sila, danni case e capannoni




Distrutti macchinari, impegnate due squadre vigili del fuoco

CATANZARO, 31 AGO - Un incendio di bosco di vaste proporzioni ha provocato danni oggi pomeriggio nella Sila catanzarese, in localita' Cutura. Investite dalle fiamme due case, allevamenti, con conseguente morte di equini e bovini, e capannoni, in uno dei quali sono andati distrutti alcuni macchinari. Le due case estive raggiunte dalle fiamme, in cui non c'era nessuno, hanno subito danni ai tetti ed agli infissi.

Sul posto due squadre dei vigili del fuoco di Catanzaro e mezzi aerei.

(ANSA) 

Sanzioni ad agenti che non fanno multe


Richiami a chi non ha rilevato infrazioni nell'ultima settimana 

 NOVARA, 31 AGO - Sanzioni disciplinari ad alcuni agenti della Polizia stradale in Provincia di Novara per non aver fatto multe: lo afferma il Consap (Confederazione sindacale autonoma di polizia), in una lettera al Capo della Polizia.

Secondo il Consap, alcuni agenti in servizio nei reparti minori della Polizia stradale di Novara sono stati oggetto di richiami perche' nel corso dell'ultima settimana non hanno rilevato alcuna violazione al Codice della strada e, quindi, non hanno fatto contravvenzioni.
 

(ANSA)

Pakistan, 15 decapitati da talebani. Bomba a Peshawar

Bomb explosion killed four people in Peshawar

Altre 16 hanno riportato ferite per l'esplosione di un ordigno

E' accaduto nella piazza di un mercato del quartiere di Matani, alla periferia di Peshawar

La bomba era stata collocata in un furgone parcheggiato proprio all'esterno della moschea di Matani

  Da parte loro fonti ospedaliere hanno fornito un bilancio di sei persone uccise e 16 ferite per l'effetto della deflagrazione

Le autorita' hanno spesso utilizzato per contrastarla una milizia privata

Gli analisti sottolineano che l'area di Matani di questa provincia e' rimasta per molto tempo sotto l'influenza dei militanti antigovernativi

I talebani del Pakistan hanno rivendicato con un video l'uccisione di 15 soldati pachistani di cui si erano perse le tracce nei giorni scorsi dopo scontri nel nord-ovest del Paese. Le immagini inviate all'Afp mostrano delle teste decapitate.
Un portavoce del Movimento dei Talebani del Pakistan (Ttp), Sirajud Din, aveva contattato l'Afp nei giorni scorsi per rivendicare la decapitazione di 15 membri delle forze di sicurezza pachistane, annunciando il video inviato oggi. Nel filmato si vedono dodici teste per terra e un comandante dei talebani che recita versetti del Corano davanti a uomini armati, di cui uno tiene in mano un'ascia gigante. "Se incrociate degli infedeli, tagliate loro la testa. Lodate dio, perché i mujaheddin sono riusciti a uccidere questi soldati infedeli nel distretto di Bajaur", dice il comandante nel video, precisando che "molti di loro sono stati uccisi da colpi d'arma da fuoco, 12 sono stati decapitati, come potete vedere". Il video mostra anche le carte di identità delle vittime, ma fonti militari pachistane non sono state in grado di confermare se si tratti dei soldati dispersi, né di soldati pachistani. I combattimenti tra l'esercito e i talebani pachistani nel distretto tribale di Bajaur hanno fatto almeno 50 morti in una settimana, di cui 31 tra gli insorti.
Almeno sei persone sono state uccise in Pakistan ed altre 16 hanno riportato ferite quando un ordigno è esploso oggi nella piazza di un mercato del quartiere di Matani, alla periferia di Peshawar (Pakistan nord-occidentale). Lo riferiscono i media ad Islamabad. Secondo una prima ricostruzione fornita dal ministro dell'Informazione della provincia di Khyber Pakhtunkhwa, Mian Iftikhar Hussain, "la bomba era stata collocata in un furgone parcheggiato proprio all'esterno della moschea di Matani".
Da parte loro fonti ospedaliere hanno fornito un bilancio di "sei persone uccise e 16 ferite per l'effetto della deflagrazione". Gli analisti sottolineano che l'area di Matani di questa provincia è rimasta per molto tempo sotto l'influenza dei militanti antigovernativi e che le autorità hanno spesso utilizzato per contrastarla una milizia privata (Aman Lashkat) che è stata spesso attaccata con kamikaze ed altri tipi di attentati. (ANSA)



  

Apple, no app per seguire attacchi droni


 


Applicazione ha ''contenuto discutibile''

 

  NEW YORK, 31 AGO - Apple dice no a Drones+, l'applicazione per seguire su iPad e iPhone gli attacchi dei droni americani e mettere in guardia gli utilizzatori quando qualcuno viene ucciso dall'attacco di drone. L'applicazione e' stata sviluppata da Josh Begley ed e' gia' stata respinta tre volte da Apple. Secondo il portavoce di Apple, Tom Neumayr, l'app ha un ''contenuto discutibile''.

(ANSA)

Orrore in Afghanistan: decapitati un bimbo di 12 anni e una bimba di 6

I due episodi non sono collegati tra loro

Episodi raccapriccianti continuano a segnare in modo implacabile la vita quotidiana in Afghanistan dove il conflitto interno si mescola in modo spesso indecifrabile con la criminalità comune, e dove c'é anche chi trova perfino la forza per decapitare dei bambini. Non si era ancora spento l'orrore del massacro di 17 persone orribilmente sgozzate giorni fa durante una festa in un villaggio remoto della provincia meridionale di Helmand, quando oggi è circolata in un baleno la notizia di due bambini, uno di 12 anni e una di 6, che sono stati decapitati ed abbandonati nelle province, lontane fra loro, di Kandahar e Kapisa. Mentre in Pakistan i talebani hanno rivendicato con un video la decapitazione di 12 soldati pachistani.
Il portavoce del governo provinciale di Kandahar, Jawid Faisal, ha detto ai giornalisti che non vi sono dubbi che il bambino sia stato decapitato mercoledì dai talebani, "per vendicarsi del fatto che il fratello maggiore si fosse arruolato nella polizia afghana". Lo stesso Faisal ha aggiunto che sconosciuti hanno bloccato il piccolo mentre dal distretto di Zherai si stava recando a quello di Panjwai. Il suo cadavere, si é infine appreso, è stato abbandonato sul ciglio della strada. Soltanto qualche settimana fa, ha concluso, gli insorti avevano riservato lo stesso trattamento ad un ragazzo di 14 anni nel distretto di Zherai, dopo averlo accusato di aver spiato a favore del governo afghano. Più misterioso, e se possibile ancora più assurdo, il caso della bimba decapitata nella provincia di Kapisa. Abdul Hakim Akhundzada, capo del distretto di Tagab della provincia di Kapisa, ha fornito durante una conferenza stampa gli scarni elementi disponibili. Il corpo della bambina di cui non è nota l'identità, ha detto, "é stato trovato in un giardino del villaggio di Jalu Khel".
Oltre ad avere la testa staccata dal corpo, ha poi indicato, "gli inquirenti hanno constatato che il cadavere aveva subito anche la mutilazione delle due gambe". Non è ancora possibile dire, ha concluso Akhundzada, "chi può essere stato responsabile di questo orrendo crimine". Nella vicenda del massacro delle 17 persone sgozzate il 26 agosto durante una festa nel distretto di Kajaki, nella provincia di Helmand, la responsabilità è stata ufficialmente addossata ai talebani, che però l'hanno vigorosamente respinta.
Resta il fatto che i civili, e soprattutto i bambini, continuano ad essere i protagonisti involontari di questa crisi. Secondo l'ultimo rapporto dell'ufficio Onu in Afghanistan, infatti, quasi il 30% delle vittime della violenza nel paese sono donne o bambini e che questo fenomeno continua ad avere "livelli allarmanti".
Atroce anche la sorte toccata ad almeno 12 soldati pachistani, di cui le autorità avevano perso le tracce - insieme ad altri 3 - da tre giorni, in seguito agli scontri con i talebani nel distretto tribale di Bajaur, nel nord-ovest del Paese, in un'operazione dell'esercito scattata per cacciare dalla zona dei talebani arrivati la scorsa settimana dalla provincia afghana di Kunar. In un video raccapricciante, annunciato dal Movimento dei Talebani del Pakistan (Ttp) nei giorni scorsi e inviato oggi all'Afp, uomini armati mostrano 12 teste per terra. Un comandante recita versi del Corano e rivendica: "Abbiamo ucciso soldati infedeli, 12 sono stati decapitati". (ANSA)

 

Quando i terroristi consegnarono le armi al Cardinale





(di Enzo Quaratino) 

Era il 13 giugno 1984: nell'Arcivescovado di Milano uno sconosciuto si presento' al segretario dell'epoca del cardinale Carlo Maria Martini, don Paolo Cortesi, e, mentre questi era al telefono, abbandono' sul tavolo tre borse, contenenti due fucili kalashnikov con caricatore, un fucile beretta, un moschetto automatico, tre pistole, un razzo per bazooka, quattro bombe a mano, due caricatori e centoquaranta proiettili. Era l'arsenale dei ''Comitati Comunisti Rivoluzionari'', gruppo terroristico di sinistra, ritenuto contiguo alle Brigate Rosse, che nella seconda meta' degli anni settanta aveva firmato alcune eclatanti azioni di sangue. L'arsenale fu consegnato al cardinal Martini, figura carismatica a Milano, per indicare una volta di piu' la fine definitiva della lotta armata e per sollecitare una mediazione della Chiesa per una ''riconciliazione umana, sociale e politica''. L'uomo non proferi' parola e ando' via. Il cardinale Martini, informato dal segretario, chiamo' le autorita', e le armi furono affidate alla polizia. Il cardinale scelse il silenzio su quel gesto emblematico degli ormai ex terroristi, ed il fatto emerse solo alcuni giorni dopo durante un processo a circa 200 imputati, molti dei quali accusati di banda armata. Tra questi vi era Ernesto Balducchi, che il 27 maggio 1984, dal carcere di San Vittore, aveva inviato al cardinale Martini una lettera per chiedere l'intervento della Chiesa in una sorta di mediazione per la ripresa del dialogo con lo Stato. Nel documento si diceva tra l' altro: ''Noi vi affidiamo le nostre armi''. Si penso' a consegna figurata. L' episodio del 13 giugno, invece, diede concretezza a quel che era scritto nella lettera. Due giorni prima che si presentasse lo sconosciuto, descritto da don Cortesi come un giovane tra i 25 e i 30 anni, alto circa uno e ottanta, lo stesso segretario del cardinale aveva ricevuto una telefonata da un anonimo il quale sosteneva di avere del materiale da consegnare all' Arcivescovo di Milano. Si penso' in quella circostanza che si trattasse di omaggi che solitamente venivano fatti al Cardinale. Quando la notizia della consegna delle armi da parte dei terroristi al cardinal Martini divenne pubblica, un portavoce dell' arcivescovado forni' una versione ufficiale: ''La mattina del giorno 13 giugno si e' presentato alla segreteria dell' Arcivescovo un uomo che ha consegnato tre borse per il cardinal Martini, andandosene immediatamente. Quando, in tempo successivo, le tre borse sono state aperte scoprendovi in esse delle armi, sono state subito avvisate le autorita' competenti che hanno provveduto a farle ritirare dalla polizia''. ''No, non ebbi paura'', racconto' lo scorso anno il cardinal Martini al giornalista Aldo Maria Valli, che ha riportato quel colloquio nel suo libro ''Storia di un uomo''. ''Quando portarono le borse con le armi - disse il cardinale - chiamai il prefetto. Arrivò e io dissi: bene, apriamo le borse. Lui resto' inorridito ed esclamo': per carita', non tocchiamo niente! Una situazione curiosa. Temo che un po' di paura l'ebbe invece il mio segretario di allora''. (ANSA)

Morto Card. Martini, biblista che parlava a gente

Il cardinale Carlo Maria Martini in una foto d'archivio Il cardinale Carlo Maria Martini in una foto d'archivio
 
 

Martini: 'Saggio non prolungare trattamenti inutili'



"La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili. Senz'altro il progresso medico è assai positivo. Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona". E' stata sempre questa la posizione del cardinal Carlo Maria Martini sull'accanimento terapeutico, espressa più volte sia in occasione di suoi interventi a convegni sia nell'ultimo libro pubblicato nel marzo scorso 'Credere e conoscere'. Nel suo dialogo con Ignazio Marino il sacerdote spiegava: "Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico é appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti". "In particolare - aggiungeva Martini - non può essere trascurata la volontà del malato". E continuava: "non si può mai approvare il gesto di chi induce la morte di altri, in particolare se si tratta di un medico. E tuttavia non me la sentirei di condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di un ammalato ridotto agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e psichiche disastrose lo chiedono per sé". Il suo pensiero, dunque, sull'eutanasia e l'accanimento terapeutico è sempre stato chiaro fin da quando, già malato di Parkinson e bisognoso di continue cure e terapie per "reggere alla fatica quotidiana e per prevenire malanni debilitanti", Martini, intervenne nel dibattito politico aperto dal caso Welby. "C'é l'esigenza - scriveva in un suo articolo sul Sole 24 ore - di elaborare norme che consentano di respingere le cure, anche se per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci sono regole generali e non può essere trascurata la volontà del malato".Casi come quello di Piergiorgio Welby "saranno sempre più frequenti" e "la Chiesa dovrà darvi più attenta considerazione pastorale". Martini, tra l' altro, indicava l' esigenza "dal punto di vista giuridico di elaborare una normativa" che tuteli paziente e medico "senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell' eutanasia". "Un' impresa difficile, ma non impossibile. Mi dicono - sosteneva Martini - che ad esempio la recente legge francese in questa materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista". Quella che serve, sottolineava Martini, è una normativa giuridica che, in particolare, "da una parte consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure, in quanto ritenute sproporzionate dal paziente, dall' altra protegga il medico da eventuali accuse, come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio, senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell' eutanasia". (ANSA)

Su twitter no accanimento, 'ultima lezione teologica'



Sta suscitando diverse reazioni su Twitter la notizia, diffusa dal suo medico, che "non ci sarà accanimento terapeutico" per il Cardinal Martini, affetto dal morbo di Parkinson da anni e in gravi condizioni. "Dimostra ancora una volta quale grande uomo è...", "Maestro, per credenti e non, fino all'ultimo", "Da ateo pregherò per il cardinal Martini. Un prelato illuminato e illuminante. Per tutta una vita ha saputo ascoltare", "L'ultima lezione teologica": sono solo alcuni dei commenti che si leggono in rete. E c'é anche qualche nota polemica: "Vediamo un po' cosa ha da dire la Chiesa adesso", "Gli si concede quello che non è accettabile per tutti gli altri?", "Grande rispetto per il Cardinal Martini che rifiuta accanimento terapeutico. E il pensiero va a Eluana Englaro per la quale fu obbligatorio", scrivono altri utenti ricordando il caso della ragazza morta nel 2009 - dopo aver vissuto in stato vegetativo per 17 anni - dopo l'interruzione della nutrizione artificiale e dopo una lunghissima battaglia che suo padre Beppino ha combattuto contro Chiesa e istituzioni. (ANSA)

Morto cardinal Martini

Nel 2002 si ritirò a Gerusalemme, tornò nel 2008

 

 

 

E' morto il cardinale Carlo Maria Martini. Lo comunica l'arcivescovo di Milano, Angelo Scola. Pochi istanti fa, dal cancello del collegio Aloisianum è uscito un anziano sacerdote, che non ha voluto rendere noto il proprio nome, e che però ha detto ai giornalisti che lo hanno avvicinato per chiedergli se sapesse qualcosa del Cardinale, "Martini è morto". "Era un grande uomo - ha aggiunto l'anziano sacerdote - un grande studioso, ci ha lasciato tanti insegnamenti, era un uomo di Dio". Poi si è allontanato in auto.
La camera ardente per Carlo Maria Martini, l'ex arcivescovo di Milano morto oggi a Gallarate, sarà allestita in Duomo dalle 12 di domani. I funerali saranno celebrati sempre in cattedrale lunedì alle 16. Lunedì a Milano sarà lutto cittadino.
 Con il cardinale Carlo Maria Martini scompare un protagonista degli ultimi decenni nella vita della Chiesa cattolica, che ha interpretato spesso posizioni 'avanzate', non solo sui temi etici, e non di rado in contrasto con le linee ufficiali della gerarchia vaticana. Di lui si può parlare anche come di un "mancato Papa", essendo arrivato al Conclave del 2005, quello che elesse Benedetto XVI, come uno dei "papabili", sostenuto - si disse allora - dall'ala più progressista del Collegio cardinalizio. Già dal 2002 arcivescovo emerito di Milano, trasferitosi a Gerusalemme per riprendere i suoi prediletti studi biblici, in realtà - secondo le successive ricostruzioni - in quel Conclave Martini ottenne meno consensi del previsto e il duello nelle quattro votazioni si restrinse ai soli Ratzinger e Bergoglio.
Eccelso biblista, grande propulsore dell'ecumenismo tra le varie Chiese e confessioni cristiane, promotore del dialogo tra cristianesimo ed ebraismo, il gesuita Martini ha avuto più volte anche posizioni critiche su decisioni dell'attuale Papa, spesso 'scomode', o comunque non in linea con l'ufficialità. Ad esempio, nel luglio 2007, con un'intervista al Sole 24 Ore, Martini criticò il 'motu proprio' "Summorum Pontificum" con cui Benedetto XVI aveva liberalizzato la messa in latino col rito tridentino.
"Amo la messa preconciliare e il latino ma non celebrerò la messa con l'antico rito", disse in sostanza il porporato, apprezzando comunque "la volontà ecumenica a venire incontro a tutti" mostrata dal Pontefice tedesco. Nel marzo 2010, poi, nel pieno dello scandalo pedofilia nella Chiesa cattolica, venne riportato un suo pronunciamento favorevole al ripensamento dell'obbligo di celibato dei preti. In un comunicato diffuso però dall'arcidiocesi di Milano, Martini smentì tali dichiarazioni, sostenendo anzi di ritenere "una forzatura coniugare l'obbligo del celibato per i preti con gli scandali di violenza e abusi a sfondo sessuale".
Ma è in particolare sui temi etici che le sue prese di posizione ha fatto più volte scalpore. Nell'aprile del 2006 avevano fatto molto discutere le aperture di Martini sull'uso del profilattico, indicato come "male minore" nel caso di prevenzione dal contagio Hiv. "Lo sposo affetto dall'Aids - spiegava in un dialogo per L'Espresso con il chirurgo Ignazio Marino, poi diventato parlamentare Pd - è obbligato a proteggere l'altro partner e questi pure deve potersi proteggere". In quel dialogo, Martini manifestava anche prudenza nell'esprimere giudizi sulla fecondazione eterologa ed invitava ad approfondire la strada per l'adozione di embrioni, anche da parte delle donne single, pur di impedirne la distruzione. Disco verde veniva dato anche all'adozione per i single: in mancanza di una famiglia "composta da uomo e donna che abbiano saggezza e maturità", anche "altre persone, al limite anche i single, potrebbero dar di fatto alcune garanzie essenziali. Non mi chiuderei perciò a una sola possibilità".
E sull'eutanasia: "neppure io vorrei condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo". Tuttavia "é importante distinguere bene gli atti che arrecano vita da quelli che arrecano morte. E questi ultimi non possono mai essere approvati". Tutti temi finiti anche nel recente libro "Credere e conoscere", di Martini e Marino (Einaudi), in cui non mancano 'aperture' esplicite su questioni come, oltre che il profilattico, le coppie di fatto, sia etero che omosessuali. A proposito di chi ha partner dello stesso sesso, ad esempio, Martini diceva che "tale comportamento non può venire né demonizzato né ostracizzato".
Mentre, anche se la famiglia va difesa, "non è male, in luogo di rapporti omosessuali occasionali, che due persone abbiano una certa stabilità e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido - affermava l'arcivescovo emerito - le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili". Anche se in contrasto con alcune delle posizioni di Benedetto XVI, comunque, Martini non ha mai fatto mancare il rapporto di vicinanza e fedeltà con l'attuale Papa, suo coetaneo, al quale, nell'ultimo incontro avuto a Milano il 3 giugno scorso, in occasione del Meeting mondiale delle Famiglie, ha espresso anche solidarietà per la vicenda dei documenti trafugati. "Ho voluto dire al Papa che accettare queste cose dolorose come dono è purificatorio. Lui soffre e noi soffriamo con lui. Ma la verità si compirà", aveva commentato Martini all'indomani dell'incontro in Curia. (ANSA)

Dalla Chiesa: un intreccio di segreti lungo trent'anni


I 'cento giorni a Palermo' del superprefetto, ucciso il 3 settembre 1982

La A112 bianca con i corpi senza vita di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro, crivellata dalle raffiche di Kalashnikov AK-47, in via Isidoro Carini, Palermo, il 3 settembre 1982

La A112 bianca crivellata dalle raffiche di Kalashnikov AK-47 il 3 settembre 1982


Carlo Alberto Dalla Chiesa e la seconda moglie Emanuela Setti Carraro alla prima uscita dopo il loro matrimonio nel luglio 1982

L'agente Domenico Russo, ucciso assieme a Carlo Alberto Della Chiesa e alla moglie del generale

Una donna e un ragazzo leggono un cartello con la scritta ''Qui e' morta la speranza dei palermitani onesti '' apparso sul luogo dell'omicidio

Il presidente della Repubblica Sandro Pertini e il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini durante i funerali a Palermo il 4 settembre 1982

Il tricolore, la sciabola e il berretto della divisa da generale di Carlo Alberto Dalla Chiesa sul feretro del generale

Il presidente della Repubblica Sando Pertini rende omaggio alla salma di Carlo Alberto Dalla Chiesa durante i funerali a Palermo. In prima fila i ministri Virginio Rognoni e Bettino Craxi

Lungo corteo di cittadini per rendere l'ultimo saluto a Carlo Alberto Dalla Chiesa prima dei funerali a Palermo

Rita Dalla Chiesa commossa sul feretro del padre durante i funerali a Palermo

Il feretro di Carlo Alberto Dalla Chiesa portata a spalla da ufficiali di polizia e carabinieri dopo i funerali nella chiesa di San Domenico a Palermo

Il ministro dell'Interno Virginio Rognoni attraversa piazza San Domenico scortato da funzionari di polizia, mentre da una parte della folla vengono scanditi slogan contro il governo, dopo i funerali

Rita Dalla Chiesa bacia le medaglie ricevute dal padre Carlo Alberto durante la sua carriera ai funerali del generale celebrati a Milano il 5 settembre 1982

Carlo Alberto Dalla Chiesa e la seconda moglie Emanuela Setti Carraro nel giorno del loro matrimonio nella cappella del castello di Ivano Fracena, in provincia di Trento

Il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa entra in Prefettura a Palermo il 30 aprile 1982


Il ministro dell'Interno Virginio Rognoni (S) e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (D)


di Franco Nicastro

C'era un inquieto presagio nelle parole che Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva affidato a Giorgio Bocca nella sua ultima intervista: "Un uomo viene colpito quando viene lasciato solo". Quelle parole davano forza a un senso di impotenza, frustrazione, ostilità che accompagnò Dalla Chiesa nei suoi 'cento giorni a Palermo'. La sfida alla mafia era cominciata lo stesso giorno (30 aprile 1982) in cui era stato ucciso Pio La Torre. E si sarebbe conclusa la sera del 3 settembre 1982 in via Carini: sotto i colpi di Kalashnikov di un commando il generale fu ucciso con la moglie Emmanuela Setti Carraro e l'agente Domenico Russo.
Mentre all'Ucciardone si brindava, in una Palermo stretta tra orrore e disperazione, una mano anonima lasciò un cartello sul luogo dell'agguato: "Qui è morta la speranza dei palermitani onesti". All'indignazione della città fece eco la denuncia del cardinale Salvatore Pappalardo che ai funerali svolti in un clima di grande tensione tuonò: "Mentre a Roma si discute Sagunto viene espugnata". Sagunto, cioé Palermo, era stata espugnata da un sistema criminale che aveva colpito lo Stato e stritolato Dalla Chiesa, lasciato solo e senza i poteri di coordinamento e di intervento a lungo e inutilmente reclamati.
All'atto della sua nomina il generale era stato chiaro. Veniva in Sicilia per colpire la struttura militare di Cosa nostra ma soprattutto per spezzare il sistema di coperture e di complicità tra la mafia e la politica. Al presidente del consiglio Giulio Andreotti aveva promesso: "Non guarderò in faccia nessuno".
L'attacco alla mafia era partito con un rapporto contro 162 boss, l'atto di avvio di un lavoro investigativo che pose le basi del primo maxiprocesso a Cosa nostra con 475 imputati e una montagna di accuse. L'altro fronte investigativo aperto da Dalla Chiesa era il sistema politico-affaristico contiguo alla mafia. Ma proprio queste iniziative, hanno scritto i giudici della corte d'assise, suonavano come un "chiaro campanello d'allarme per chi all'epoca traeva impunemente quanto illecitamente vantaggio dai rapporti tra la mafia e la politica, soprattutto nello specifico mondo degli appalti". Per questo l'azione del superprefetto fu circondata dalle ostilità politiche ambientali.
Preparata da una catena di sangue intitolata dalla mafia "campagna Carlo Alberto", con la strage di via Carini i boss poterono regolare i conti con un nemico storico implacabile che in Sicilia aveva già dato prova della sua determinazione: nel 1949 quando, giovane capitano, era stato mandato a Corleone a perseguire il clan di Luciano Liggio e tra gli anni '60 e '70 quando aveva comandato la legione dei carabinieri di Palermo.
Dopo trent'anni i processi hanno scritto una verità parziale. Sono stati condannati i sicari e i vertici della cupola tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano e Pippo Calò. Ma i lati oscuri sono tanti: "Si può, senz'altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d'ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all'interno delle stesse istituzioni, all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale". Così si legge nella sentenza che ha condannato all'ergastolo i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia, e a 14 anni i pentiti Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. L'ombra della "coesistenza" di interessi, di cui parla la sentenza, incombe su un misterioso episodio. La sera del delitto qualcuno andò a cercare nella residenza di Dalla Chiesa lenzuoli per coprire i cadaveri. Ma ne approfittò per ripulire la cassaforte dove il superprefetto teneva documenti scottanti, compreso un dossier sul caso Moro. Quando i magistrati l'aprirono non trovarono più nulla. Da quel mistero ne sono germinati tanti altri, tutti irrisolti, sull'intreccio di poteri che decretarono la fine di Dalla Chiesa. (ANSA)