Nella quieta conca montana che oggi chiamiamo Valle Peligna, tra le cime severe della Maiella, del Morrone e della Plaia, un tempo si muoveva un piccolo popolo italico, fiero e antico: i Peligni, gente di lingua osco-umbra, che già nel I millennio a.C. aveva trovato dimora lungo i corsi dell’Aterno, del Gizio e del Sagittario. Qui sorgevano le loro città: Sulmo, futura patria del poeta Ovidio; Superaequum; e Corfinium, cuore politico della loro identità.
L’etnonimo Peligni — Paeligni per i Romani — risuonava da secoli nelle testimonianze antiche, ma il suo significato rimaneva avvolto nel mistero, privo di legami evidenti con la loro stessa lingua. Sulle origini del popolo due voci antiche si fronteggiavano: Festo, che li voleva d’Illiria; e Ovidio, che li diceva figli delle genti sabine. Nessuna delle due tradizioni escludeva l’altra, e forse la verità stava nella fusione di molte stirpi, unite dal potente ceppo osco-umbro che, nel XII secolo a.C., aveva attraversato la penisola per stabilirsi entro quelle valli.
Quando le fonti iniziarono a registrarne la presenza stabile, nel IV secolo a.C., i Peligni erano già popolazione agguerrita, gelosa delle proprie terre. Nel 335 a.C. il pretore latino Lucio Annio di Setia ricordava con orgoglio di averli sconfitti, lui e i suoi, senza che il popolo osasse più opporsi. Ma il conflitto più vasto giunse poco dopo: durante la seconda guerra sannitica, nel 325 a.C., i Peligni si unirono a una confederazione con Marrucini, Marsi e Vestini. Roma reagì con audacia, inviando Decimo Giunio Bruto Sceva che, devastando campagne e villaggi, costrinse gli Italici a una battaglia sanguinosa.
Eppure, nel volgere di pochi anni, il vento cambiò. Nel 304 a.C., dopo la grave disfatta degli Equi, i Peligni — consapevoli della crescente forza romana — inviarono ambasciatori a chiedere un’alleanza. Roma accettò, e quel trattato segnò il destino del popolo. Pur conservando autonomia interna, essi non entrarono più in contrasto con la Repubblica. Nel 295 a.C., dopo la grande vittoria romana al Sentino, non solo non soccorsero la coalizione sconfitta, ma colpirono i Sanniti in fuga, abbattendo un quinto dei loro uomini.
Nel II secolo a.C., nonostante la devastazione erroneamente attribuita ad Annibale, i Peligni continuarono a vivere in pace e alleanza con Roma. Una loro coorte combatté eroicamente nel 168 a.C. a Pidna, all’ala destra dell’esercito romano, quando la Macedonia del re Perseo cadde sotto il peso delle legioni.
Ma lo spirito indomito del popolo non era sopito. All’alba del I secolo a.C., insieme a Marsi e Piceni, i Peligni furono tra gli ispiratori della guerra sociale, combattuta per ottenere l’agognata cittadinanza romana.
Nel 91 a.C., nella città peligna di Corfinium, gli Italici ribelli fondarono un proprio Stato: un senato di cinquecento membri, una giunta, due consoli-imperatori e dodici pretori. L’esercito si divideva in due grandi tronconi, mentre il contingente peligno era guidato da Vezio Scatone.
L’anno successivo i Peligni accorsero con i Piceni di Gaio Vidacilio in soccorso di Ascoli, poi avanzarono su Isernia, che presero dopo una dura campagna. Ma la fortuna presto li abbandonò: sconfitti da Sesto Giulio, si arresero definitivamente nell’88 a.C., quando Pompeo Strabone occupò il loro territorio. Corfinium cadde, e Vezio Scatone trovò la morte per mano di un servo.
Dopo la guerra, la lex Iulia de civitate concesse progressivamente la cittadinanza ai popoli ribelli. I Peligni entrarono così a pieno titolo nel mondo romano, inquadrati — come i Marsi — nella gens Sergia. Con la cittadinanza arrivò anche la colonizzazione sillana, e con essa la rapida scomparsa della loro lingua, sostituita dal latino.
Come molte genti osche, i Peligni affidavano il potere al meddix, magistrato supremo che univa funzioni politiche, militari e giudiziarie. Gli anni venivano contati secondo il suo mandato, proprio come i Romani facevano con i consoli.
Il pantheon peligno era vasto e antico: Anaceta, dea dal simbolo del serpente; i Dioscuri, venerati come Iovieis Puclois; e le divinità delle acque, affini al Çerfo umbro, servite da sacerdotesse consacrate.
La terra peligna era generosa: poco spazio all’olivo, ma campi rigogliosi di grano e viti. Plinio il Vecchio raccontava come, presso l’odierna Popoli, l’acqua favorisse le coltivazioni, nutrisse le radici e rendesse le viti forti anche contro l’inverno, quando i Peligni le bagnavano con cura affinché il gelo non le colpisse.
Così, tra montagne solenni e acque limpide, visse per secoli questo popolo fiero, alleato e poi parte della potenza romana, lasciando nel paesaggio d’Abruzzo le impronte silenziose della propria storia.
SCRIPTA MANENT

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