INCHIESTE E SEGRETI DI STATO - IL REPORTER DEL “NEW YORK TIMES” CHE SFIDA OBAMA: JAMES RISEN RISCHIA LA PRIGIONE SE NON SVELA LE SUE FONTI
Nel 2003 Risen aveva scoperto che la Cia aveva ordito un complotto per boicottare il programma nucleare iraniano, fornendo a Teheran informazioni sbagliate riguardo la costruzione di alcuni apparecchi, attraverso uno scienziato russo. All’ultimo momento però il russo ci aveva ripensato, rivelando tutto agli iraniani….
Paolo Mastrolilli per ‘La Stampa’
I giornalisti devono finire in galera, quando rivelano qualcosa che secondo i loro governi dovrebbe restare segreto? Sono almeno dieci anni che questa domanda assilla il mondo della politica e dell’informazione americana, ma una risposta abbastanza definitiva dovrebbe arrivare dall’amministrazione Obama nei prossimi giorni. Il dipartimento alla Giustizia, infatti, deve decidere a breve se forzare il reporter del «New York Times» James Risen a rivelare la fonte di una notizia, e mandarlo in prigione se rifiutasse. Una scelta che segnalerà la posizione definitiva del governo, e forse risolverà il dilemma anche in futuro.
Nel 2003 Risen aveva scoperto che la Cia aveva ordito un complotto per boicottare il programma nucleare iraniano, fornendo a Teheran informazioni sbagliate riguardo la costruzione di alcuni apparecchi, attraverso uno scienziato russo. All’ultimo momento però il russo ci aveva ripensato, rivelando tutto agli iraniani.
Il «New York Times» non aveva pubblicato l’articolo, perché la Casa Bianca l’aveva convinto che avrebbe danneggiato gli Usa. Risen però aveva raccontato la vicenda nel suo libro del 2005 «State of War», e l’amministrazione Bush lo aveva portato in tribunale per rivelare la sua fonte. Il governo aveva saputo che le informazioni venivano dall’agente Cia Jeffrey Sterling e lo aveva incriminato, ma per processarlo aveva bisogno della testimonianza di Risen, che finora si è rifiutato di parlare. Gli appelli legali si sono esauriti, e ora il dipartimento alla Giustizia deve decidere se chiedere di mandarlo in galera.
La questione della pubblicazione dei documenti segreti è diventata scottante dopo gli attentati dell’11 settembre. Secondo i giornalisti è loro dovere rivelare quanto fa il governo, e il Primo emendamento della Costituzione sulla libertà di espressione dà loro il diritto di farlo; secondo Bush era criminale pubblicare segreti che danneggiavano la sicurezza nazionale.
Judith Miller del «Times» era finita in prigione, per non rivelare chi le aveva detto che Valerie Plame, moglie dell’ambasciatore Wilson che aveva criticato proprio Bush sui motivi dell’invasione in Iraq, era un agente Cia. Poi sono seguiti i casi Wikileaks e Snowden, che hanno reso ancora più drammatica la disputa.
L’amministrazione Obama, accettando le pressioni della comunità dell’intelligence, finora ha seguito le orme di quella precedente. Ha avviato sette procedimenti legali contro chi ha rivelato segreti di Stato, al punto che l’ex direttrice del «New York Times», Jill Abramson, l’ha definita «la più chiusa con cui abbia lavorato».
Ora però è arrivata la decisione che definirà questo problema. Il segretario alla Giustizia Holder ha detto che «finché sarò in questo posto, nessun giornalista andrà in prigione perché sta facendo il suo mestiere». Obama era stato eletto nel nome della trasparenza, e ora deve decidere fin dove applicarla.
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