IL CINEMA DEI GIUSTI - “APES REVOLUTION” È INTRICATO E HA TROPPI EFFETTI IN DIGITALE, MA È MEGLIO DI TANTI KOLOSSAL FRACASSONI COI SUPEREROI
Ci risiamo: è tornato “Il Pianeta delle Scimmie”, ma nel sequel (del prequel) il perfido Koba infrangerà la legge più importante: scimmia non uccide scimmia. E tenterà una rivoluzione per il possesso del Pianeta Terra che prevede il tradimento del leader delle scimmie sapienti, Cesare, troppo legato agli umani...
Marco Giusti per Dagospia
Apes Revolution di Matt Reeves.
Cesare deve morire. Anche tra le scimmie. Ci risiamo. Sì, perché il perfido Koba, più cattivo del Babo melvilliano (“Benito Cereno”), cova un odio per la razza umana che lo porterà a infrangere la prima legge della cultura scimmiesca: scimmia non uccide scimmia. E a tentare una rivoluzione per il possesso del Pianeta Terra che prevede il tradimento verso il leader delle scimmie sapienti, Cesare, troppo legato agli umani. Altro che Renzi.
Se vi è piaciuto il primo episodio della nuova serie del “Pianeta delle scimmie”, “L’alba del Pianeta delle scimmie”, vi piacerà molto anche questo complesso, non sempre ben definito sequel, “Apes Revolution” (ma in inglese si intitola “Dawn of The Planet of the Apes”), diretto dal Matt Reeves di “Cloverfield” e di “Blood Story”, che è uno dei pochi film da non perdere di quest’estate.
Diciamo subito che è vero che ci sono troppi effetti in digitale e che possono non piacere a tutti, ma il risultato delle scene di masse nella rivolta finale con le scimmie capitanate da Koba che assaltano ciò che resta della razza umana a San Francisco è grandioso. Non solo. I due protagonisti scimmieschi, Cesare, al solito “interpretato” dal geniale Andy Sarkis, suoi sono gli occhi della prima inquadratura del film, e il cattivo Koba, cioè Toby Kebbel, sono assolutamente strepitosi, sia come personaggi che come attori.
Il male assoluto che incarna Koba è il male che ha subito dagli uomini durante gli anni di torture da laboratorio, mentre Cesare non riesce a scordare il suo passato felice nella famiglia umana di James Franco, scomparso dalla scena con la scomparsa del primo regista della serie, Rupert Wyatt. Sono passati dieci anni dalla fuga di Cesare e dei suoi fratelli nei boschi vicini a San Francisco e nel frattempo la razza umana è stata decimata da un virus scimmiesco da laboratorio e non è riuscita in nessun modo a compattarsi per l’incapacità al dialogo e alla fratellanza.
Ci troviamo così in una situazione da vecchio western con indiani. Da una parte, nel fortino di una diroccata San Francisco, i bianchi sopravvissuti al contagio capitanati da Dreyfus, un Gary Oldman poco convinto, da un’altra, nel bosco, le scimmie capitanate da Cesare e dal suo miglior guerriero, Koba. Ma nel bosco delle scimmie c’è una vecchia diga che, una volta riattivata, potrebbe dare alla città degli umani, l’energia necessaria per comunicare col mondo e sopravvivere. Così un drappello di umani, al comando del buon padre di famiglia Malcolm, Jason Clarke, con figlio e fidanzata dottoressa a fianco, parte per trattare con Cesare e riattivare la diga.
Malcolm e Cesare vogliono vivere in pace, ma Koba vuole la guerra e vede nella tragedia degli essere umani il momento buono per dar loro il colpo di grazia. Pur soffocato da troppe sdolcinature che allungano un po’ la storia, ma non apportano troppa sostanza, il film rivela una trama che sembra quasi un remake più che di qualche episodio della saga scimmiesca, di grandi classici western come “L’amante indiana” di Delmer Daves con James Stewart e Debra Paget, dove il Kociss di Jeff Chandler è esattamente quel che per le scimmie è Cesare. Il grande capo indiano che tratta con i bianchi e non rompe i trattati. Solo che la parte cattiva della tribù, quella che non vuole cedere alle lusinghe dei bianchi, tenterà di riportare tutti alla guerra.
Da questo vecchio meccanismo western, ormai lontano, Reeves e i suoi tre-quattro sceneggiatori, troppi, visto che il film è stato riscritto molte volte nel passaggio tra i registi, tirano fuori una storia un po’ zoppicante che permette però a Cesare di comunicare con i bianchi rivelando il suo lato più complesso, e a Koba di scatenarsi in quella che sarà una vera rivoluzione contro il suo leader e contro la razza umana. Ovvio che ci si può vedere un po’ di tutto, dal Medio Oriente infuocato di questi giorni alla guerra civile in Ucraina, come ci si può vedere l’incapacità umana di muoversi verso la pace e di sapersi confrontare solo con le armi, la guerra e l’odio viscerale.
Ma non è che Reeves sia un regista così libero e colto da poter domare una macchina così complessa, 140 milioni di dollari di budget per un incasso attuale di 356 milioni globali, per farne un film con una sua precisa visione del mondo. Non è né Tim Burton, che fece un suo “Pianeta delle scimmie” non riuscito ma di grande bellezza visiva e pieno di idee strepitose, né il Delmer Daves dei tempi di “L’amante indiana” scritto dal grande Albert Maltz. Ma il Cesare di Andy Sarkis ha molto della fierezza indiana del Kociss di Jeff Chandler. Non è poco.
E il film, alla fine, funziona più di tanti kolossal fracassoni coi supereroi. E l’immagine di Koba che attacca gli umani a cavallo sparando all’impazzata con due mitra in mano è qualcosa che nel cinema d’avventura potrebbe rimanere a lungo. Come l’idea che una delle prime mosse del rivoluzionario sia mettere in gabbia non tanto gli umani, quanto i dissidenti troppo legati al governo precedente. Altro che Renzi. In sala.
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