mercoledì 7 maggio 2014

Il dialogo di Ezio Raimondi con testi e contesti letterari

Ricordi. Scomparso un «europeo di provincia», grande filologo e critico letterario. Nella filologia, una via alternativa a quelle che Raimondi chiamava le «dialettiche totalizzanti». Indagini il cui movente profondo attinge alla interdisciplinarità e si confronta con diverse metodologie
Foto di Ezio Raimondi
"Diffi­date di ciò che sem­bra sem­plice», amava dire ai suoi stu­denti Ezio Rai­mondi. Forse in que­sto senso acuto e inquieto della com­ples­sità, in que­sta capa­cità di tra­sfor­mare la per­ples­sità e per­sino il disa­gio di fronte al diverso e all’insolito in pene­trante intel­li­genza inter­pre­ta­tiva è con­si­stito il segreto del suo magi­stero cri­tico, senz’altro uno dei più rile­vanti del Nove­cento. Per più versi, il per­corso di Rai­mondi uomo e stu­dioso ha carat­teri di asso­luta singolarità.
Nato nel 1924 a Liz­zano in Bel­ve­dere da una fami­glia di umili ori­gini, ini­ziò a stu­diare il tede­sco da auto­di­datta, venendo in con­tatto, tra i primi in Ita­lia, con Essere e tempo di Mar­tin Hei­deg­ger e con gli scritti di alcuni tra i più grandi inter­preti della cri­tica nove­cen­te­sca: uno fra tutti Ernst Robert Cur­tius. La sua for­ma­zione maturò negli anni dell’egemonia cul­tu­rale cro­ciana, e la pro­pria ine­sau­ri­bile curio­sità lo spinse a infran­gere le ras­si­cu­ranti cer­tezze di scuola per cer­care inter­lo­cu­tori sem­pre nuovi. La sua tem­pra di «euro­peo di pro­vin­cia» (per citare il titolo di un suo volume su Renato Serra) si oppose sem­pre a quel certo pro­vin­cia­li­smo della cul­tura ita­liana. La stessa instan­ca­bile ener­gia pro­po­si­tiva animò la sua atti­vità di pro­mo­tore cul­tu­rale della casa edi­trice «Il Mulino», il cui cata­logo con­tri­buì a far cono­scere in Ita­lia alcuni tra i titoli migliori della cul­tura euro­pea. Dall’università di Bolo­gna, intanto, Rai­mondi aveva mutuato due esem­plari metodi di ricerca: l’intelligenza eru­dita di Carlo Cal­ca­terra e la geniale sen­si­bi­lità inter­pre­ta­tiva di Roberto Longhi.
I primi impor­tanti pro­blemi sui quali Rai­mondi impe­gnò la pro­pria atti­vità di stu­dioso riguar­dano i ter­ri­tori impervi dell’erudizione e della filo­lo­gia; lo stu­dio su Codro e l’Umanesimo a Bolo­gna (1950) e l’edizione cri­tica dei Dia­lo­ghi di Tor­quato Tasso (1958), tra le pagine dei quali dà prova di un metodo che non rimane con­fi­nato nel peri­me­tro della pur com­plessa com­pe­tenza disci­pli­nare, ma si inter­roga sul senso com­ples­sivo dell’operazione inter­pre­ta­tiva. La filo­lo­gia per Rai­mondi è infatti una via alter­na­tiva a quelle che lui chia­mava le «dia­let­ti­che tota­liz­zanti» di mar­xi­smo e idea­li­smo, pro­po­nen­dosi invece – sono parole sue – come «una sto­rio­gra­fia del dia­logo, che coglie l’individuo nella sua con­cre­tezza e uni­cità irri­du­ci­bile» e si costi­tui­sce attra­verso «un insieme di rela­zioni che non pre­cede mai i fatti ma si dà nei fatti». Segui­ranno poi i saggi sulla cul­tura barocca, sul Rina­sci­mento, su Dante e Petrarca sul Set­te­cento, su D’Annunzio, Renato Serra, Gadda e tanti altri.
Di uno degli autori a lui più affini, Ales­san­dro Man­zoni, diede una radi­cale rein­ter­pre­ta­zione cri­tica nel Romanzo senza idil­lio. Sag­gio suiPro­messi sposi (1974). La con­ti­nuata dedi­zione di Rai­mondi al capo­la­voro man­zo­niano si spiega forse con un’altra fol­go­rante defi­ni­zione che amava ripe­tere usando parole non di un cri­tico let­te­ra­rio ma di un filo­sofo, Hilary Put­nam: la let­te­ra­tura «riproduce imma­gi­na­ti­va­mente delle per­ples­sità morali». Anche negli anni recenti della crisi dell’italianistica, incal­zata dalle nuove ten­denze d’Oltreoceano e dalla tra­sfor­ma­zione pro­fonda del sapere uni­ver­si­ta­rio, le inda­gini di Rai­mondi non hanno mai perso il loro movente pro­fondo, e ciò in virtù del loro carat­tere inter­di­sci­pli­nare (come le tante ricer­che com­piute al con­fine tra let­te­ra­tura e arte) e meta­cri­tico, capace, cioè, di con­fron­tarsi con una plu­ra­lità di metodi e pro­blemi lungo l’intero arco cro­no­lo­gico della moderna teo­ria dell’interpretazione.
Dai molti saggi che Rai­mondi ha dedi­cato alla teo­ria della let­te­ra­tura, almeno due sono gli ambiti nei quali la sua rifles­sione ha rag­giunto risul­tati deci­sivi: il con­cetto di inter­te­stua­lità, ovvero il dia­logo tra i testi, e l’analisi della let­tura come «ese­cu­zione» e atto inter­pre­ta­tivo. In entrambi i casi emerge una con­ce­zione plu­ra­li­stica della let­te­ra­tura che appare, soprat­tutto oggi, come la più effi­cace con­ferma della sua cen­tra­lità nelle società a venire. L’opera «diventa così il cen­tro di (…) un sistema dia­lo­gico, dina­mico e aperto, di voci che riman­dano ad altre voci». Chi abbia pro­vato l’esperienza entu­sia­smante di assi­stere alle lezioni di Ezio Rai­mondi, o anche sol­tanto a una sua con­fe­renza, sa bene come que­sta defi­ni­zione non rima­nesse for­mula astratta ma si incar­nasse in un’intensa, dram­ma­tica chia­mata in appello di ognuno dei suoi ascol­ta­tori. Per­ché la let­te­ra­tura – come scrive in Un’etica del let­tore (2007)– non lascia mai le cose come stanno, ma vuole «tra­sfor­mare la memo­ria in espe­ri­mento, in costru­zione dell’uomo». Se, come ha inse­gnato Rai­mondi, le parole hanno un volto e ci ven­gono incon­tro per inter­pel­larci, sta a noi la respon­sa­bi­lità della scelta. La posta in gioco è la nostra stessa vita, per­ché – come scrisse Mar­tin Buber — «ogni vita vera è incontro».

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