sabato 30 novembre 2013

L’arte della guerriglia: intervista a Gastone Breccia


di Anna Luisa Santinelliarte_guerriglia
La guerriglia può essere definita nella sua essenza come l’asimmetrica lotta del debole contro il forte, una descrizione concisa e immediata utile a comprendere questo tipo di conflitto dai contorni sfuggenti. Il glossario della guerriglia si compone, tuttavia, di molti attributi necessari a circoscrivere quest’arte bellica che si presenta, a ogni latitudine ed epoca, come indiretta, ingannevole, dinamica, obliqua, subdola, elusiva, flessibile, rapida, invisibile, ibrida… La guerriglia è perciò un fenomeno che non si esaurisce nella semplice dialettica “debole vs forte”.
Ci aiuta ad analizzare la complessità del combattimento non ortodosso Gastone Breccia, con il recente saggio L’arte della guerriglia (il Mulino, Bologna 2013, pp. 293, € 25.00).
Nel libro Breccia ricostruisce la storia, la tattica, la difficile collocazione giuridica dello scontro irregolare, a partire dalla denominazione spagnola guerrilla (piccola guerra) nata nei primi anni dell’Ottocento, per indicare la resistenza iberica agli eserciti napoleonici: un appellativo recente per designare uno stile combattentistico, quello della dissimmetria bellica, antico quanto il mondo; un diminutivo in apparenza lezioso che identifica una pratica feroce e cruenta. Nel saggio l’autore illustra le differenze sostanziali tra le svariate tipologie di guerriglia (tellurica, di popolo, di frontiera, petite guerre), delinea il pensiero strategico che alimenta le contese a-lineari, interpreta  testi di teoria militare ed esamina le specificità della controguerriglia (COIN, acronimo per counter insurgency), ossia la speculare azione di contenimento/sradicamento del conflitto asimmetrico.
Nella seconda parte del libro lo storico traccia, grazie a un articolato excursus(1979-2012), “Le linee essenziali della tragedia afgana”, vera summa enciclopedica della prassi bellica irregolare «completa di tutti gli elementi fondamentali che caratterizzano questo tipo di conflitti…». Breccia ripercorre così la storia di una guerra alternativa allo scontro frontale, che da sempre predilige l’uso dell’astuzia anziché della forza, consolidando l’asserzione di T.E.Lawrence che definì la guerriglia «più intellettuale di un assalto alla baionetta».
1) Scorrendo la bibliografia in calce al saggio, si ha l’impressione che la manualistica italiana sull’argomento sia più esigua rispetto alla produzione straniera, in particolare di matrice anglosassone. Quali sono i motivi di un interesse così misurato per un tema tanto attuale? È una riflessione erronea la mia o, invece, si sente di condividerla?
L’impressione è senza dubbio corretta. Il motivo è duplice: prima di tutto in Italia la storia militare non ha mai avuto un rilievo paragonabile a quello riservatole nei paesi anglosassoni (con alcune notevoli eccezioni, come il maestro Raimondo Luraghi, da poco scomparso, o più di recente autori del calibro scientifico di Alessandro Barbero o Nicola Labanca, per citare i primi nomi che mi vengono in mente); in secondo luogo, il tema della guerriglia è ideologicamente molto delicato. Per restare al XX secolo, l’eroismo di chi scelse di opporsi alla dittatura fascista e all’occupazione nazista – la «nostra» guerriglia – è stato quasi sempre collocato «al di sopra» di una vera analisi storico-militare «tecnica»; per il resto, abbiamo preferito dimenticare che tutte le altre esperienze italiane in questo ambito si sono situate sul versante della controguerriglia, dalla Libia negli anni ’20 e ’30 all’Africa Orientale alla Jugoslavia nel 1941-43. Al contrario, gli inglesi si sono trovati a combattere la guerriglia almeno dalla metà del ‘700, hanno sviluppato teorie e tecniche adeguate, e hanno quindi sempre mantenuto viva la discussione sul tema.
2) In teoria potremmo ascrivere la figura del terrorista nell’ambito della criminologia e quella del guerrigliero all’arte della guerra. Nella realtà le cose sono più complesse, poiché la condizione giuridica del soldato non convenzionale è sempre stata difficile da definire con chiarezza. Rispetto al passato, l’odierna legittimazione del combattente irregolare è ancora così problematica?
A mio modo di vedere, nemmeno in teoria «terrorista» e «guerrigliero» possono essere rigidamente distinti. Il terrorismo (ovvero: prendere di mira obiettivi civili al fine di seminare insicurezza tra la popolazione, il cui sostegno è il principale scopo di qualsiasi campagna irregolare) è una delle armi a disposizione della guerriglia; gli insorti possono scegliere se e quando farvi ricorso, ma è discutibile se questo muti la qualità della loro lotta, e quindi la loro legittimità. I «sicari» ebrei che combattevano i romani compivano attentati terroristici, così come i patrioti algerini del FLN negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso; e non credo che gli irregolari potranno mai rinunciare all’arma del terrore, che fa parte (come scrivo nel mio saggio) dei caratteri tattici fondamentali della guerriglia.
Anche oggi, la distinzione tra «terrorista» e «guerrigliero» resta problematica: l’asimmetria oggettiva (in fatto di tecnologia e potenza di fuoco) tra le parti in causa non consente di trovare un terreno comune neanche per ciò che riguarda il riconoscimento reciproco, e la liceità (o meno) dei mezzi di lotta. In un conflitto in cui solo A possiede cacciabombardieri, artiglieria e carri armati, non si può pretendere che B non semini pentole a pressione imbottite di fertilizzanti sul ciglio delle strade; in un conflitto dove A provoca vittime civili con bombardamenti da alta quota, non si può pensare che B limiti le proprie azioni prendendo di mira i soli militari nemici in uniforme. Questa è la realtà della guerriglia.
3) Una sezione del libro è dedicata alla controinsurrezione e alla saggistica contemporanea riferita all’argomento. Alcune delle sue riflessioni mi sono parse critiche. Quali sono gli aspetti di questa letteratura specialistica che la convincono di meno?
afgha_guerrillaMi sembra che si utilizzino troppe etichette per uno stesso oggetto: sarebbe meglio applicare, anche in questo ambito, il rasoio di Ockham – entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem – non bisogna creare degli «enti» qualora non ve ne sia la reale necessità. Oggi leggiamo di «guerra di quarta generazione», «guerra asimmetrica», «guerra tra la popolazione», «guerra illimitata», «guerra a bassa intensità», fino alle OOTW, ovvero operations other than war, «operazioni diverse dalla guerra», sigla utilizzata volentieri dal Pentagono… Ma la guerriglia e la controguerriglia sono vecchie quasi come il mondo, e hanno sorprendentemente mantenuto caratteri costanti attraverso i millenni, come cerco di dimostrare nel mio saggio: piuttosto che creare nuovi modelli interpretativi, mi sembra più utile analizzare e comprendere questi caratteri di «lunga durata».
4) A pag. 187 del suo libro c’è un passaggio di particolare interesse: «La civiltà occidentale, con un inedito sforzo di rimozione, ha respinto la morte ai propri margini estremi, non solo nella vita civile e in tempo di pace, ma anche per i militari in caso di conflitto…». La situazione che lei descrive sembra paradossale (la guerra è intrinsecamente connessa alla dimensione della morte) eppure la sua interpretazione è realistica: penso, ad esempio, alla politica statunitense volta a limitare al massimo la perdita dei propri soldati inviati a presidiare i territori ostili. Che cosa comporta tale rimozione a livello di scelte strategiche, specie a fronte di un avversario disposto al martirio?
Sì, credo che questo sia davvero un punto cruciale. L’ossessione per le operazioni a zero casualties («perdite zero») è estremamente dannosa per almeno tre motivi: primo perché induce i comandi superiori a programmare interventi dal costo economico esorbitante (appoggio aereo continuo, armamenti pesanti, ecc.), che finiscono così per togliere risorse ad altre attività di ricostruzione e a rendere insostenibile, nel lungo periodo, l’intera campagna; secondo, perché induce i comandi sul campo a richiedere con troppa frequenza l’appoggio aereo o il fuoco indiretto dell’artiglieria, e quindi molto spesso a provocare perdite tra la popolazione civile, cosa che – a prescindere da ogni ovvia considerazione etica – rende peggio che inefficace l’azione delle truppe regolari; terzo, perché l’ossessione per la sicurezza conferisce un immediato vantaggio al nemico, che vede nella propria disponibilità ad accettare l’idea della morte il segno di una superiorità morale… In Afghanistan questo è terribilmente chiaro: buona parte dei maschi adulti – che appartengono a popolazioni guerriere, abituate da sempre a uccidere e morire per una minima offesa, con buona pace delle anime belle – guardano con disprezzo i militari occidentali supercorazzati e superprotetti, che pattugliano i loro villaggi solo a bordo dei blindati. «Se non sapete morire, non potete vincere…»
5) Di recente lei ha avuto modo di visitare il teatro di guerra afgano per motivi di studio. Qual è la situazione attuale nel territorio? Può spiegarci, in sintesi, di quali vantaggi gode l’insorgenza antioccidentale in questa precisa fase del conflitto?
Sapere che le forze armate «regolari» stanno per abbandonare il paese: questo è un vantaggio che chi conduce una campagna di controguerriglia non dovrebbe mai dare al nemico. Gli insorti sono così consapevoli del fatto che devono soltanto aspettare e sopravvivere abbastanza a lungo (ormai non molto a lungo, per la verità) prima di trovarsi ad affrontare solo le truppe governative, in molti casi del tutto inadeguate (checché se ne dica sui media occidentali) al compito che si prospetta. Un secondo vantaggio, altrettanto importante, viene dalla palese inefficienza e dalla corruzione diffusa tra i funzionari del governo «legittimo» di Kabul: gli insorti hanno buon gioco a screditare quello che è stato fatto in suo nome – in molti casi da gente preparata e onesta, occidentali e afghani, con grande dispendio di risorse e a rischio della propria incolumità – puntando il dito contro le carenze strutturali dell’amministrazione pubblica, il perdurare di privilegi inaccettabili, il nepotismo, l’impossibilità di ottenere giustizia contro i soprusi dei «signori della guerra» ancora al potere in molti distretti. Non bisogna mai dimenticare che i Talebani conquistarono il potere, alla metà degli anni ’90, perché furono in grado di garantire un certo ordine e rispetto della legalità, seppure nella durissima forma da loro scelta, dopo anni di guerra civile. La maggior parte della popolazione, in un paese come l’Afghanistan che dal 1979 non conosce davvero la pace, chiede solo di poter vivere senza temere quasi ogni giorno per la propria vita e quella dei propri famigliari: in dodici anni gli occidentali e il governo di Kabul non sono ancora riusciti a raggiungere questo obiettivo minimo, almeno non su tutto il territorio nazionale, ed è molto difficile che ci riescano nell’immediato futuro.

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