sabato 30 novembre 2013

Il diritto alla città e le opportunità perse del federalismo demaniale


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  • Il diritto alla città e le opportunità perse del federalismo demaniale Mentre il governo Letta prepara un nuovo piano straordinario di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, sembra sempre più naturale la proposta di riutilizzare gli spazi pubblici abbandonati al fine di dare risposta all’emergenza abitativa, allo smantellamento del welfare studentesco, al bisogno di luoghi di aggregazione e di promozione di nuove attività lavorative per le nuove generazioni. Tra i tanti spazi pubblici abbandonati, risaltano le aree militari, lasciate all’incuria e al degrado e molto spesso destinate ad essere dismesse. Di tutto questa si parlerà martedì 26 novembre, a Roma, in un incontro dedicato al futuro delle aree militari in dismissione organizzato dal Teatro Valle Occupato e dal Comitato cittadino per l’uso pubblico delle caserme. Il momento per discutere di tali questioni è particolarmente interessante, anche considerate le opportunità che, a riguardo, la disciplina del federalismo demaniale potrebbe offrire, se solo fosse applicata in maniera strumentale a quelle esigenze sociali cui si accennava all’inizio, provando altresì a completarla  introducendo elementi di partecipazione e di iniziativa dal basso nei processi decisionali.
    Il 30 novembre, infatti, si chiuderà la  finestra entro cui gli enti locali possono presentare domanda all’Agenzia del demanio per l’acquisizione a titolo gratuito di beni immobili dello Stato, abbandonati o sottoutilizzati come buona parte degli immobili del demanio militare o appartenenti al demanio storico - artistico. Si tratta dell’attuazione di quanto previsto dal decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85, le cui procedure sono state di recente semplificate in forza dell’art. 56 bis del D.L. 21 giugno 2013 n. 69, convertito in legge con modificazioni dalla Legge 9 agosto 2013 n. 98, ossia del federalismo demaniale, disciplina che consente il passaggio di beni dal demanio dello Stato a quello di Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni. Introdotto come decreto attuativo del federalismo fiscale, il provvedimento presenta delle luci e delle ombre, legate al concetto di valorizzazione del bene, dell’impatto del trasferimento sugli enti locali e del livello di partecipazione, in parte non praticata e in parte prevista solo in modo parziale, che invece la procedura potrebbe comprendere, considerato che la richiesta per ottenere il bene può essere motivata anche alla luce di finalità pubblico-sociali ad uso diretto o indiretto della collettività. 

    Il federalismo demaniale: luci e ombre

    L’idea che gli enti locali debbano avere un proprio patrimonio si trova nell’art. 119 della Costituzione. Sotto questa copertura normativa e in attuazione del quadro generale previsto con il federalismo fiscale, il legislatore ha avviato tale percorso di riforma partendo dal c.d. federalismo demaniale. Il decreto legislativo n. 85/2010 ha così previsto che lo Stato trasferisca a titolo gratuito determinati beni demaniali, fornendo agli enti locali una base patrimoniale teoricamente idonea a garantire un’autonomia di bilancio, con lo scopo di eliminare i trasferimenti erariali nei loro confronti. Il contesto economico di riferimento in cui il decreto è stato approvato nel 2010 vedeva una manovra finanziaria che tagliava a Regioni ed enti locali circa 15 miliardi nell’arco di tre anni: per questa ragione, alcuni hanno ritenuto, con buone ragioni, che percorrere la via del federalismo demaniale sia stata la solita  misura di emergenza e non una riforma strutturale volta quindi a fornire agli enti locali forme e strumenti per il risanamento del proprio debito pubblico.
    L’art. 2, co. 4 del decreto prevede che “l’ente territoriale, a seguito dell’attribuzione, dispone del bene nell’interesse della collettività rappresentata ed è tenuto a favorire la massima valorizzazione funzionale del bene attribuito, a vantaggio diretto o indiretto della collettività territoriale rappresentata. Ciascun ente assicura l’informazione della collettività circa il processo di valorizzazione anche tramite pubblicazione sul proprio sito internet istituzionale.
    I Comuni possono indire forme di consultazione popolare, anche in forma telematica, in base alle norme dei rispettivi Statuti”.  A ben guardare, tuttavia, il decreto limita l’interesse della collettività di riferimento a una mera dichiarazione di principio, facendo coincidere i processi di valorizzazione con l’alienazione dei beni da parte degli enti locali. In altre parole, ciò che sembra descrivere al meglio il concetto di cui si discute è il criterio di semplificazione che insieme ad altri individuati dal comma 5 dell’art. 2 (territorialità, sussidiarietà, adeguatezza, capacità finanziaria …) rappresentano i parametri da impiegare per l’attribuzione dei beni demaniali agli enti locali. L’attuazione del criterio della semplificazione consentirebbe quindi a questi ultimi  di avvalersi di processi i cui introiti sarebbero utili per porre rimedio a situazioni di disavanzo finanziario. I beni immobili trasferiti agli enti entrano a far parte del loro patrimonio disponibile con un processo di vera e propria sdemanializzazione che fa salvi soltanto i beni appartenenti al demanio marittimo, idrico ed aeroportuale (art. 4, co. 1). Il decreto poi, oltre a rinviare alle ordinarie forme di dismissione del patrimonio, ne contempla anche di più avanzate come il conferimento a fondi comuni di investimento immobiliare (art. 6 co. 1).
    A fronte di questo quadro, la disciplina del federalismo demaniale appare addirittura sorprendente, perché rimette agli enti locali, attraverso veri e propri processi di sdemanializzazione ex art. 829 c.c., beni fondamentali per la collettività nazionale in forza  della loro funzione ed essenzialità intrinseca, consentendone la dismissione. In altre parole, le disposizioni descritte consentono agli enti locali di trasferire proprietà pubblica a privati, con un’operazione  priva delle garanzie proprie dell’espropriazione di proprietà privata. 

    L’uso pubblico delle caserme 

    Il demanio militare consta di edifici di diversa natura (caserme, alloggi, depositi..), molti dei quali dotati di un significativo pregio artistico. Questi immobili sono stati realizzati a partire dalla seconda metà dell’800 e fino al secondo dopoguerra, quando poi le esigenze difensive nazionali sono mutate, anche in forza della specializzazione del personale militare, dell’abolizione della leva obbligatoria e dell’ingresso dell’Italia nell’Unione Europea. Per questi motivi, si tratta di un patrimonio abbandonato, di cui non si ha una stima precisa, considerata la segretezza che lo avvolge: nelle nostre città, ci sono dei beni inaccessibili e separati fisicamente dal tessuto urbano, che non sono in alcun modo utilizzati perché gli investimenti e le spese per la manutenzione e l’adeguamento  alla normativa vigente sarebbero troppo onerose per le povere casse dello Stato. Per questo, molte caserme sono comprese in quella lista di beni che possono essere trasferiti su richiesta dallo Stato agli enti locali.
    Attualmente, buona parte dei siti militari risultano abbandonati, oggetto di degrado, invasi dalla vegetazione e inaccessibili, considerate le recinzioni che circondano queste aree: l’abbandono non fa altro che aumentare i costi che il proprietario pubblico dovrà sobbarcarsi qualora intenda rimettere gli edifici in funzione;  per i comuni questi spazi invece rappresentano un’opportunità sotto due diversi punti di vista. In primo luogo, potrebbero costituire uno dei nuclei da cui ridisegnare la città, il cui sviluppo è stato improntato all’uso economicamente più produttivo spesso non coincidente con quanto socialmente desiderabile. La qualità ambientale e la sostenibilità dovrebbero quindi guidare gli interventi urbani del futuro, conservando l’identità urbana. In questo senso, legare la riqualificazione delle caserme alle esigenze dei cittadini consente di consegnare alla città un bene che non sia estraniato dal suo contesto sociale, evitando di dar vita ad uno dei tanti “non luoghi” che caratterizzano le metropoli moderne. 
    In secondo luogo, e in stretta connessione con questo primo punto, le nostre città vivono una mancanza di spazi particolarmente preoccupante che non consente di attuare quel diritto all’abitazione riconosciuto nella nostra Costituzione e di garantire luoghi in cui praticare l’aggregazione di quelle formazioni sociali che sono indispensabili per la crescita dell’individuo all’interno della società. Il fermento dei movimenti che negli ultimi anni stanno lottando per il diritto alla città, riappropriandosi di spazi privati e pubblici abbandonati, dimostra come la questione meriti una particolare attenzione e  come in ogni città italiana esistano comunità di individui disposti a rischiare sulla propria pelle pur di liberare uno spazio per la cittadinanza, perseguendo uno scopo non egoistico  ma collettivo. Il linguaggio dei beni comuni traduce questa mobilitazione permanente, che reputa inaccettabile l’abbandono di spazi privati, finalizzato  all’accumulo parassitario di rendita fondiaria, e l’incuria del pubblico nei confronti del proprio patrimonio, dai teatri alle caserme.  Queste potrebbero essere adibite a dormitori ed alloggi per i senza tetto e per quelle famiglie per le quali la crisi ha voluto dire perdita del posto di lavoro e sfratto dalla propria abitazione, a spazi di coworking, a luoghi in cui si praticano attività sociali e culturali in grado di impattare positivamente sui quartieri. Per fare questo, però, serve conoscere la realtà urbana e la domanda sociale che i suoi cittadini esprimono e proprio perciò non può farsi a meno della partecipazione della cittadinanza, in maniera tale da attuare una riconversione di questi spazi non soltanto ecologica ma anche funzionale alle reali esigenze del territorio.

    Per una procedura partecipata 

    Il trasferimento di molte caserme dal demanio militare statale a quello degli enti locali rappresenta un’opportunità significativa per riaprire nuovi spazi in città. Dalle poche notizie che circolano su questo argomento, parrebbe che le amministrazioni di grandi città come Torino e Milano non abbiano ancora presentato alcuna manifestazione di interesse.  Del resto, finché la valorizzazione sarà concepita come operazione puramente economica, con l’incertezza della nuova messa a valore e i corrispondenti tagli di risorse, i rischi per le casse dei Comuni sono troppo alti, nonostante il trasferimento dei beni avvenga a titolo gratuito. Contemporaneamente, però, potrebbero essere utilizzate al meglio quelle procedure di consultazione che il decreto prevede, in maniera tale che gli enti locali possano ascoltare le richieste del territorio e partire da quelle per ottenere il trasferimento del bene. In assenza di tale procedura, la probabilità che i beni siano richiesti al solo scopo di poterli poi dismettere è davvero molto alta. Senza contare che l’assenza di partecipazione della cittadinanza è un’omissione molto grave da parte degli enti locali, i quali praticano troppo poco le forme di democrazia diretta. Allargando la prospettiva, inoltre, sarebbe opportuno incidere sulla stessa disciplina del federalismo demaniale, prevedendo che la manifestazione di interesse possa essere effettuata anche dalle circoscrizioni o dai municipi – che essendo le realtà più vicine al territorio  sono anche le più capaci di interpretarne le esigenze – e dalle stesse organizzazioni di cittadini a fronte di un progetto di riutilizzo degli spazi, combinando in maniera utile le forme della sussidiarietà orizzontale con quella verticale. Gli spunti che provengono dal basso possono realmente contribuire ad interpretare il cambiamento dello spazio urbano, concretizzando il sostegno istituzionale attraverso dinamiche di consultazione ascolto e partecipazione ai processi decisionali. Questo può essere il giusto processo per trovare soluzioni locali a problemi collettivi, valorizzando le energie e le risorse che ci sono sul territorio.  Per tali ragioni, gli spazi dismessi  da riutilizzare rappresentano un terreno fertile su cui confrontarsi, proprio perché essi possono servire a rispondere a bisogni primari e fungere da incubatore dei progetti sociali presenti  in città.  Bisogna rivendicare il diritto alla città, come capacità di incidere sulla produzione di spazi urbani e di  pratiche di buona politica: in fin dei conti, anche lo spazio urbano è un bene comune di cui dobbiamo riappropriarci.



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