sabato 30 novembre 2013

COP19. A Varsavia è high level

Seconda settimana di negoziati ed è la volta di ministri e Capi di Stato. In questi giorni, alla spicciolata, si alterneranno allo stadio di Varsavia i responsabili politici di un disastro annunciato: un percorso negoziale lento e inerziale, assaltato come una diligenza dagli interessi delle lobby che contano, e troppo sganciato da un mondo dove, come le Filippine e la Sardegna insegnano, il tempo sta finendo. Aggiornamento di Comune da Varsavia
di Alberto Zoratti
Varsavia – “Le chiediamo signor presidente di agire oggi, e non domani, nell’interesse dell’intero pianeta”. E’ il Nepal a parlare a nome di tutti i governi del gruppo LDCs (i Least Developed Countries, i Paesi più poveri) durante l’High Level Segment di questa 19a Conferenza delle Parti sul clima (COP19), invisibile ai più e soprattutto a una città che ha scelto di rinchiudere in uno stadio la Conferenza delle Nazioni unite che dovrebbe porre la prima per il Big deal, il grande accordo globale sul cambiamento climatico che dovrebbe essere varato nel 2015 a Parigi.
Siamo entrati nella settimana cruciale della COP19, quattro giorni ad alto livello per fare il punto dell’andamento dei negoziati, prima delle battute finali. Diversi sono gli argomenti sul piatto: a cominciare dai finanziamenti, promessi già dal 2009 senza che gli impegni presi a Copenhagen prima e a Cancun poi abbiano trovato una sostanziale risposta. Senza soldi non c’è nessuna economia low-carbon che tenga e la transizione diventa semplicemente un concetto da raffinati accademici. Per arrivare ad un meccanismo sul “loss and damage”, perchè come hanno dimostrato le Filippine e la Sardegna un clima impazzito fa vittime e danni economici incalcolabili.
Di cosa si stia parlando lo chiarisce bene Rachel Kyte, vicepresidente per il settore Sviluppo sostenibile della Banca mondiale: “durante gli ultimi trent’anni il mondo ha perso più di due milioni e mezzo di persone ed oltre quattromila miliardi di dollari a causa dei disastri naturali. Le perdite economiche sono cresciute, passando da 50 miliardi di dollari spesi ogni anno negli anni ottanta per arrivare ai 200 miliardi di dollari all’anno la scorsa decade. Almeno i tre quarti di questi disastri – ha concluso Kyte – sono il risultato di eventi meterologici estremi“. Come insegna la Sardegna di questi giorni, con i suoi diciotto morti e le oltre tremila persone sfollate.
Ma per riuscire a contrastare tutto questo è necessario aumentare le ambizioni, come ad ogni COP viene prontamente ricordato. Anche perchè un accordo globale, quello che dovrebbe traghettare il mondo dalle regole vincolanti del Protocollo di Kyoto all’approccio volontario nel taglio delle emissioni di gas presuppone una capacità previsionale e di leadership ben lontana da quella dimostrata fino ad oggi.
“Un risultato ambizioso qui a Varsavia – ha sottolineato il segretario esecutivo della Convenzione Onu sul clima Christiana Figueres – è precursore di un 2014 come un anno di collaborazione e di impegni senza precedenti”. La retorica delle Nazioni unite, come al solito, raggiunge il suo acme nella seconda settimana, con l’arrivo dei ministri e dei capi di Stato. Una retorica pro-clima che fa il paio con il discorso della stessa segretaria esecutiva all’apertura dell’evento della World Coal Association sul carbone, che ha sottolineato come la sua partecipazione non sigifichi “nè una tacita approvazione all’uso del carbone, nè una richiesta per una sua sparizione immediata”. Quello che si chiede è un cambio di rotta per l’industria del carbone, ma la tecnologia che alla fine si propone è quella del CCS, il Carbon Capture e Storage, che parla di reiniettare la CO2 emessa nei reservoir di gas ormai esauriti sottoterra. Una tecnica estremamente costosa, che non dà certezze sulla sua sicurezza (sono molti gli studi che parlano di un incremento della sismicità indotta). Il famoso“carbone pulito”, che nasconde sotto il tappeto la polvere che dovrebbe eliminare. Una tecnologia proposta, per ironia della sorte, proprio alle miniere del Sulcis in Sardegna. Ad un tessuto produttivo e sociale prima colpito dalla crisi economica, poi da una politica industriale ed energetica degna di un film di Fellini ed alla fine da un clima impazzito conseguenza di un modello economico senza futuro.

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