Atteone, giovane tebano di nobili origini era figlio di Aristeo e di Autonoe ed era stato allevato dal centauro Chirone. Da lui il ragazzo aveva imparato l’arte della caccia e se ne era talmente innamorato che passava praticamente tutto il suo tempo a scorrazzare sul monte Citerone cacciando cervi e cinghiali. Il saggio centauro era orgoglioso di quel giovane la cui precisione nello scoccare le frecce era così straordinaria da avere bisogno di una muta di cinquanta cani addestrati per recuperare l’abbondantissima selvaggina colpita. Atteone era affezionatissimo ai suoi fedeli aiutanti ed essi lo ricambiavano con affetto e fedeltà assoluti. Purtroppo però la passione per la caccia che praticava con tanta soddisfazione ed entusiasmo sarebbe stata anche la causa della rovina del giovane tebano.
Avvenne infatti che in una caldissima notte d’estate Atteone era impegnato nell’inseguimento di un cinghiale. Tuttavia, malgrado le tante frecce lanciate, l'animale era miracolosamente riuscito ad evitare di esserne colpito e si era dato alla fuga tra i boschi del monte Citerone. L’indomito ragazzo però non mollava la presa e quando già era convinto di avere raggiunto la sua preda, si trovò invece davanti alle acque calme di un laghetto. E sulle rive dello specchio d’acqua notò, inosservato, la presenza di alcune ragazze delle quali da lontano si udivano gli scherzi e le risate. Incuriosito Atteone si nascose nella boscaglia e rimase in osservazione dell’insolito spettacolo. Il ragazzo non poteva però sapere che il gruppo delle giovani donne era composto nientemeno che dalla dea Artemide e dalle ninfe al suo seguito che, accaldate dalla temperatura estiva, avevano trovato ristoro nei pressi del laghetto.
Dopo i giochi, gli scherzi e le risate, le ragazze decisero di rinfrescarsi e, abbandonati gli abiti sulla sponda del lago, s’immersero gioiose nelle sue fresche acque. Ad Atteone le giovani apparvero quindi in tutta la bellezza che la loro nudità rendeva esplicita e palese. Il suo sguardo si fece più attento, più smanioso di esplorare sia la loro giovane, irresistibile avvenenza che le proprie, forse fino ad allora sconosciute, emozioni. Probabilmente il turbamento fu così forte che il giovane dovette inavvertitamente tradire la sua pur occultata presenza. Artemide si accorse di essere osservata e improvvisamente ogni riso cessò e un silenzio cupo e minaccioso avvolse ogni cosa. La dea, che fra tutte le divinità dell’Olimpo era la più casta e pudica, uscì subito dall’acqua, raggiunse la sua veste leggera che indossò con rapida decisione e poi rivolse il suo sguardo verso Atteone ormai allo scoperto.
Gli occhi di Artemide lanciavano sguardi fiammeggianti di rabbia perché, contro la sua volontà, le sue più segrete nudità erano state inaspettatamente svelate ad un semplice mortale. Improvvisamente la potenza di quello sguardo ormai trasfigurato dalla collera e dalla vergogna, si concretizzò in un atto divino. Non poteva permettere che quel giovane impertinente raccontasse ad alcuno ciò che aveva abusivamente osservato, perciò la gemella di Apollo raccolse, con la sua mano, dell’acqua dal lago e la scagliò sul viso del povero Atteone. Tutto si compì in un attimo e prima di rendersi conto di cosa stesse accadendo, il ragazzo si trovò trasformato in un giovane cervo. Ma l’offesa alla dea non aveva ancora trovato piena soddisfazione e così Artemide richiamò i cani della muta di Atteone e li aizzò contro di lui, cioè contro l’animale che ormai era diventato. Inutile fu il tentativo di fuga che il cervo terrorizzato tentò di compiere per salvarsi la vita.
Presto i cinquanta cani, latranti e rabbiosi, lo circondarono e, senza riconoscerlo, si avventarono su di lui con inarrestabile energia. Gli aguzzi denti della muta dilaniarono e sbranarono le carni del povero cervo che fino a pochi attimi prima era stato il loro amico più grande. In questo terribile modo si concluse la vita sfortunata di Atteone. A quel punto la furia violenta dei cani si placò e la dea, finalmente soddisfatta, tornò sull’Olimpo seguita dalle sue ninfe. Ma i cani attendevano l’arrivo del loro padrone e quando dopo un po’ si accorsero che Atteone non tornava, lo cercarono invano per tutta la foresta innalzando al cielo lamentosi e struggenti ululati. Nel loro vagare raggiunsero la grotta del centauro Chirone il quale, impietosito dal loro disperato dolore, per consolarli modellò per loro un immagine di Atteone. E intorno a essa i cani si disposero in cerchio a protezione e tutela di quel simulacro del loro padrone ormai perso per sempre.
Fonti:
- “I Miti degli Dei e degli Eroi” di Fernanado Palazzi;
- “Mitologia” Le Garzantine di Garzanti.
Mitologia greca
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