mercoledì 16 agosto 2023

Hans Modrow e il socialismo della DDR

 

“Da stasera la frontiera è aperta”. 9 novembre 1989. Con queste parole Gunter Schabowsky, leader del partito comunista berlinese, annunciò lo smantellamento del Muro di Berlino, il principale simbolo della Guerra Fredda.
Hans Modrow è stato l’ultimo presidente del Consiglio della DDR prima delle elezioni del marzo 1990.
Come esponente dei riformatori, Modrow fu inizialmente favorevole al rinnovamento impresso da Gorbačëv all’URSS, salvo poi divenire sempre più critico nei confronti del pressapochismo, dell’improvvisazione e, in ultima analisi, dell’incapacità politico-strategica che caratterizzarono alcuni passaggi cruciali di questo processo.
Una ricostruzione molto lontana dalla lettura
mainstream, che Modrow ha raccolto nel suo libro La perestrojka e la fine della DDR. Come sono andate veramente le cose (Mimesis Edizioni, 2019). Su Scenari ne proponiamo un brano.

Il socialismo nei colori della DDR1 fu una realtà contraddittoria e un processo sociale incoerente, determinato da diversi fattori: tentativi contingenti di trasformazione e rinnovamento, stagnazione e repressione, influenze esterne e interne. Fu un socialismo nato dalla Guerra fredda ma anche un tentativo di alternativa sociale al modello capitalista. Questa sua condizione lo accompagnò fino alla fine. Le sue interazioni con la Repubblica federale capitalista furono, nel bene e nel male, ancora più decisive di quelle con i vicini orientali.

Walter Ulbricht riconobbe più chiaramente di ogni altro politico della DDR questa realtà dialettica e cercò di affrontarla in modo costruttivo. Attraverso varie misure volle accelerarne lo sviluppo e negli anni Sessanta avviò una serie di riforme economiche volte a non perdere i contatti con l’economia mondiale e a evitare l’isolamento. Ulbricht non fu solo un esponente dell’era post-stalinista, ma alla fine ne rimase anche vittima. Con l’appoggio di Mosca, fu destituito da una maggioranza del Politburo vicina a Honecker. La richiesta di dimissioni forzate non era rivolta solo contro la persona, ma anche contro lo sforzo di adattare la scienza e la tecnica al contesto di un’economia moderna, al fine di renderla più efficiente. È però un fatto storico che a Mosca, la dirigenza del Partito avesse preso in considerazione anche delle alternative a Honecker. Ulbricht era un partner scomodo ma rispetto al suo successore veniva considerato comunque più intelligente, più prevedibile e anche più aperto al futuro. A ogni modo, Brežnev dovette piegarsi alla necessità oggettiva di un ringiovanimento del gruppo dirigente e all’epoca tale rinnovamento era rappresentato dal gruppo di Honecker. In seguito, comunicò però attraverso Bowin, l’autore dei suoi discorsi, il desiderio che il compagno Ulbricht venisse trattato dignitosamente e con il dovuto rispetto. E quando Brežnev venne a Berlino in occasione dell’VIII Congresso del partito, insistette per fare visita a Ulbricht.

Il cambio ai vertici del Partito del 1970/71, almeno all’inizio, apparve quindi come un progresso. Sia nelle questioni di politica estera sia in quelle di politica interna, all’inizio la nuova dirigenza si mostrò flessibile. La DDR ottenne il suo riconoscimento internazionale, l’economia faceva progressi e il tenore di vita cresceva rapidamente. La parola d’ordine era “unità nella politica economica e sociale”.
Negli anni Cinquanta si diceva: “Lavorando oggi, vivremo domani” e adesso i lavoratori stavano finalmente godendo dei frutti del lavoro.
Questo, si pensava, li avrebbe coinvolti di più nell’impegno per il socialismo. La produttività del lavoro e i volumi della produzione aumentarono rispetto al passato e questo fece sì che dalla fonte della ricchezza sociale sgorgasse il benessere.

A parte il fatto che si trattava chiaramente di un calcolo semplicistico e illusorio, poiché non teneva conto degli sviluppi dell’economia globale (come l’aumento dei prezzi delle materie prime o dei beni che era necessario importare, le innovazioni tecnologiche e le scoperte), fu soprattutto un errore credere che la prosperità si sarebbe tradotta in maniera direttamente proporzionale in coscienza socialista. L’idea era semplice: più aumenta il benessere dei cittadini della DDR e più questi diventeranno socialisti. A ogni modo, il meccanismo fu messo in moto e qualsiasi correzione – questo credeva Honecker – avrebbe significato ammettere di aver perseguito una politica sbagliata. Così, il tenore di vita venne sistematicamente aumentato, benché i tassi di crescita economici rimanessero indietro. La prosperità fu alimentata anche da fonti esterne e in questo modo il futuro fu messo a rischio: si consumava più di quanto si accumulava.
Con Ulbricht, l’attenzione era tutta concentrata sull’accumulazione, con Honecker, invece, sui consumi. Questo ridusse i margini di manovra economici e anche quelli politici. Dopo una fase iniziale di liberalizzazione nella prima metà degli anni Settanta, Honecker, con l’aiuto del suo “esperto economista” Günter Mittag e di Joachim Herrmann, responsabile della comunicazione, diede infine una stretta decisiva. Furono così rafforzati centralismo e culto della personalità.

Questi processi furono strettamente legati agli sviluppi in corso in Unione Sovietica. Il governo della DDR era in un certo senso il figlio adottivo della grande potenza orientale e tutti i tentativi della DDR (e degli altri paesi del blocco orientale) di sottrarsi alla sua tutela ebbero conseguenze fatali per chiunque volle intraprendere questa strada, a volte anche in senso letterale. Per esempio, il tentativo di creare un socialismo dal volto umano portato avanti dalla Primavera di Praga fu duramente represso. Il fondamento politico di quell’intervento esterno prese il nome di dottrina Brežnev.
Fu grazie all’impegno personale di Ulbricht che l’esercito popolare della DDR non venne direttamente coinvolto in quell’azione decisa dal Patto di Varsavia. Andando contro un’esplicita richiesta di Mosca, fece sì che nessun soldato tedesco entrasse in territorio ceco, cosa che avrebbe costituito la continuazione di una triste tradizione. Fu un gesto che probabilmente contribuì alla sua destituzione.

La stagnazione in Unione Sovietica, guidata da un Segretario generale in precarie condizioni di salute, gettò la sua ombra sulla DDR per tutti gli anni Settanta e Ottanta. L’assistenza economica che fu richiesta ai sovietici non venne concessa nella misura auspicata, in quanto anche l’Unione Sovietica stava attraversando una profonda crisi economica e politica.
Nel 1982, dopo la morte di Brežnev, Jurij Andropov divenne Segretario generale. Andropov volle introdurre profondi cambiamenti all’interno del sistema del socialismo reale. La SED2 reagì con reticenza e nemmeno i suoi esperti in scienze sociali risposero all’appello di Mosca di avviare un dibattito aperto. Non so dire se ciò sia stato dovuto più alla loro arroganza o più alle pressioni esercitate dai dirigenti del Partito. In ogni caso, fu sprecata un’opportunità storica. Allo stesso tempo, questo rese evidenti i limiti oggettivi di un sistema centralizzato. È vero che questo sistema permetteva in definitiva di far passare qualsiasi cosa, e che questo poteva anche andare a vantaggio dell’intera popolazione se si trattava di proposte ragionevoli e socialiste, ma se il capo dello stato era un despota o era malato, tutto il paese ne avrebbe sofferto. Andropov era già molto malato quando prese il posto di Brežnev. Anche lui non raggiunse i vertici del Partito attraverso un processo democratico, ma grazie al calcolo politico di determinati gruppi di potere all’interno della dirigenza sovietica, che a loro volta potevano contare sull’appoggio di poteri forti nella società.
Brežnev fu portato al potere soprattutto dal complesso industriale militare e dall’apparato di partito e ne rappresentò gli interessi fino alla fine del suo mandato. Andropov non fu eletto perché voleva riformare il Partito o la società, ma perché non rappresentava un elemento polarizzante e non costituiva un pericolo per nessuno all’interno del Politburo. Inoltre, a causa delle sue cattive condizioni di salute, si presumeva che il suo mandato sarebbe stato breve. Di conseguenza, dopo un anno prese il suo posto Konstantin Černenko, anch’egli già molto malato. In questo modo la nomenklatura poteva stare tranquilla che anche con questo Segretario generale nessuno avrebbe intaccato i suoi privilegi.

Andropov era probabilmente consapevole della portata della crisi sociale che stavano attraversando sia il paese sia il sistema socialista nel suo complesso. Tuttavia, la dirigenza era dominata dal terrore verso le riforme. Così, la paura che Andropov potesse adottare una linea completamente diversa gli costò il sostegno della dirigenza del Partito. Se poi il suo successore non fosse andato bene, si sarebbe potuto di nuovo destituirlo, seguendo una pratica che nella storia sovietica aveva avuto già diversi precedenti. I membri del Politburo, di cui dal 1980 faceva parte anche Gorbačëv, avevano evidentemente più a cuore la propria posizione che non il destino del socialismo. A ben guardare, la presunta collettività rappresentata dalla dirigenza altro non era che la somma di una serie di codardie individuali.

La mia impressione, e non sono l’unico a pensarla in questo modo, è che al nostro modello socialista mancassero degli strumenti efficaci per garantire il continuo rinnovamento a tutti i livelli del Partito. Questa mancanza fu una delle cause del nostro fallimento.
Allo stesso tempo, bisogna dire però che la disposizione al ruolo del pretendente non era certo una prerogativa esclusiva dei partiti comunisti. Anche ai partiti borghesi piaceva avere le spalle coperte. Per esempio anche Helmut Kohl governò il suo partito per oltre un ventennio superando in questo persino lo stesso Honecker. E il modo in cui incoronò il proprio delfino (“Vedrei bene Wolfgang Schäuble come mio successore”) rivelò una chiara predisposizione monarchica. Al di là di questa critica assolutamente necessaria, la mia intenzione ora è prima di tutto di confrontarmi con le nostre mancanze. Questo implica una riflessione sul ruolo delle grandi personalità all’interno della storia.

Plechanov condusse una riflessione su questo tema e la sua interpretazione era tenuta in alta considerazione da Lenin. Per chi non avesse famigliarità con la filosofia di Plechanov, va detto che lui non si riteneva un marxista, anche se bisogna riconoscere che nei primi partiti comunisti e nelle prime organizzazioni dei lavoratori erano notoriamente pochi coloro che si definivano marxisti. C’erano due punti di vista. Il primo riteneva di scarsa importanza il fattore soggettivo: non sono gli uomini a fare la storia, bensì le classi. Il secondo enfatizzava invece il ruolo dei singoli e culminava nel culto della personalità (pur mantenendo la tesi del ruolo storico delle masse). Senza dubbio, nelle società relativamente arretrate dal punto di vista economico e culturale era più facile che i capi venissero idolatrati, anche ricorrendo alle tradizioni nazionali. Nella Russia zarista, durante le processioni religiose, si portavano per le strade le effigi con le immagini dei santi. Dopo la rivoluzione queste furono sostituite dai ritratti di politici. Nel movimento dei lavoratori tedesco una cosa simile era del tutto impensabile e infatti non se ne trova traccia nelle immagini storiche precedenti al 1920. Questa pratica è iniziata in Germania solo dopo la “bolscevizzazione” del Partito comunista tedesco (KPD), che era la sezione tedesca della Terza Internazionale, a sua volta controllata da Mosca. I ritratti dei capi, vivi o morti, iniziarono a essere appesi alle pareti, allo stesso modo delle icone religiose. I capi incarnavano tutte le speranze, i desideri e i pensieri dei membri del partito. In questo svolgeva un ruolo anche la propaganda. Il Presidente o il Segretario generale concentravano su di sé tutta la saggezza collettiva del partito. Ogni frase e ogni pensiero non erano semplicemente veri e giusti, ma rappresentavano l’apice del pensiero umano. Le parole del capo venivano citate, imparate a memoria, scritte sugli striscioni e incise nella pietra. Il ruolo nobilitava automaticamente la persona che lo assumeva. Chi veniva posto alla testa del Partito era esaltato ed elevato al livello dell’infallibilità. E siccome la sua “elezione” difficilmente poteva definirsi democratica, la sua eventuale rimozione era altrettanto poco democratica. O moriva nell’adempimento delle sue funzioni o veniva rovesciato. Il “centralismo democratico” garantiva il dominio del singolo sull’intero Partito.
I segretari generali sovietici, nonostante tutte le loro particolarità caratteriali e i vari gradi di arbitrio soggettivo, dovevano svolgere compiti per loro natura oggettivi e assumere decisioni nell’interesse dello sviluppo dell’intera società. Con Stalin, che assunse la direzione del Partito contro la volontà di Lenin, un paese agricolo arretrato fu repentinamente trasformato in una potenza mondiale. Il prezzo che i popoli dell’Unione Sovietica dovettero pagare per questo fu inimmaginabile e anche considerando tutte le condizioni particolari non può essere in alcun caso giustificato.

Dopo un breve interregno, il PCUS3 mise allora Chruščëv alla testa del Partito. A lui fu affidato il compito di fare i conti con i crimini e gli eccessi di Stalin, ma senza mettere in discussione le radici politiche del problema. Il fatto che Chruščëv ebbe il coraggio di parlare delle atrocità commesse in nome di Stalin e del socialismo, gli assicurò il suo posto nella storia. (Soltanto i dogmatici più incorreggibili pensano ancora che il declino del socialismo sia iniziato con Chruščëv.) Tuttavia, Chruščëv non riuscì ad avviare grandi cambiamenti nella società e nel Partito. La sua liquidazione del culto della personalità significò anche per me la caduta degli “dèi umani”, eppure non ebbe effetti duraturi sul potere dei segretari generali.
Benché Brežnev fosse giovane quando giunse al potere nel 1964, era tuttavia un uomo che apparteneva al vecchio sistema. Il suo nome rimane legato alla stagnazione e alla corsa agli armamenti che portò il mondo sulla soglia della catastrofe nucleare, ma anche al periodo della distensione internazionale. Senza dubbio la situazione di stallo nucleare raggiunta negli anni Sessanta portò una relativa stabilità a livello mondiale. La politica della distensione, che raggiunse l’apice con gli Accordi di Helsinki del 1975, si sviluppò sulla base di questo equilibrio del terrore. Entrambe le parti si aspettavano dei benefici: l’Unione Sovietica e suoi alleati accettarono il “terzo cesto” sulla questione dei diritti umani, nella speranza di un rafforzamento della loro politica di coesistenza pacifica, mentre da parte occidentale si contava invece su un indebolimento a lungo termine del socialismo reale, un calcolo che si rivelò infine corretto.

Nei decenni dell’era Brežnev, l’insieme della società sovietica e del Partito subirono una fase di pesante ristagno, le strutture esistenti furono completamente sclerotizzate e l’industria bellica era l’unico settore dell’economia in cui si assistette a una certa innovazione e creatività. L’unica ricaduta sull’economia nazionale consistette nel suo asservimento agli interessi dell’industria degli armamenti.
Andropov aveva il compito storico di spezzare queste catene mortali, ma per motivi di salute non fu in grado di farlo. Černenko fu un segretario di transizione e quando nel 1985 fu il turno di Gorbačëv, questi dovette affrontare un compito di proporzioni titaniche. La trasformazione fondamentale del socialismo fu così messa all’ordine del giorno e ora sarebbe dovuta incominciare.
Nessuno si aspettava che alla fine il socialismo sarebbe stato abolito, anziché trasformato. Nemmeno Gorbačëv stesso, anche se oggi sostiene di averlo pianificato fin dall’inizio. Questa tesi è confutata anche dagli storici americani che hanno studiato tutte le fonti meglio di quanto non abbia fatto io. Gli eventi non seguirono il corso previsto da Gorbačëv. Secondo Philip Zelikow e Condoleezza Rice: “Il suo obiettivo principale fu la trasformazione interna. I cambiamenti nella politica estera furono intesi come un sostegno alla trasformazione, alla perestrojka”.
Ma quanto alla politica interna, Gorbačëv non aveva idea di dove stesse andando.
“Sapeva che lo status quo non poteva essere mantenuto, ed era tipico di Gorbačëv, in quanto abile stratega, saper sfruttare i compromessi e i cambiamenti di rotta per andare avanti, ma non era chiaro in quale direzione stesse andando.”
Il suo nuovo modo di pensare era una risposta a una crisi del sistema di natura strutturale e radicata nel carattere centralizzato, militarizzato e isolato dell’economia e della società com’erano state plasmate già ai tempi di Lenin.

 

La forma sovietica del socialismo era destinata a finire nel modo in cui finì o c’erano delle reali possibilità per un autentico rinnovamento? Questo tipo di socialismo, cui Stalin aveva dato forma, doveva per forza tramontare per rendere possibile la nascita di un socialismo democratico, o sarebbe stato possibile che si riformasse ricorrendo unicamente alle proprie forze? Un socialismo democratico, come progetto e come obiettivo, può essere sviluppato solo a partire dal capitalismo reale nella sua forma odierna? Era necessario innanzitutto tornare indietro per poter ripartire nel modo “giusto”?
Rispondere a queste domande non significa prendersela con la storia. La storia ha scelto il proprio corso. Tuttavia la storiografia ci insegna che non c’è mai un’unica strada possibile e che quella percorsa non è per forza sempre la migliore. Non è per una legge della storia che i segretari generali assumono il potere o che gli stati tramontano. È vero che esiste una logica interna, una certa coerenza e un implacabile rigore nei processi storici, tuttavia, tali processi non possono essere previsti con precisione o governati nei loro aspetti particolari, di conseguenza, non si può mai sapere in anticipo dove essi ci condurranno. La storia – contrariamente all’opinione di alcuni studiosi – non è finita con il crollo del socialismo reale. La storia è più che mai aperta al possibile.
Ed è proprio questo che, insieme alla conoscenza del passato, ci rende curiosi nei riguardi del futuro.

1Deutsche Demokratische Republik, Repubblica Democratica Tedesca. [N.d.R.]

2Sozialistische Einheitspartei Deutschlands, Partito di Unità Socialista di Germania. [N.d.R.]

3Partito Comunista dell’Unione Sovietica. [N.d.R.]

https://www.mimesis-scenari.it/2021/11/09/hans-modrow-e-il-socialismo-della-ddr/

Dalema71

Hans Modrow, La Perestrojka e la fine della DDR (Mimesis Edizioni, 2019)

 


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