10 Gennaio 2021
L’Afghanistan è il secondo peggior paese al mondo per essere donna. Soltanto lo Yemen dilaniato dalla guerra lo supera, secondo il Georgetown Institute for Women, Peace, and Security. Lo sanno bene milioni di afgane che ogni giorno si vedono negare i diritti umani più basilari e subiscono violenze atroci. Basti pensare che, in base ai dati dell’OMS, il 15% delle afgane viene data in sposa prima dei quindici anni, il 46% prima dei diciotto; ancora, il 90% delle afgane ha subito almeno un tipo di violenza domestica nella sua vita.
Sia chiaro, la vita è molto dura anche per la grande maggioranza degli uomini in un paese in guerra (ad alta o bassa intensità) da più di quarant’anni; una terra poverissima, dove il Pil pro capite – a parità di potere di acquisto – supera appena i 2mila dollari. Ma si sa, quando una situazione è dura per gli uomini, per le donne è anche peggiore. Nascere donna in Afghanistan significa quasi sempre vedersi negare la possibilità di studiare, lavorare, ricevere assistenza sanitaria. E naturalmente, la libertà e il diritto alla ricerca della felicità.
Lo sa bene Khalida Popal, 32enne di Kabul, che ha pagato un alto prezzo per aver rifiutato di sottostare alle consuetudini in forza delle quali una bambina deve smettere di giocare a calcio con i fratelli appena il suo corpo inizia a mostrare i segni della femminilità (o meglio, dell’età fertile). Superando infiniti ostacoli e difficoltà, Popal è riuscita a creare la prima squadra nazionale di calcio femminile dell’Afghanistan e a diventarne la capitana, a conquistare una posizione che le permettesse di denunciare pubblicamente la terribile condizione delle donne afgane, e a diventare un simbolo di lotta femminile così preoccupante, per l’establishment ma anche per la società, che sono cominciate ad arrivarle minacce di morte.
Nel 2012 Popal è dovuta fuggire dall’Afghanistan. Dopo un lungo viaggio è approdata in Danimarca, dove le è stato riconosciuto lo status di rifugiata. Una prova, la fuga da Kabul, lontano dalla famiglia, che l’ha fatta sprofondare nella depressione. Ma dalla quale è uscita, riuscendo a trarne la forza per creare un’ong di aiuto a donne rifugiate e immigrate oggi operativa in sette paesi.
Ed è sempre stata lei a portare alla luce gli abusi sessuali perpetrati dai massimi esponenti del calcio afgano sulle atlete della squadra femminile: uno scandalo rimbalzato sui media di tutto il mondo.
Gli Stati Generali l’hanno raggiunta via Skype nella sua casa di Helsingør, cittadina costiera nella Danimarca orientale, vicinissima alla fortezza di Kronborg in cui William Shakespeare ambientò l’Amleto. «Una cittadina che adoro – dice –. È molto accogliente, e c’è tutto quello di cui si possa aver bisogno».
Quando hai cominciato a giocare a calcio?
Da bambina. Il calcio è uno sport piuttosto popolare in Afghanistan, si gioca spesso per le strade, e infatti io giocavo insieme ai miei fratelli in strada [sorride]. Ma tutto è cambiato quando ho cominciato a crescere. Allora la comunità ha cominciato a fare pressioni, e non mi è stato più permesso di giocare con i miei fratelli. Così ho iniziato a fare campagna a scuola per incoraggiare più ragazze a giocare a calcio.
Tanto che alla fine sei riuscita addirittura a creare la prima squadra nazionale di calcio femminile dell’Afghanistan.
Sì, con le mie compagne abbiamo cominciato a lavorarci nel 2003 e ci abbiamo messo ben quattro anni perché la società continuava a cercare di schiacciarci.
È vero che in Afghanistan le donne che praticano sport vengono etichettate come prostitute?
Sì, purtroppo l’immensa maggioranza la vede così. E questo rende le cose difficilissime per le ragazze che vogliono giocare a calcio, e persino per le loro famiglie, che spesso pagano un prezzo molto alto per il fatto di consentire alle loro figlie di giocare.
Cosa vi ha spinte a persistere?
Lottavamo contro la cultura di discriminazione delle donne. Lottavamo per i nostri diritti e quelli di tutte le afgane, volevamo contribuire a cambiare la mentalità che vede le donne come delle serve da chiudere in cucina. È stata durissima, abbiamo pagato un prezzo molto alto. Abbiamo dovuto affrontare moltissimi problemi, correre enormi rischi, sopportare una grossa pressione. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta.
Ci sono voluti quattro anni per creare la nazionale.
Esatto, quattro anni di continue lotte. Con i vicini del quartiere, con la società, con la federazione nazionale, con la gente che ci derideva, ci insultava, ci tirava pietre e spazzatura. Ma quando ce l’abbiamo fatta, e siamo riuscite a indossare la divisa della nazionale e a cantare l’inno del nostro paese dopo tutte quelle lotte, è stato il momento più bello della nostra vita. È stato come vincere un mondiale!
In varie occasioni hai parlato di tua madre, e di come sia stata proprio lei a insegnarti il calcio e l’importanza dello sport.
Sì. Mia madre è sempre stata la mia allenatrice, la mia professoressa di educazione fisica, diciamo. Mi ha insegnato lei a capire l’importanza di fare sport e mi ha sempre incoraggiata. È sempre stata dalla mia parte, come tutti i miei famigliari. Sono estremamente fortunata ad avere una famiglia dalla mentalità aperta. La maggior parte dei genitori non permettono alle loro figlie di fare praticamente niente, men che meno giocare.
Oltre a te anche i tuoi famigliari sono stati minacciati?
Sì. Infatti, per via dei pericoli a cui si è trovata esposta a causa mia, anche la mia famiglia ha dovuto lasciare la sua casa, trasferirsi lontano. Il punto è che io non mi limitavo a giocare a calcio: io usavo il calcio come mezzo per far rispettare i miei diritti e quelli di tutte le donne, e quindi in un modo molto naturale mi sono ritrovata a essere un’attivista. Parlavo della terribile situazione delle donne in Afghanistan, di tutti i problemi che devono affrontare, e inoltre contestavo gli abusi di potere delle persone dell’industria calcistica afgana. E quando sono diventata direttrice del Comitato di calcio femminile e la prima donna membro del consiglio della Federazione afgana di calcio, i rischi sono aumentati. Ho cominciato a ricevere moltissime minacce di morte, tanto che sono dovuta scappare. E sai Valentina, sono stata molto fortunata a esserci riuscita.
Purtroppo l’Afghanistan non è un paese dove le istituzioni sono amiche delle donne.
Si pensa che in Afghanistan i nemici dei diritti delle donne siano i talebani. Ed è vero, i talebani sono il nemico di ogni essere umano. Ma poi c’è un altro gruppo, l’establishment degli uomini in giacca e cravatta. Certo, indossano abiti più moderni, possono sembrare diversi, ma in realtà anche loro sono nemici dei diritti delle donne.
Era il 2012 quando sei arrivata in Danimarca. Ti manca l’Afghanistan?
Certo che mi manca. Mi manca essere… a casa. È il mio paese e mi manca tutto dell’Afghanistan. Insomma, non le cose negative, ma tutti i ricordi della mia infanzia, la lingua, la cultura a cui appartengo. Allo stesso tempo però sono felice di non vivere in un paese in cui non posso essere me stessa perché sono una donna, quella parte non mi manca. Non mi mancano neanche le molestie per strada, gli abusi di potere, le violenze che si verificano ogni giorno in ogni angolo del mio paese, c’è davvero tanto male. Ed è perché siamo in guerra da così tanto tempo. La guerra ha tenuto la gente lontana dall’istruzione, dall’imparare, dall’aprire la mente. La maggior parte delle persone è assolutamente contraria al cambiamento perché ne ha paura. Però ripongo molte speranze nella nuova generazione, credo che porterà il cambiamento, che sarà essa stessa la fonte del nostro cambiamento.
Nonostante le minacce non hai avuto paura di denunciare gli abusi sessuali commessi da dei membri della Federazione afgana, compreso il presidente, Keramuddin Karim. La notizia è apparsa sui quotidiani di tutto il mondo.
Esatto. È successo due anni fa. Ho lasciato l’Afghanistan nel 2012, e nel 2016, quando vivevo già qui in Danimarca, la Federazione afgana mi ha contattata per chiedermi di occuparmi della squadra nazionale femminile. Era un’opportunità per fare qualcosa per le donne del mio paese, e poi la nazionale femminile era un po’ come un figlio per me [sorride], così ho accettato. Lavoravo dalla Danimarca, come direttrice di programma esterna. Nel 2018 abbiamo organizzato vari ritiri, dovevano essere una preparazione per le qualifiche ai mondiali. Avevamo quell’obiettivo in mente ed eravamo davvero entusiaste. Ma durante uno dei ritiri cominciarono a circolare voci sul fatto che vari delegati e rappresentanti della federazione afgana, e degli uomini che erano stati mandati dalla Federazione al nostro ritiro, avevano abusato di diverse giocatrici.
Delle giocatrici sono anche state cacciate dalla squadra quando hanno provato a protestare, giusto?
Sì, proprio dopo quel ritiro ben nove giocatrici furono sbattute fuori con l’accusa di essere lesbiche. In Afghanistan l’omosessualità è un reato. Puoi essere ucciso dalla tua stessa famiglia se scoprono che sei gay. Non riuscivo davvero a capire come il presidente della federazione afgana di calcio avesse potuto accusarle di una cosa che avrebbe messo la loro vita in grave pericolo. Così ho cominciato a indagare, e ho scoperto che il presidente della Federazione aveva una stanza segreta nel suo ufficio, dove portava le giocatrici della nazionale per abusare di loro e obbligarle ad avere rapporti con lui.
L’anno scorso Keramuddin è stato bandito da ogni attività calcistica, sia in Afghanistan che all’estero.
Sì, l’ho denunciato alla FIFA, al governo afgano, e abbiamo insistito finché è stato bandito. Però è ancora a piede libero. Il governo afgano ha svolto delle indagini, ma la polizia non ha la forza necessaria per arrestarlo, così lui vive tranquillo nel suo villaggio e nessuno può toccarlo.
Ora tu abiti a Helsingør, dove hai anche fondato un’Ong, Girl Power. Cosa ti ha spinto a intraprendere questa iniziativa?
Quando sono arrivata in Danimarca è stata molto dura per me. In una notte avevo dovuto lasciare il mio paese e la mia famiglia, senza un piano chiaro. Sono dovuta passare per vari paesi prima di arrivare qui, sempre sola, senza la mia famiglia. Il centro per rifugiati è stata la cosa più dura di tutte, ho sofferto di depressione… quando ti trovi in un centro per rifugiati sei circondato da persone che soffrono e subiscono un forte stress, proprio come te. Il tuo futuro è incerto, e così soffri. Per fortuna ho ricevuto assistenza e trattamenti, e ne sono uscita. Ho creato Girl Power proprio perché, quando ero al centro per rifugiati, ho trovato tantissime donne nella mia stessa situazione, depresse e sotto forte stress, e non c’era nessuna attività per loro! Tutto il giorno nella loro stanza, questo non fa bene alla salute mentale. Allora ho cominciato a introdurre il calcio nei centri per rifugiati, per cercare di aiutare le donne a uscire dalla depressione. L’idea dell’ong è nata così.
Qual è il tuo obiettivo?
Oggi Girl Power è attiva in vari paesi, anche al di fuori dell’Europa: Afghanistan, Pakistan, Giordania, Turchia… Vogliamo offrire possibilità di istruzione a ragazze e donne che hanno opportunità molto limitate, aiutarle a realizzare i loro sogni. Il progetto è iniziato nel 2014, dopodiché ho viaggiato per mezzo mondo per iniziare le attività anche in altri paesi. Ora stiamo organizzando una Leadership youth academy per il prossimo agosto qui a Copenaghen, rivolta a ragazze e donne rifugiate e immigrate, con attività teoriche e sportive.
Che consiglio daresti alle ragazze e alle donne che si trovano a dover cercare rifugio e migrare in altri paesi?
Al mondo ci sono talmente tante donne che soffrono. Sono convinta che la nostra situazione non potrà mai cambiare se continuiamo a restare in silenzio, e se quelle donne e quegli uomini che hanno la possibilità di far sentire la loro voce e indurre dei cambiamenti scelgono invece di non fare niente. Vorrei rivolgermi a queste persone e dire loro: non date tutto per scontato. Dobbiamo fare squadra ed essere la voce di chi non ce l’ha.
Probabilmente altri, trovandosi nella tua situazione, avrebbero rinunciato. E sarebbe comprensibile, soprattutto in un paese come l’Afghanistan, dove le donne subiscono abusi estremamente gravi. Tu invece hai perseverato. Cosa ti ha dato la forza di farlo?
Il mio scopo nella vita è battermi, non solo per me stessa ma per le mie sorelle in Afghanistan che hanno bisogno di aiuto e di sostegno. Ho sempre sentito che la mia lotta non riguardava solo me stessa, che era più grande, ed è stato questo che mi ha fatto continuare. Perché ogni volta che stavo per arrendermi, ho sentito una voce dentro di me che diceva: “c’è qualcuno che sta aspettando il tuo aiuto. Il tuo impegno può cambiare qualcosa”.
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