domenica 16 febbraio 2014

La sfida sovversiva di Stuart Hall


Benedetto Vecchi

Addii. Lettore attento di Antonio Gramsci, è stata una figura centrale nello sviluppo degli «studi culturali» come arma critica del potere costituito

↳ Una foto di Stuart Hall

Il primo sito che ha dato ampio risalto alla morte di Stuart Hall è stato quello del Guar­dian, qua­li­fi­can­dolo come «il nonno del mul­ti­cul­tu­ra­li­smo». Un tri­buto alla sua opera nelle inten­zioni, che can­cella però la cri­tica che l’intellettuale di ori­gine gia­mai­cana aveva rivolto pro­prio con­tro il mul­ti­cul­tu­ra­li­smo: lo con­si­de­rava un’attitudine all’integrazione raz­ziale sotto il segno della pre­do­mi­nanza del pen­siero «bianco», pre­fe­ren­do­gli invece la messa a tema della «riap­pro­pria­zione» che i «subal­terni» hanno fatto di quel pen­siero. Nel mondo post­co­lo­niale gli eredi euro­pei e sta­tu­ni­tensi del pen­siero illu­mi­ni­sta si tro­vano infatti a fare i conti con quella tor­sione radi­cale, altera e a tratti sov­ver­siva, impressa dai domi­nati all’ordine del discorso domi­nante. È a que­sta riap­pro­pria­zione che Stuart Hall ha dedi­cato gran parte della sua vita.
Stuart Hall è stato sem­pre un intel­let­tuale «sco­modo» nella sini­stra inglese. Nel 1956 aveva lasciato il pic­colo par­tito comu­ni­sta, sbat­tendo la porta dopo l’invasione sovie­tica dell’Ungheria. Ma a dif­fe­renza di altri fuo­riu­sciti, era rima­sto comu­ni­sta. È pro­prio alla fine degli anni Ses­santa che che entra in più stretti rap­porti con lo sto­rico Edward P. Thomp­son, lo sto­rico della cul­tura Ray­mond Wil­liams e il filo­sofo Perry Ander­son, altre figure ete­ro­dosse del mar­xi­smo bri­tan­nico. Con loro fonda la «New Left Review», la pre­sti­giosa rivi­sta nata con l’intento di «inno­vare» la prassi teorica-politica della sini­stra radi­cale inglese, aprendo le porte a filo­sofi come Lous Althus­ser, Jean-Paul Sar­tre e, gra­zie al pre­li­mi­nare lavoro di tra­du­zione di Perry Ander­son e Eric Hob­sbawm, Anto­nio Gramsci.

La cri­tica al liberismo

Hall è stato una figura rile­vante della «New Left Review»: ne è stato il diret­tore fino a quando, pole­mi­ca­mente, ne è uscito, accu­sando la rivi­sta di essersi tra­sfor­mata in una pic­cola e auto­re­fe­ren­ziale acca­de­mia del pen­siero cri­tico. Da allora, il suo lavoro poli­tico si è con­cen­trato sulla «que­stione raz­ziale», facendo diven­tare l’etnia e le iden­tità post­co­lo­niali nodi rile­vanti del pen­siero cri­tico. Nella sua vita, Stuart Hall ha scritto molto, ma ha pre­scelto la forma del sag­gio, quasi a segna­lare le tappe di un per­corso intel­let­tuale dotato di sicure coor­di­nate cul­tu­rali ma dispo­ni­bile a «deviare» dal trac­ciato defi­nito nel caso che la realtà scon­fessi i risul­tati acqui­siti. Un atteg­gia­mento che ha man­te­nuto anche nella sua ana­lisi di Mar­ga­ret That­cher e del liberismo.
La «Lady di ferro» è la bestia nera dei sin­da­cati e del Labour party, che non rie­scono però a con­tra­starla. È in quel periodo che Stuart Hall comin­cia a pub­bli­care scritti sulla «natura» del governo della Tat­cher. Per Hall, la That­cher non è un inci­dente di per­corso, che poteva essere «cor­retto» con il ritorno al governo del par­tito labu­ri­sta. Il libe­ri­smo è infatti visto dall’intellettuale inglese come un pro­getto di società dive­nuto ege­mone dal punto di vista cul­tu­rale. Un dise­gno di società che poteva certo essere inter­pre­tato cri­ti­ca­mente attra­verso la cate­go­ria della «rivo­lu­zione pas­siva» di Anto­nio Gram­sci, ma che costi­tuiva tut­ta­via un forte ele­mento di discon­ti­nuità rispetto al pas­sato. Il wel­fare era stato sì la cor­nice del com­pro­messo tra capi­tale e lavoro, ma il libe­ri­smo non voleva solo modi­fi­care quel rap­porto di forza, ma si pro­po­neva di imporre pro­prio una nuova vision dei rap­porti sociali dove il sin­golo diven­tava il ful­cro della vita asso­ciata. La frase di Mar­ga­ret That­cher sull’inesistenza della società a favore dell’«individuo sovrano» espri­meva fino in fondo il cuore nero di una welt­an­shauung che non pre­ve­deva una qual­che forma di con­ti­nuità con il pas­sato. La forza cul­tu­rale della «rivo­lu­zione libe­ri­sta» stava pro­prio, secondo Hall, non solo nell’autoritarismo popu­li­sta di Mar­ga­ret That­cher, bensì nell’egemonia cul­tu­rale, ideo­lo­gica che ormai eser­ci­tava sulla società.
Sono scritti rite­nuti spesso ere­tici dal resto della sini­stra inglese. In Ita­lia sono stati rac­colti molti anni dopo nei volumi Poli­ti­che del quo­ti­diano (Il Sag­gia­tore) e Il sog­getto e la dif­fe­renza (Mel­temi), men­tre ci sono forti echi anche nel libro-intervista di Miguel Mel­lino La cul­tura e il potere (Mel­temi). Ma sono testi che evi­den­ziano anche una svolta nella rifles­sione di Stuart Hall, la sua presa di distanza dal «mar­xi­smo cul­tu­rale» inglese, fino ad allora stella polare della sua prassi teo­rica. La sua ana­lisi del libe­ri­smo, respinta ini­zial­mente da gran parte della sini­stra inglese, farà invece scuola, tro­vando forti asso­nanze con le tema­ti­che fou­caul­tiane della bio­po­li­tica e con l’analisi di David Har­vey sul capi­ta­li­smo pre­da­to­rio di fine Nove­cento. Un mar­xi­sta fuori dal coro della vec­chia e nuova orto­dos­sia, come dimo­strano anche gli ultimi scritti sul ruolo ambi­va­lente delle tec­no­lo­gie digi­tali: mezzi per costruire il con­senso, ma anche poten­ziali stru­menti di cri­tica al potere.

La scuola di Birmingham

Nato a King­ston in Gia­maica nel 1932, Stuart Hall si era lau­reato con una tesi sulla let­te­ra­tura inglese per poi con­cen­trarsi sullo stu­dio di autori «carai­bici». E quando la sua car­riera uni­ver­si­ta­ria sem­brava essere defi­nita, si tra­sfe­ri­sce in Inghil­terra. Nel 1964 viene chia­mato da un decano della cri­tica lat­te­ra­ria, Richard Hog­gart, a lavo­rare al «Cen­tre for Con­tem­po­rary Cul­tu­ral Stu­dies» presso l’Università di Bir­mi­gham, cen­tro che diri­gerà per molti anni prima della docenza alla Open Uni­ver­sity. È in quel con­te­sto che Hall appro­fon­di­sce lo stu­dio dell’opera mar­xiana e di Anto­nio Gramsci.
Del filo­sofo comu­ni­sta ita­liano usa la cate­go­ria dell’egemonia, attra­verso la quale stu­dia il rap­porto tra cul­tura domi­nante e cul­tura popo­lare. Per Hall, l’egemonia del pen­siero domi­nante si eser­cita ovvia­mente attra­verso la for­ma­zione sco­la­stica, ma anche attra­verso le «fab­bri­che del con­senso», cioè i media emer­genti (la radio e la tele­vi­sione) e la carta stam­pata. È un’egemonia che non coin­cide con una colo­niz­za­zione della vita sociale. Per Hall, infatti, la cul­tura popo­lare è espres­sione sia dell’egemonia del pen­siero domi­nate, ma è anche il con­te­sto per una rap­pre­sen­ta­zione «pub­blica» delle forme di resi­stenza al potere domi­nante. Un’interpretazione, va da sé, anche que­sta ete­ro­dossa. D’altronde, Bir­min­gham è l’Università dove si forma una nuova leva di stu­diosi e intel­let­tuali che inda­gano il ruolo della musica popo­lare nello svi­luppo dei movi­menti sociali che con­te­stano l’ordine costi­tuito. L’attitudine mods della gio­vane wor­king class, la tra­sgres­sione dei roc­kers, lo spi­ri­tua­li­smo rasta, la musica ska fino all’esplosione punk sono da con­si­de­rare come la suc­ces­sione di una «rivolta dello stile» dove la cul­tura domi­nante viene «rein­ven­tata» dai subal­terni per espri­mere la loro alte­rità. Il merito di Stuart Hall è di aver sem­pre evi­den­ziato l’ambivalenza della cul­tura popo­lare: forme del domi­nio, ma anche pos­si­bili campi di sov­ver­sione dei rap­porti sociali dominanti.

http://ilmanifesto.it/la-sfida-sovversiva-di-stuart-hall/

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