giovedì 28 giugno 2012

Italia-Germania sfida infinita




Dov’eri la prima volta, la notte del 4-3? Qualcuno ancora non c’era. Tanti non ci sono più. Ma chi c’era, non può non ricordare. Stasera a Varsavia ci tocca ancora. C’è sempre una Germania per il nostro calcio. In semifinale o in finale, e anche prima. Ma c’è sempre una Germania anche nella nostra vita. La usiamo come tacca sul muro, per capire se siamo cresciuti. È la nostra prova di maturità, un calendario perpetuo, un confronto dolce e urticante, un cielo senza tempo.
Messico e nuvole, 17 giugno 1970: Rivera in bianco e nero. Quarantadue anni e non finisce mai. Quella partita è diventata un film, una commedia, un riferimento generazionale, una memoria collettiva, uno sfondo, un contenitore di altre storie, un modo di dire, il riassunto personale di un momento di tutti. E una domanda per milioni di persone: cosa facevo, dov’ero, cosa mi ricordo di Italia-Germania 4-3?
Prandelli, il mite condottiero di oggi, aveva 14 anni appena, nessuno dei giocatori di questa sera era neppure nato. Cosa può saperne allora Balotelli? Chi lo spiega a Cassano e a Buffon? Giocheranno per loro, e anche per noi. Certo. Ma non potranno mai capire fino in fondo. C’è una vita dietro, una storia che trasuda.
Ancora Mondiali. Madrid, 11 luglio 1982: umido e zanzare, la pipa di Bearzot che sembra rubata da un quadro di Magritte. Restano i flash: Pertini che allarga le braccia e, come i bambini che ti mostrano quanti anni hanno, fa segno tre: «Non ci prendono più, non ci prendono più....». C’è tanto, troppo da ricordare. Senza parole, solo voci. E Tardelli, tanto Tardelli. Il gol più lungo del pallone, l’urlo di Munch, i tedeschi in ginocchio. I nostri tornano a casa in aereo con il presidente. Partita di scopone in volo: Bearzot con Causio, Pertini con Zoff. E il presidente che si tiene in mano il settebello. Vincono gli altri, il presidente si arrabbia con Zoff: «Dovevi farmi i segni...».
Di segni Italia-Germania ne lascia tanti. Questione di cuore, anima, orgoglio. Una storia infinita. Siamo sempre lì: a portarci via il sogno e la gloria. Noi e loro. Germania sempre un po’ troppo crucca, per noi. Italia sempre un po’ troppo pasta, mamma e mafia, per loro. Qualcuno ha scritto che i tedeschi amano gli italiani, ma non li stimano. Gli italiani invece stimano i tedeschi, ma non li amano. Non ci siamo mai piaciuti, ma nemmeno troppo insultati: loro gonfi di una superiorità vera, ovunque. Ma mai sul prato. Noi obesi dai nostri desideri, incapaci di essere bravi come loro. Capaci solo di batterli, sempre.
Però, che notti. E che partite piene di tornanti, maglie bagnate, salite, discese, staffette, curve del cuore. Sempre d’estate, sabbia e cocomeri. Turisti tedeschi che giocavano con la nostra liretta. E tifavano perché restasse così. L’euro ha spiazzato anche loro. Sono diventati timidi sulle nostre spiagge. E non finisce qui. No certo, ci sono i supplementari, la storia da strizzare.
Dortmund, 4 luglio 2006. Ci rivediamo, è ovvio. Con nuovi affanni e voglia di strafare: Lippi in cattedra, presuntuoso e vincente. L’Italia rabbiosa di Calciopoli: scandalo, pizza e mandolino. La Germania che ci schifa. Finisce 2-0. L’aperitivo per diventare campioni del mondo. Noi, padroni a casa loro. Fabio Grosso segna, urla e scuote la capoccia: «Non ci posso credere, non ci posso credere...».
Il film si riavvolge, il nastro continua. Perchè con Italia-Germania passi dentro a notti che non finiscono più, senza mai stancarti. Quando l’arbitro dice basta, c’è sempre il calendario da aggiornare. E poi tutti a pensare: io che voglio fare da grande? Ci sarà un’altra Germania per me? C’è. C’è sempre. E se non arriva, ci sono quelle passate, che bastano.
Basta voltarsi. Italia-Germania 4-3. Scriveva Gianni Brera, dallo stadio Atzeca: «I tedeschi arrancano grevi. Sono proprio tonti: ecco perché li abbiamo quasi sempre battuti. Nel calcio vale anche l’astuzia tattica non solo la truculenza, l’impegno, il fondo atletico e la bravura tecnica...».
Un po’ vero, un po’ retorico. La generazione post Sessantotto ha perso, invece Boninsegna e Riva un segno l’hanno lasciato. Almeno loro hanno vinto. Lontani, troppo lontani. Basta riascoltare la replica della telecronaca di Nando Martellini quando dice: «Rivera… ancora… quattro a tre… che meravigliosa partita, ascoltatori italiani. Non ringrazieremo mai abbastanza i nostri giocatori per queste emozioni che ci offrono». Medioevo, splendido. Oggi urlano nel microfono: «Sciabolata! Non va!». E c’è un attore a fare il commento tecnico. Mah. Forse è questo il tempo che passa, forse è progresso e non ce ne accorgiamo.
Meglio i gol, sempre. E quelli dell’82, tre gol li hanno segnati alla vita, con Paolo Rossi con le braccine alzate che sgonfia i panzer. Se giravi il mondo dopo Spagna ’82 pure nel deserto o al Polo Nord, appena dicevi Italy ti toccava il sorriso e la domanda magica: «Paolorossi?». Sì, siamo stati tutti Paolo Rossi. Con Rivera, Tardelli, Grosso e Del Piero, e tanti altri. È stato bello esserci, vederli, averli. Italia e Germania, stremate dalla paura di incrociarsi di nuovo, golose di poterlo fare una volta ancora. Calcisticamente non siamo mai uguali: noi il fratello più vivace, loro quello tenace. Forse per questo ci combattiamo tanto.
«Sono nato nel 1943 – racconta Gianni Rivera – e non lo potevo percepire, ma per la generazione dei miei genitori aver battuto la Germania nel 1970 in una partita così importante, fu psicologicamente la liberazione da una paura, anche fisica, di quel popolo...».
Per fortuna non è più una guerra oggi, e nemmeno un risarcimento. È molto di più. Fino alla prossima puntata, la prossima notte, i prossimi supplementari. Che stasera ci ritroveremo a guardare chiedendoci se ci sarà un’altra sfida così. Dove sarò, dove saremo. Chissà.


Nessun commento:

Posta un commento