C’è una tendenza sempre più diffusa, soprattutto nei contesti mediatici, divulgativi e militanti, a presentare la caccia alle streghe come una sorta di genocidio di genere ante litteram, una persecuzione sistematica delle donne in quanto tali, organizzata dal patriarcato per reprimere l’autonomia femminile. Secondo questa narrazione, le streghe sarebbero state guaritrici, levatrici, donne libere, custodi di un sapere alternativo e “naturale”, eliminate perché minacciavano l’ordine maschile, clericale e autoritario. La caccia alle streghe diventa così un mito fondativo, una preistoria della violenza misogina moderna, un simbolo eterno della paura maschile verso le donne indipendenti. È una narrazione seducente, emotivamente potente, politicamente spendibile. Ma è anche, nella sua struttura portante, storicamente falsa, metodologicamente scorretta e intellettualmente disonesta.
Il primo problema di questa lettura è che tratta la caccia alle streghe come un fenomeno unitario, compatto, dotato di una sola causa, di un solo movente e di un solo bersaglio. In realtà, ciò che chiamiamo “caccia alle streghe” è un insieme di fenomeni giuridici, religiosi, sociali e politici che si sviluppano in modo disomogeneo tra il XV e il XVII secolo, con enormi differenze tra regioni, Stati, confessioni religiose, sistemi giuridici e strutture sociali. Non esiste “la” caccia alle streghe: esistono molte cacce alle streghe, con dinamiche spesso divergenti. Ridurle tutte a un unico schema patriarcale significa rinunciare in partenza a capirle.
Il secondo problema, strettamente connesso al primo, riguarda il rapporto tra genere e persecuzione. È vero che nella maggior parte dei contesti europei la maggioranza degli accusati di stregoneria furono donne. Ma “maggioranza” non significa “totalità”, né automaticamente “persecuzione di genere”. In molte aree dell’Europa centrale e settentrionale la percentuale di uomini accusati e condannati è altissima, in alcuni casi maggioritaria. In Islanda, in Estonia, in Finlandia, in molte regioni della Svizzera e della Germania, la stregoneria è un crimine che colpisce uomini e donne in modo tutt’altro che sbilanciato. Esistono intere ondate persecutorie quasi esclusivamente maschili. Se la caccia alle streghe fosse stata un progetto ideologico coerente di repressione delle donne in quanto tali, questi dati sarebbero semplicemente inspiegabili.
La spiegazione per cui siano state accusate più donne che uomini non risiede in una volontà astratta di annientamento del femminile, ma nella struttura concreta delle società rurali e proto-moderne europee. Le accuse di stregoneria nascono quasi sempre da conflitti di vicinato, rancori, sospetti, tensioni economiche, gelosie, invidie, liti per eredità, pascoli, debiti, relazioni. Colpiscono più facilmente le figure socialmente marginali, isolate, percepite come ambigue o pericolose. Le donne anziane, vedove, povere, senza protezione maschile, rientravano spesso in questa categoria. Non perché rappresentassero una minaccia emancipativa al patriarcato, ma perché erano esposte al sospetto, prive di reti di difesa, vulnerabili dal punto di vista sociale e giuridico. La spiegazione è sociologica, non ideologica.
Un altro mito durissimo a morire è quello della strega come guaritrice, levatrice, scienziata mancata, custode di un sapere femminile represso dalla Chiesa. Anche questa immagine è in larghissima parte una costruzione moderna, proiettata retroattivamente su un passato che non corrisponde. Nella stragrande maggioranza dei processi di stregoneria, le accuse non riguardano la medicina, la cura, la conoscenza delle erbe, ma il maleficio: far morire il bestiame, causare malattie, provocare impotenza, distruggere raccolti, far morire bambini. La strega non è vista come una guaritrice repressa, ma come una criminale soprannaturale. Le levatrici, inoltre, furono molto meno perseguitate di quanto si racconti: in molti contesti erano figure protette dalle autorità, proprio perché indispensabili alla comunità.
La caccia alle streghe non nasce dal basso contro un potere femminile emergente, ma dall’alto come costruzione teologica e giuridica. Il passaggio decisivo non è la paura del sapere delle donne, ma l’elaborazione dottrinale del complotto demoniaco. L’idea che la stregoneria non sia più una superstizione individuale, ma un crimine organizzato, una setta satanica che agisce contro l’ordine cristiano, è un’invenzione dell’élite ecclesiastica e giuridica tardo-medievale. È questa costruzione ideologica che giustifica le grandi persecuzioni, l’uso sistematico della tortura, i roghi di massa. Non è un conflitto uomini-donne: è un conflitto tra un potere ossessionato dall’eresia, dall’ordine e dal controllo e una popolazione resa capro espiatorio.
Ridurre tutto a una guerra contro le donne serve a fornire una chiave di lettura semplice, emotivamente spendibile, ma cancella i veri motori del fenomeno: la nascita dello Stato moderno, l’irrigidimento del diritto penale, l’uso politico della paura, le tensioni sociali prodotte da crisi economiche, carestie, epidemie, guerre. La caccia alle streghe esplode negli stessi secoli in cui l’Europa è attraversata da sconvolgimenti profondissimi: la Riforma, le guerre di religione, la centralizzazione del potere, la crisi climatica della Piccola Era Glaciale. Attribuire tutto al patriarcato significa ignorare deliberatamente questa complessità.
C’è poi un altro aspetto che la narrazione femminista rimuove con particolare cura: il ruolo attivo delle donne nella macchina persecutoria. Le donne non furono soltanto vittime, ma anche accusatrici, testimoni, delatrici, giudici, talvolta carnefici. In moltissimi processi sono proprio le donne a denunciare altre donne, magari vicine di casa, rivali, parenti. Questo non perché fossero “alienate” o “strumentalizzate” da un potere maschile onnipotente, ma perché la caccia alle streghe è un fenomeno comunitario, che attraversa l’intero corpo sociale. Trasformare le donne in soggetti sempre e solo passivi è una forma sottile di infantilizzazione storica.
Ugualmente problematica è l’idea che la Chiesa abbia perseguitato le streghe in quanto donne. In realtà, il rapporto tra Chiesa e stregoneria è molto più ambiguo e contraddittorio. Per secoli la Chiesa ha considerato la stregoneria una superstizione, una credenza popolare illusoria. Le grandi cacce non nascono nel pieno Medioevo cattolico, ma nella prima età moderna, spesso in territori protestanti o in zone di conflitto confessionale. L’istituzione che in molti casi cercò di arginare gli eccessi fu proprio l’Inquisizione, soprattutto quella romana, che impose criteri probatori più rigidi rispetto ai tribunali laici. Anche questo dato è incompatibile con la favola di un progetto unitario di sterminio delle donne da parte dell’istituzione ecclesiastica.
La trasformazione della strega in eroina femminista postuma è un classico esempio di anacronismo ideologico. Si proiettano nel passato categorie, conflitti e identità del presente, come se fossero universali e immutabili. Le donne del Cinquecento non pensavano in termini di “emancipazione femminile”, né si percepivano come un soggetto storico collettivo in lotta contro un sistema di oppressione di genere. Vivevano dentro strutture mentali, religiose, simboliche completamente diverse. Usarle come simboli di battaglie contemporanee non è un atto di memoria, ma un atto di appropriazione.
Questo non significa negare che le donne abbiano subito violenze, discriminazioni, subordinazioni per secoli. Sarebbe ridicolo negarlo. Significa però rifiutare l’uso della storia come serbatoio di miti militanti. La caccia alle streghe è una tragedia immensa, una delle più grandi persecuzioni di massa della storia europea. Ma proprio per questo merita di essere studiata per quello che è stata davvero, non per quello che ci fa comodo che sia stata.
C’è anche un problema etico in questa operazione: trasformare le vittime storiche in simboli astratti. Le streghe non erano archetipi, non erano icone proto-femministe, non erano ribelli contro il patriarcato. Erano persone concrete, con vite, paure, miserie, rancori, deformate dalla tortura fino a confessare qualunque cosa venisse loro richiesto. Ridurle a un emblema ideologico è una seconda forma di violenza, più raffinata, ma non meno reale.
Il successo di questa narrazione dipende anche dalla sua utilità politica. Presentare la caccia alle streghe come “il più grande femminicidio della storia” consente di stabilire una linea di continuità diretta tra il passato e il presente, di costruire un racconto in cui la violenza contro le donne sarebbe una costante immutabile, un destino inscritto nella struttura stessa della civiltà occidentale. È un racconto che funziona sul piano emotivo, ma che genera anche una visione profondamente pessimistica e semplificata della storia, in cui non esistono rotture, trasformazioni, conflitti reali tra sistemi diversi di potere, ma solo la ripetizione eterna dello stesso schema.
Questa lettura produce un altro effetto perverso: rende incomprensibile la fine della caccia alle streghe. Se davvero si fosse trattato di un progetto patriarcale di sterminio delle donne, perché sarebbe terminato? Cosa avrebbe improvvisamente dissuaso un sistema millenario di dominio dal continuare? La fine delle persecuzioni si spiega invece molto bene se si considerano i fattori reali: il mutamento dei criteri giuridici, il declino della tortura come strumento probatorio, la secolarizzazione del diritto, l’affermarsi di una diversa concezione della causalità naturale. È la trasformazione delle strutture dello Stato e del sapere, non un’improvvisa illuminazione morale sul valore delle donne, a far crollare il sistema.
Attribuire alla caccia alle streghe una valenza “femminista al negativo” è anche un modo per sottrarsi a una riflessione più scomoda: il fatto che la persecuzione non nasce dalla diversità, ma dalla normalità. Le accusate non erano per lo più donne straordinarie, libere, ribelli, ma persone comuni, perfettamente integrate nella mentalità del loro tempo. La strega non è l’altra radicale, ma la vicina di casa. Questo è molto più inquietante, perché ci costringe a riconoscere che i meccanismi del capro espiatorio attraversano l’intera società, non solo un gruppo di potere monolitico.
Infine, c’è un elemento di narcisismo storiografico in questa operazione. L’idea che il passato debba parlare di noi, che ogni tragedia debba confermare le nostre categorie, le nostre battaglie, le nostre identità. Ma la storia non è uno specchio consolatorio. È uno spazio di alterità radicale. Le donne perseguitate per stregoneria non chiedevano di diventare simboli del femminismo. Chiedevano, molto più banalmente e tragicamente, di non essere torturate, umiliate, bruciate vive.
Difendere la complessità storica della caccia alle streghe non significa sminuirne la portata, né tantomeno giustificarla. Significa, al contrario, prendere sul serio l’intelligenza delle vittime e dei carnefici, senza trasformarli in personaggi di una favola morale scritta cinque secoli dopo. La storia non è un tribunale ideologico in cui il verdetto è già deciso prima del processo. È un terreno di conflitti reali, di paure reali, di poteri reali, che richiede strumenti analitici, non slogan.
Chi insiste a leggere la caccia alle streghe come un puro e semplice femminicidio di massa non sta facendo un atto di memoria, ma un atto di semplificazione. E ogni semplificazione violenta della storia, anche quando nasce da buone intenzioni, finisce per produrre nuove forme di cecità. La verità, come spesso accade, è molto meno rassicurante di un mito: la capacità di distruggere l’altro non appartiene a un genere, ma alle società nel loro insieme, quando la paura diventa legge.
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