venerdì 5 dicembre 2025

Caccia alle streghe

 


C’è una tendenza sempre più diffusa, soprattutto nei contesti mediatici, divulgativi e militanti, a presentare la caccia alle streghe come una sorta di genocidio di genere ante litteram, una persecuzione sistematica delle donne in quanto tali, organizzata dal patriarcato per reprimere l’autonomia femminile. Secondo questa narrazione, le streghe sarebbero state guaritrici, levatrici, donne libere, custodi di un sapere alternativo e “naturale”, eliminate perché minacciavano l’ordine maschile, clericale e autoritario. La caccia alle streghe diventa così un mito fondativo, una preistoria della violenza misogina moderna, un simbolo eterno della paura maschile verso le donne indipendenti. È una narrazione seducente, emotivamente potente, politicamente spendibile. Ma è anche, nella sua struttura portante, storicamente falsa, metodologicamente scorretta e intellettualmente disonesta.


Il primo problema di questa lettura è che tratta la caccia alle streghe come un fenomeno unitario, compatto, dotato di una sola causa, di un solo movente e di un solo bersaglio. In realtà, ciò che chiamiamo “caccia alle streghe” è un insieme di fenomeni giuridici, religiosi, sociali e politici che si sviluppano in modo disomogeneo tra il XV e il XVII secolo, con enormi differenze tra regioni, Stati, confessioni religiose, sistemi giuridici e strutture sociali. Non esiste “la” caccia alle streghe: esistono molte cacce alle streghe, con dinamiche spesso divergenti. Ridurle tutte a un unico schema patriarcale significa rinunciare in partenza a capirle.


Il secondo problema, strettamente connesso al primo, riguarda il rapporto tra genere e persecuzione. È vero che nella maggior parte dei contesti europei la maggioranza degli accusati di stregoneria furono donne. Ma “maggioranza” non significa “totalità”, né automaticamente “persecuzione di genere”. In molte aree dell’Europa centrale e settentrionale la percentuale di uomini accusati e condannati è altissima, in alcuni casi maggioritaria. In Islanda, in Estonia, in Finlandia, in molte regioni della Svizzera e della Germania, la stregoneria è un crimine che colpisce uomini e donne in modo tutt’altro che sbilanciato. Esistono intere ondate persecutorie quasi esclusivamente maschili. Se la caccia alle streghe fosse stata un progetto ideologico coerente di repressione delle donne in quanto tali, questi dati sarebbero semplicemente inspiegabili.


La spiegazione per cui siano state accusate più donne che uomini non risiede in una volontà astratta di annientamento del femminile, ma nella struttura concreta delle società rurali e proto-moderne europee. Le accuse di stregoneria nascono quasi sempre da conflitti di vicinato, rancori, sospetti, tensioni economiche, gelosie, invidie, liti per eredità, pascoli, debiti, relazioni. Colpiscono più facilmente le figure socialmente marginali, isolate, percepite come ambigue o pericolose. Le donne anziane, vedove, povere, senza protezione maschile, rientravano spesso in questa categoria. Non perché rappresentassero una minaccia emancipativa al patriarcato, ma perché erano esposte al sospetto, prive di reti di difesa, vulnerabili dal punto di vista sociale e giuridico. La spiegazione è sociologica, non ideologica.


Un altro mito durissimo a morire è quello della strega come guaritrice, levatrice, scienziata mancata, custode di un sapere femminile represso dalla Chiesa. Anche questa immagine è in larghissima parte una costruzione moderna, proiettata retroattivamente su un passato che non corrisponde. Nella stragrande maggioranza dei processi di stregoneria, le accuse non riguardano la medicina, la cura, la conoscenza delle erbe, ma il maleficio: far morire il bestiame, causare malattie, provocare impotenza, distruggere raccolti, far morire bambini. La strega non è vista come una guaritrice repressa, ma come una criminale soprannaturale. Le levatrici, inoltre, furono molto meno perseguitate di quanto si racconti: in molti contesti erano figure protette dalle autorità, proprio perché indispensabili alla comunità.


La caccia alle streghe non nasce dal basso contro un potere femminile emergente, ma dall’alto come costruzione teologica e giuridica. Il passaggio decisivo non è la paura del sapere delle donne, ma l’elaborazione dottrinale del complotto demoniaco. L’idea che la stregoneria non sia più una superstizione individuale, ma un crimine organizzato, una setta satanica che agisce contro l’ordine cristiano, è un’invenzione dell’élite ecclesiastica e giuridica tardo-medievale. È questa costruzione ideologica che giustifica le grandi persecuzioni, l’uso sistematico della tortura, i roghi di massa. Non è un conflitto uomini-donne: è un conflitto tra un potere ossessionato dall’eresia, dall’ordine e dal controllo e una popolazione resa capro espiatorio.


Ridurre tutto a una guerra contro le donne serve a fornire una chiave di lettura semplice, emotivamente spendibile, ma cancella i veri motori del fenomeno: la nascita dello Stato moderno, l’irrigidimento del diritto penale, l’uso politico della paura, le tensioni sociali prodotte da crisi economiche, carestie, epidemie, guerre. La caccia alle streghe esplode negli stessi secoli in cui l’Europa è attraversata da sconvolgimenti profondissimi: la Riforma, le guerre di religione, la centralizzazione del potere, la crisi climatica della Piccola Era Glaciale. Attribuire tutto al patriarcato significa ignorare deliberatamente questa complessità.


C’è poi un altro aspetto che la narrazione femminista rimuove con particolare cura: il ruolo attivo delle donne nella macchina persecutoria. Le donne non furono soltanto vittime, ma anche accusatrici, testimoni, delatrici, giudici, talvolta carnefici. In moltissimi processi sono proprio le donne a denunciare altre donne, magari vicine di casa, rivali, parenti. Questo non perché fossero “alienate” o “strumentalizzate” da un potere maschile onnipotente, ma perché la caccia alle streghe è un fenomeno comunitario, che attraversa l’intero corpo sociale. Trasformare le donne in soggetti sempre e solo passivi è una forma sottile di infantilizzazione storica.


Ugualmente problematica è l’idea che la Chiesa abbia perseguitato le streghe in quanto donne. In realtà, il rapporto tra Chiesa e stregoneria è molto più ambiguo e contraddittorio. Per secoli la Chiesa ha considerato la stregoneria una superstizione, una credenza popolare illusoria. Le grandi cacce non nascono nel pieno Medioevo cattolico, ma nella prima età moderna, spesso in territori protestanti o in zone di conflitto confessionale. L’istituzione che in molti casi cercò di arginare gli eccessi fu proprio l’Inquisizione, soprattutto quella romana, che impose criteri probatori più rigidi rispetto ai tribunali laici. Anche questo dato è incompatibile con la favola di un progetto unitario di sterminio delle donne da parte dell’istituzione ecclesiastica.


La trasformazione della strega in eroina femminista postuma è un classico esempio di anacronismo ideologico. Si proiettano nel passato categorie, conflitti e identità del presente, come se fossero universali e immutabili. Le donne del Cinquecento non pensavano in termini di “emancipazione femminile”, né si percepivano come un soggetto storico collettivo in lotta contro un sistema di oppressione di genere. Vivevano dentro strutture mentali, religiose, simboliche completamente diverse. Usarle come simboli di battaglie contemporanee non è un atto di memoria, ma un atto di appropriazione.


Questo non significa negare che le donne abbiano subito violenze, discriminazioni, subordinazioni per secoli. Sarebbe ridicolo negarlo. Significa però rifiutare l’uso della storia come serbatoio di miti militanti. La caccia alle streghe è una tragedia immensa, una delle più grandi persecuzioni di massa della storia europea. Ma proprio per questo merita di essere studiata per quello che è stata davvero, non per quello che ci fa comodo che sia stata.


C’è anche un problema etico in questa operazione: trasformare le vittime storiche in simboli astratti. Le streghe non erano archetipi, non erano icone proto-femministe, non erano ribelli contro il patriarcato. Erano persone concrete, con vite, paure, miserie, rancori, deformate dalla tortura fino a confessare qualunque cosa venisse loro richiesto. Ridurle a un emblema ideologico è una seconda forma di violenza, più raffinata, ma non meno reale.


Il successo di questa narrazione dipende anche dalla sua utilità politica. Presentare la caccia alle streghe come “il più grande femminicidio della storia” consente di stabilire una linea di continuità diretta tra il passato e il presente, di costruire un racconto in cui la violenza contro le donne sarebbe una costante immutabile, un destino inscritto nella struttura stessa della civiltà occidentale. È un racconto che funziona sul piano emotivo, ma che genera anche una visione profondamente pessimistica e semplificata della storia, in cui non esistono rotture, trasformazioni, conflitti reali tra sistemi diversi di potere, ma solo la ripetizione eterna dello stesso schema.


Questa lettura produce un altro effetto perverso: rende incomprensibile la fine della caccia alle streghe. Se davvero si fosse trattato di un progetto patriarcale di sterminio delle donne, perché sarebbe terminato? Cosa avrebbe improvvisamente dissuaso un sistema millenario di dominio dal continuare? La fine delle persecuzioni si spiega invece molto bene se si considerano i fattori reali: il mutamento dei criteri giuridici, il declino della tortura come strumento probatorio, la secolarizzazione del diritto, l’affermarsi di una diversa concezione della causalità naturale. È la trasformazione delle strutture dello Stato e del sapere, non un’improvvisa illuminazione morale sul valore delle donne, a far crollare il sistema.


Attribuire alla caccia alle streghe una valenza “femminista al negativo” è anche un modo per sottrarsi a una riflessione più scomoda: il fatto che la persecuzione non nasce dalla diversità, ma dalla normalità. Le accusate non erano per lo più donne straordinarie, libere, ribelli, ma persone comuni, perfettamente integrate nella mentalità del loro tempo. La strega non è l’altra radicale, ma la vicina di casa. Questo è molto più inquietante, perché ci costringe a riconoscere che i meccanismi del capro espiatorio attraversano l’intera società, non solo un gruppo di potere monolitico.


Infine, c’è un elemento di narcisismo storiografico in questa operazione. L’idea che il passato debba parlare di noi, che ogni tragedia debba confermare le nostre categorie, le nostre battaglie, le nostre identità. Ma la storia non è uno specchio consolatorio. È uno spazio di alterità radicale. Le donne perseguitate per stregoneria non chiedevano di diventare simboli del femminismo. Chiedevano, molto più banalmente e tragicamente, di non essere torturate, umiliate, bruciate vive.


Difendere la complessità storica della caccia alle streghe non significa sminuirne la portata, né tantomeno giustificarla. Significa, al contrario, prendere sul serio l’intelligenza delle vittime e dei carnefici, senza trasformarli in personaggi di una favola morale scritta cinque secoli dopo. La storia non è un tribunale ideologico in cui il verdetto è già deciso prima del processo. È un terreno di conflitti reali, di paure reali, di poteri reali, che richiede strumenti analitici, non slogan.


Chi insiste a leggere la caccia alle streghe come un puro e semplice femminicidio di massa non sta facendo un atto di memoria, ma un atto di semplificazione. E ogni semplificazione violenta della storia, anche quando nasce da buone intenzioni, finisce per produrre nuove forme di cecità. La verità, come spesso accade, è molto meno rassicurante di un mito: la capacità di distruggere l’altro non appartiene a un genere, ma alle società nel loro insieme, quando la paura diventa legge.


#storia #divulgazione #bufale #miti #streghe #inquisizione #stregoneria #chiesa

Storia & Dintorni 

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Antonio Gramsci

 


"VOI FASCISTI PORTERETE L'ITALIA ALLA ROVINA, 😓😓😓

TOCCHERÀ A NOI COMUNISTI DI SALVARLA" ❤🇨🇳✊✊✊


❤️ Antonio Gramsci ❤️🇨🇳✊✊✊

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I fascisti sono sempre senza vergogna

 


𝙂𝙚𝙣𝙤𝙫𝙖, 𝙡𝙖 𝙨𝙩𝙧𝙖𝙩𝙚𝙜𝙞𝙖 𝙙𝙚𝙞 𝙨𝙞𝙣𝙙𝙖𝙘𝙖𝙡𝙞𝙨𝙩𝙞 𝘾𝙜𝙞𝙡 𝙘𝙝𝙚 𝙤𝙧𝙜𝙖𝙣𝙞𝙯𝙯𝙖𝙣𝙤 𝙡𝙤 𝙨𝙘𝙤𝙣𝙩𝙧𝙤 𝙘𝙤𝙣𝙩𝙧𝙤 𝙡𝙖 𝙋𝙤𝙡𝙞𝙯𝙞𝙖 𝙥𝙚𝙧 𝙥𝙤𝙞 𝙛𝙖𝙧𝙚 𝙡𝙚 𝙫𝙞𝙩𝙩𝙞𝙢𝙚 𝙚 𝙖𝙩𝙩𝙖𝙘𝙘𝙖𝙧𝙚 𝙞𝙡 𝙂𝙤𝙫𝙚𝙧𝙣𝙤


“Se necessario ci andiamo a picchiare con le forze di polizia, noi non abbiamo paura. Così finiamo sulle pagine dei giornali e poi sono affari del governo dire che picchiano gli operai che lottano per difendere la fabbrica e l’occupazione a Genova”. Parole (molto chiare) dello storico esponente Fiom, Franco Grondona.


Siamo a Genova e la cornice è la mobilitazione per l’ex Ilva di Cornigliano, stabilimento che lo stesso ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha assicurato che non chiuderà. Ma, forse, questo non importa, ciò che conta è alzare la tensione. “Mantenere i presidi e i blocchi stradali” è l’ordine. La proposta del Governo? “Vaselina” secondo Grondona per cui la premier “fa l’europeista per pochi milioni”. 


Ma, attenzione, non si tratta di una “sparata”. A quanto apprende “Il Giornale” da fonti qualificate ci sarebbe una precisa strategia per ricercare lo scontro con aggressioni mirate ai danni delle forze di polizia per innescare una reazione degli agenti. Uno schema già previsto: prima attaccare duro incappucciati per poi presentarsi come manifestanti pacifici e inermi davanti alle telecamere per di ottenere quel titolo: “Il governo carica gli operai”. 


Ma dal Viminale non sono certo sprovveduti e l’ordine è di non cedere alle provocazioni. 

E, aggiungerei, una volta svelato il bluff anche tutti i cittadini capiranno.

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Un'altra stronzata targata Gualtieri

 


Migranti gratis a casa dei romani, aggiudicata gara da 400 mila euro

ImolaOggi-3 Dicembre 2025 

È stata definitivamente aggiudicata dal Comune di Roma la gara per l’accoglienza di migranti in città. Dopo aver valutato l’offerta tecnica ed economica, l’amministrazione ha affidato il servizio alla Refugees Welcome Italia, l’unico soggetto che ha partecipato all’avviso.


Accoglienza in famiglia dei migranti

Parliamo del bando che già mesi fa aveva scatenato enormi polemiche a Roma e non solo. Il Comune, infatti, ha stanziato 400 mila euro per questo servizio, che si svolgerà dal 1° gennaio 2026 fino al 31 dicembre 2028. Il vincitore della gara, oltre a favorire percorsi di inclusione sociale e di autonomia lavorativa, dovrà trovare “famiglie, mentori o tutori sociali” che ospitino i migranti con regolare permesso di soggiorno.


Nessun rimborso per chi accoglie

Le polemiche su questo avviso scaturirono soprattutto perché non sono previsti ristori per chi accoglierà i migranti. Insomma, le famiglie che parteciperanno al progetto dovranno accollarsi completamente le spese di vitto e alloggio. I fondi stanziati, infatti, serviranno soprattutto per individuare soggetti ospitanti e favorire i percorsi di autonomia delle persone prese in carico. Insomma, dal 1° gennaio comincerà la ricerca vera e propria di persone o altre realtà disposte ad accogliere le persone che rientreranno poi nei progetti di inclusione.


Quando era uscito l’avviso, il centrodestra aveva attaccato il Comune parlando di uno spreco di risorse. Il Pd, dal canto suo, aveva difeso l’avviso sottolineando che “l’accoglienza in famiglia dei migranti è un’esperienza dal grande valore umano, sociale e culturale”.

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I fascisti attaccano sempre gli operai

 


E il vizietto a Genova non se lo tolgono, solidarietà ai lavoratori.


Genova medaglia d'oro della Resistenza, tutte le volte che in Italia c'è un governo di destra botte da orbi ai lavoratori, a chi sciopera o manifesta per la pace.


Anni 60 governo Tambroni che governa insieme al MSI di Almirante, G8 di Genova governo Berlusconi con Fini ministro degli esteri.


E oggi con il governo Meloni, fascisti al governo. 


Si sempre quando ci sono i nostalgici del fascismo, accade che non si può più manifestare, addirittura questo governo ha emanato un Decreto Sicurezza che prevede anche il carcere.


Le forze dell'ordine di solito la Digos che negli altri governi dialoga con i manifestanti e i sindacati, con i governi di destra non c'è più dialogo ma transenne, idranti, manganelli e pistole.


I lavoratori ex Ilva che da giorni scioperano  contro la chiusura degli stabilimenti vogliono manifestare davanti alla Prefettura


Ed ecco di nuovo la provocazione come al G8 transenne, forze dell'ordine in tenuta antisommossa come se fossero davanti a un summit di mafiosi.


No sono dei lavoratori disperati, che ancora una volta chiedono di essere ascoltati dal Prefetto, vogliono lavoro ed invece botte da orbi, lacrimogeni e spari ad altezza d'uomo.


Questa volta non c'è scappato il morto come accadde in Italia con il governo Tambroni a Catania con la morte dell'operaio Salvatore Novembre e in altre città d'Italia, come accade a Genova con l'uccisione di Carlo Giuliani nel 2001.


E come a Genova durante il governo Tambroni il processo riguardò i soli manifestanti, nessun processo venne mai fatto per valutare l'operato e le responsabilità degli appartenenti alle forze dell'ordine che parteciparono a quegli scontri.


Così come accadde al G8 di Genova dove l'unico a pagare è stato quel giovane carabiniere alla prima esperienza mentre gli altri sono stati promossi. 


Si perché è così che funziona in Italia, le forze dell'ordine non possono essere processati e se processati e condannati quando ci sono i governi di destra vengono promossi, basta vedere i post nella pagina della Meloni solidarietà sempre ai tutori della legge mai ai lavoratori. 


Perché i governi di destra dimenticano che sono stati eletti per applicare la costituzione e la democrazia e non per emanare decreti di sicurezza che colpiscono la libertà di manifestare e il diritto al lavoro. 


Sono sempre loro, Piantedosi, Salvini, D'Urso e tutto il fascio che governa invece di prendere esempio dalla sindaca di Genova Salis che è scesa in piazza con i lavoratori.


Questo è il ruolo politico di chi ammistra una città o il governo nazionale, quello per cui è stato eletto dai cittadini, applicare la costituzione e la democrazia e non il terrore e il carcere.

Santina Sconza 

#antifascistademocraticapacifista

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𝗜 𝗚𝗜𝗢𝗖𝗛𝗜 𝗗𝗘𝗟 𝗖𝗢𝗟𝗢𝗦𝗦𝗘𝗢: 𝗣𝗢𝗧𝗘𝗥𝗘, 𝗦𝗔𝗡𝗚𝗨𝗘 𝗘 𝗜𝗟 𝗦𝗢𝗥𝗥𝗜𝗦𝗢 𝗗𝗘𝗟𝗟’𝗜𝗠𝗣𝗘𝗥𝗔𝗧𝗢𝗥𝗘



Quando l'imperatore Tito inaugurò l'Anfiteatro Flavio nell'anno 80 dopo Cristo, Roma non vide semplicemente l'apertura di un nuovo edificio, ma l'inizio di una liturgia politica scolpita nella pietra e nel sangue.


Le cronache di Cassio Dione ci tramandano che i festeggiamenti durarono cento giorni, un periodo di opulenza sfrenata durante il quale la generosità imperiale trasformò la morte in una forma d'arte per il godimento della folla.


Sotto l'immensa tela del velario, manovrata con maestria dai marinai della flotta di Miseno per proteggere gli spettatori dal sole cocente, l'aria si saturava di odori contrastanti. Il profumo dello zafferano spruzzato sulla folla si mescolava al tanfo ferroso del sangue e al lezzo delle fiere che risalivano dagli oscuri sotterranei dell'ipogeo.


Marziale, testimone oculare di quei giorni, compose il Liber de Spectaculis per celebrare la meraviglia di un'arena capace di ospitare battaglie navali e cacce esotiche, dove la natura stessa sembrava inchinarsi al volere di Cesare.


La giornata dei giochi seguiva un ritmo preciso, scandito dalla ferocia crescente degli spettacoli. Il mattino era dedicato alle venationes, le cacce alle bestie feroci.


Queste vedevano contrapposti uomini e animali provenienti dagli angoli più remoti dell'impero. Leoni, tigri, orsi e persino struzzi venivano sollevati tramite complessi sistemi di ascensori e carrucole direttamente sull'arena, apparendo quasi magicamente dalla sabbia per essere massacrati.


Le fonti antiche riportano cifre impressionanti: durante l'inaugurazione voluta da Tito perirono novemila animali, un'ecatombe che serviva a dimostrare il dominio di Roma non solo sui popoli, ma sull'intero creato.


Nelle ore centrali della giornata, quando il sole era allo zenit e la maggior parte degli spettatori si allontanava per il pranzo, l'arena ospitava il momento più crudo, quello delle esecuzioni capitali.

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Seneca, nelle sue lettere a Lucilio, descrive con orrore questi intermezzi meridiani, definendoli "puri omicidi" dove i condannati, privi di qualsiasi protezione, venivano esposti alle belve o costretti a uccidersi a vicenda.


La mitologia veniva spesso messa in scena in modo grottesco e reale: criminali vestiti da Orfeo venivano sbranati dagli orsi, o bruciati vivi indossando tuniche impregnate di pece per ricreare le sofferenze di eroi leggendari, trasformando la giustizia punitiva in teatro macabro.


Il culmine giungeva nel pomeriggio con i munera, i combattimenti tra gladiatori, veri protagonisti dell'evento. Qui il rapporto tra il principe e il popolo raggiungeva la sua massima espressione.


L'imperatore non era solo uno spettatore privilegiato seduto sul suo palco, ma il giudice supremo e il dispensatore di grazia.


Un suo cenno, spesso dettato dall'umore della folla urlante, decretava la vita o la morte del combattente sconfitto. Il sorriso dell'imperatore, o la sua commozione, diventavano atti politici.


Tito, in particolare, era noto per la sua prodigalità, gettando piccole sfere di legno contenenti buoni per cibo e vestiario verso il popolo, comprando così l'amore dei sudditi con il pane e il circo.


L'architettura stessa dell'anfiteatro rifletteva l'ordine sociale rigido e immutabile voluto dall'impero. I senatori sedevano sui gradini di marmo più vicini all'azione, separati dalla plebe che occupava i settori superiori, fino alle donne e agli schiavi relegati nel loggione più alto.


In questo microcosmo stratificato, ogni cittadino trovava il proprio posto assegnato, unito agli altri solo dal brivido collettivo della violenza legalizzata. Quando il sole tramontava e i cadaveri venivano trascinati via attraverso la Porta Libitinaria, restava sulla sabbia insanguinata il messaggio inequivocabile della dinastia Flavia: il potere di Roma era assoluto, capace di dare la morte e, con un sorriso, concedere la vita.


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giovedì 4 dicembre 2025

Socrates

 


Appena arrivato in Italia Socrates fece capire a tutti di quale pasta era fatto.

Quando venne presentato ai tifosi della fiorentina, presso lo Stadio Comunale, scatenò il delirio tra la folla alzando il pugno chiuso in segno di saluto.

Il presidente della Viola, Ranieri Pontello, vicino alla DC, gli chiese il perché del gesto e se sapesse che quello era il saluto dei comunisti in Italia. Lui rispose che il gesto gli ricordava Smith e Carlos a Messico ‘68 e che ignorava che in Italia fosse un simbolo dei comunisti, ma la cosa gli piaceva. La stessa sera Socrates disertò una festa di gala e poi si recò a un dibattito organizzato in una vicina Casa del Popolo.

La vicinanza ad ambienti popolari e politicizzati aiutò Socrates ad ambientarsi in città. Le sue prese di posizione a favore dei lavoratori e contro le diseguaglianze fecero crescere rapidamente la sua fama, già radicata grazie all’esperienza della Democrazia Corinthiana, ovvero la modalità del tutto innovativa e rivoluzionaria con cui i giocatori e i dirigenti del Corinthians avevano gestito dalla fine degli anni ‘70 il club. Tutte le decisioni vengono prese in gruppo, nello spogliatoio. In quel gruppo tutti hanno diritto di voto e ogni voto vale quanto gli altri, da quello del presidente a quello del magazziniere. La squadra non giocava per vincere, ma per divertirsi e divertire i propri tifosi e soprattutto per dimostrare che era possibile un’alternativa alla dittatura brasiliana.

Quando Socrates fu acquistato dalla Fiorentina trovò un ambiente profondamente diverso. Lo spogliatoio, all’epoca diviso in due fazioni distinte, era indifferente se non ostile alla sua volontà di politicizzare l’attività sportiva e infastidito dal suo modo di stare in campo. Allo stesso tempo i sistemi di allenamento e la disciplina gli impedivano di vivere il calcio come aveva sempre fatto: prima di tutto, un divertimento, fatto anche di diversi eccessi.

I risultati sul campo del dutur - soprannome affibbiato per i suoi studi in medicina - furono deludenti, viceversa fuori fu amato da tanti fiorentini. Incredibile resta, tra i tanti gesti, quello della terzultima di campionato quando, infortunato, Socrates vide metà della partita tra i tifosi della Fiesole.

Alla fine della stagione lasciò la Fiorentina per tornare in Brasile, al Flamengo. L’Italia, le frizioni nello spogliatoio, la distanza dagli affetti, una situazione sentimentale complessa lo riportarono a casa.

In Italia non era riuscito ad ambientarsi e diffondere la sua idea di calciatore disimpegnato negli allenamenti e impegnato fuori dal campo, ma restava comunque grande l’affetto che buona parte della città gli aveva riservato.


Cronache Ribelli


Uno dei nostri poster è dedicato proprio a Socrates. Lo trovi al link nel primo commento.

Cronache Ribelli 

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Il governo Meloni denunciato per danno erariale

 


Denunciati. Finalmente!


ActionAid ha presentato un esposto alla Corte dei conti nei confronti del governo per danno erariale in merito ai famigerati e fallimentari centri per migranti in Albania.


Non solo. 


La Ong ha anche segnalato tutto all’Anac per fare luce su eventuali irregolarità nell’affidamento dell’appalto da 133 milioni per la gestione dei centri. 


Con la collaborazione dell’Univesità di Bari, hanno messo nero su bianco in 60 pagine incredibilmente circostanziate tutti gli intollerabili sprechi di denaro pubblico da parte del governo Meloni. Con i soldi nostri.


Il quadro che ne esce leggendo le carte è inquietante.


65 milioni di euro spesi effettivamente per 400 posti: ovvero 153.000 euro per ogni posto. Oltre undici volte il costo di qualunque centro italiano.


Costi di mantenimento che superano di 18 volte la media dei Cpr italiani.

 

E ancora.


“Il governo - spiega sempre ActionAid - ha bandito gare per 82 milioni, firmato contratti per oltre 74 milioni – quasi tutti tramite affidamenti diretti – ed erogato più di 61 milioni per gli allestimenti. Soldi pubblici sottratti alla salute, alla giustizia e a welfare e servizi”.


E tutto per un fallimento totale, inutile, inumano, più volte bocciato dai giudici per le violazioni sistematiche del diritto internazionale.


Meloni, Piantedosi & C. si sono sempre rifiutati di risponderne davanti ai cittadini italiani.


Ora lo faranno davanti alla Corte dei conti.


Bene così, è il minimo.

Lorenzo Tosa 

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Anche Ferretti piscia via la Melona

 


“Ho votato Giorgia Meloni, era al 2% allora. Questo governo mi fa schifo. Oggi non voto nessuno. Ero di sinistra e non lo sono più. Ma non sono mai stato di destra. Per un attimo li ho guardati con simpatia, perché volevo guardare con simpatia chi consideravo l’origine dei miei problemi, ma non sono la soluzione. E se ho amici di destra, come Buttafuoco, mi imbarazzava fossero definiti fascisti. Per me l’antifascismo rimane un valore fondante, in questa casa non è mai entrato un fascista”.


Giovanni Lindo Ferretti aveva già detto larga parte di queste cose a me a ottobre, in un’intervista che girò molto soprattutto per la reunion dei CSI. Ma f anche molto chiaro sulla disillusione nei confronti di Meloni e meloniano.


Oggi, al Corriere della Sera, è stato ancora più netto. E non mi stupisce, perché Giovanni lo conosco bene e gli voglio bene. Parecchio.


La destra italiana continua a non avere mezzo riferimento culturale contemporaneo che sia mezzo, e la pochezza della sua classe dirigente (e dei suoi reggimoccolo) lo conferma. Vuoti e inutili.


Daje Giovanni!

Andrea Scanzi 

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Ci mancava solo la solidarietà de sto mentecatto

 


DA MARIO A MARIO, TUTTA LA MIA SOLIDARIETÀ 

di Mario Adinolfi 


Non possiedo armi, non le voglio in casa, le considero foriere sempre di drammi. Ma sono addestrato a usarle, le so maneggiare, tutte: dalla pistola Glock a caricatore lungo illegale in Italia che vedete nella foto, al classico Ak47 (per gli amici, il kalashnikov) alla maneggevolissima mitraglietta Uzi di fabbricazione israeliana. Perché, se costretto dagli eventi, voglio saper difendere me stesso, la mia famiglia, i miei amici, tutto ciò che mi è caro. Dopo aver subito cinque rapine a mano armata nella sua gioielleria di Grinzane Cavour in provincia di Cuneo, dopo essere stato sotto tiro della pistola e con la moglie sequestrata presa a pugni in faccia dall’ennesima banda di balordi, Mario Roggero ha sparato sui ladri in fuga e ha ucciso due criminali. Il terzo che faceva da palo si è beccato la solita pena lieve: 4 anni. Lui, Mario, al processo d’appello a Torino è stato condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere, di poco inferiori ai 17 anni inflitti in primo grado. Per un uomo di 71 anni è una condanna che equivale all’ergastolo. Da Mario a Mario, tutta la solidarietà. Se la Cassazione confermerà la condanna e Mario dovrà entrare a 72 anni nel carcere delle Vallette probabilmente per uscirne solo cadavere o ridotto a rottame umano, beh quel giorno ci sarà davvero da vergognarsi di essere italiani. Gli stragisti di Bologna (85 morti, 200 feriti) con altri 9 ergastoli da scontare furono condannati in Cassazione nel novembre 1993 e scarcerati nel 1997 con la libertà condizionale, degli stragisti di via Fani da decenni non ce n’è uno in prigione, chi ha sparato in testa a Walter Tobagi non ha fatto un giorno di carcere, chi ha sparato alla schiena del commissario Luigi Calabresi è stato graziato da Napolitano, Alex Pompa che ha ucciso il padre totalmente inerme e inoffensivo con trentaquattro coltellate da sei lame diverse è stato assolto per legittima difesa. Per Mario invece che ha sparato contro una banda che per l’ennesima volta lo rapinava armi in pugno e picchiava la moglie, niente legittima difesa, neanche eccesso colposo di legittima difesa, ma omicidio volontario e ergastolo de facto. Poi dite che dobbiamo “avere fiducia nella magistratura italiana”. Sono giudici ideologizzati che non meritano nessun credito. Mario libero, subito. E date retta a un uomo che odia le armi: imparate a usarle. In questo Paese è necessario.

Mario Adinolfi

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I fascisti sanno solo dire coglionate su Facebook

 


Il patriarcato destrorso dei giudici belgi


Non solo sono fascisti, ma anche patriarcali questi giudici belgi.

Infatti indagano solo donne del pd: Moretti, Sgualdini, Mogherini. 

E chiedono pure la revoca della loro immunità parlamentare.

In Italia siamo invece politicamente corretti: indaghiamo solo uomini e anche di destra. 

Pensate che quando hanno trovato i 24.000 euro nella cuccia del cane di Monica Cirinnà le hanno giustamente creduto: la deputata del pd è riuscita a dimostrare che il suo era un cane da riporto.  Solo che invece di riportare colombacci (la caccia è infatti politicamente scorrettissima) l'aveva addestrato a recuperare denaro perduto. Non rubato. Buttato per strada da qualche buontempone. E il cane zacchette: lo portava nella sua cuccia.

La Cirinnà, badate bene, è di sinistra, progressista, del pd e quindi sempre onesta: quando dice d'essere innocente è vietato dubitare.

Ed essendo stata assolta, la Cirinna ha richiesto indietro anche i 24.000 euro sequestrati.

In Italia siamo gente seria

I Belgi no.

I magistrati belgi hanno bisogno di un buon corso di formazione woke: non si indagano le donne soprattutto se sono progressiste e di sinistra. Non come fanno loro che hanno osato incriminare tre e dico tre preziose esponentesse (si dice così?) del pd, woke, politicamente corrette e ztl residenti.

Ma che vorrebbero, metterle tutte  nella stessa cella assieme a Ilaria Salis, anche lei vittima di giudici fascisti?

Non scherziamo davvero.

Magistrati belgi patriarcali e fascisti.

Giorgia Meloni riferisca in parlamento.

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Krystal Lo 398

 


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Fondazione di Chicago

 


Il 4 dicembre 1674, il gesuita francese Jacques Marquette fondò una piccola missione sulla riva sud del lago Michigan. Proprio lì, nel territorio dei Potawatomi, nascerà poi Chicago.


Marquette aveva solo 17 anni quando entrò nei gesuiti. Nel 1666 diventò prete e partì per evangelizzare le popolazioni native del Nord America.


Arrivato in Québec, imparò molte lingue locali e, insieme a Louis Jolliet, esplorò il fiume Mississippi. Pensavano che il fiume portasse a ovest, verso l’oceano Pacifico, ma scoprirono che invece andava da nord a sud.


Durante il viaggio di ritorno, il gruppo si fermò sulla sponda sud del lago Michigan a causa del maltempo. Marquette, già malato, trovò accoglienza presso gli indigeni alla foce del fiume Chicago.


Qui costruirono un rifugio semplice fatto di rami e pelli. Quella capanna fu il primo insediamento europeo stabile dove oggi sorge Chicago.


Marquette non riuscì a proseguire il viaggio. Restò tutto l’inverno con i nativi, che lo aiutarono e lo rispettarono molto.


Nelle sue lettere racconta di aver vissuto settimane difficili, dedicate però a funzioni religiose, insegnamenti e visite agli ammalati. Annotava anche usi e costumi delle tribù locali.


L’inverno del 1674–75 è importante sia per la storia di Marquette sia per la conoscenza delle popolazioni native e del territorio. Nei suoi appunti descriveva clima, comportamenti e i vantaggi della zona tra Grandi Laghi e Mississippi, che poi influenzeranno lo sviluppo di Chicago.


Con la primavera, Marquette provò a tornare a nord verso Mackinac, ma poco dopo, vicino a Ludington, morì il 18 maggio 1675. I nativi lo chiamavano “capo dalla tunica nera”.


Quel rifugio alla foce del fiume Chicago diventò un punto di riferimento per i pochi europei che arrivarono dopo. Il nome della città, “shikaakwa”, significa “luogo dei porri selvatici” e compare già nei suoi appunti.


#Chicago #StoriaUSA

Storiachepassione.it

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Abderrahman Salhi

 


Il 2 giugno 2011 il corpo senza vita di Abderrahman Salhi venne ritrovato riverso nelle acque del fiume Frassine a pochi chilometri da Montagnana, in provincia di Padova. Il giovane, che aveva ventiquattro anni, era stato visto per l'ultima volta nove giorni prima, quando i carabinieri lo avevano caricato su un'auto nel centro storico del paese dopo che una segnalazione li aveva allertati sulla sua presenza: si trovava in stato di ebbrezza e stava importunando alcune persone. Da quel momento in poi gli amici con cui condivideva una baracca lungo il fiume non avevano più avuto sue notizie, fino al tragico ritrovamento e all’esito dell’autopsia, che aveva stabilito come causa del decesso l’annegamento. Le indagini della procura avevano poi fatto emergere che Abderrahman era stato condotto dai carabinieri sulla riva del fiume e costretto a gettarsi in acqua. Questa pratica, secondo alcune testimonianze, era già stata utilizzata in almeno altri quattro episodi da parte degli agenti della locale stazione come forma di punizione nei confronti di migranti ritenuti molesti o indesiderati. Nessun arresto, nessuna denuncia, solo il lancio nelle acque gelide del Frassine, un gesto che veniva giustificato come un modo per "rinfrescare le idee agli extracomunitari". Alla fine tre carabinieri scelsero di patteggiare una condanna per abuso di potere, mentre l’accusa di omicidio colposo venne derubricata. Secondo il medico legale, infatti, l’annegamento sarebbe avvenuto nei giorni successivi alla notte in cui Salhi era stato costretto a tuffarsi nel fiume. Al momento dell’autopsia il cadavere presentava inoltre una lesione frontale sulla testa.


A 364 persone, direttamente o indirettamente uccise dalle istituzioni italiane, è dedicato il nostro libro “Morire di Stato”. Lo trovate seguendo il link nel primo commento.

Cronache Ribelli 

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La politica USA🇺🇸 per il mondo

 


"La Russia ha ucciso con l' atomica 300.000 persone in Giappone ?  

NO!!!

Sono stati gli Stati Uniti. 😤😤😤


La Russia ha ucciso 

tra 5 o 6 MILIONI di Ebrei?

NO!!!

Sono  stati i NAZISTI della  GERMANIA.😤😤😤


La Russia ha ucciso 6 MILIONI di persone in Congo?

NO!!!

 È stato il BELGIO. 😤😤😤


La Russia ha ucciso centinaia di migliaia di persone affamate in INDIA e ha SCHIAVIZZATO NAZIONI in ASIA e AFRICA ?

NO!!!

É stata L'INGHILTERRA.😤😤😤


La Russia ha deportato MILIONI di AFRICANI in CATENE per SCHIAVIZZATI in AMERICA ? 

NO!!!

LO HANNO FATTO gli INGLESI,😤😤😤 gli SPAGNOLI 😤😤😤

e i PORTOGHESI.😤😤😤


La Russia HA UCCISO MIGLIAIA di PERSONE in ALGERIA?

NO!!!

È stata la FRANCIA.😤😤😤


La Russia ha UCCISO 3 MILIONI di persone in VIETNAM 

e 2 MILIONI in CAMBOGIA?

NO!!! 

Sono stati gli STATI UNITI.😤😤😤


La Russia ha UCCISO 6 MILIONI di COREANI, nel Sud e nel Nord, 

e 1 MILIONE di CINESI, 

nella guerra di COREA?.

NO!!!

 Sono stati gli STATI UNITI.😤😤😤


La Russia ha UCCISO 1 MILIONE di PERSONE in IRAQ, utilizzando anche BOMBE A URANIO IMPOVERITO CHE FANNO ANCORA NASCERE, A DISTANZA DI 20 ANNI, BAMBINI DEFORMI ?

NO!!!

 Sono stati gli ANGLO-AMERICANI.😤😤😤


La Russia ha UCCISO OLTRE 240.000 PERSONE in AFGHANISTAN?

NO!!!

 Sono stati gli USA.😤😤😤


È stata la Russia a bombardare la JUGOSLAVIA e la LIBIA ?

NO!!!

Sono stati gli  USA 😤😤😤

 e la UNIONE  EUROPEA 😤😤😤

e la NATO 😤😤😤


La Russia ha compiuto il GENOCIDIO DEI POPOLI INDIGENI, ANNESSO METÀ MESSICO, 

PORTO RICO, HAWAII e altre TERRE?

No!!!

 Dono stati gli STATI UNITI.😤😤😤


La Russia ha UCCISO 100.000 PALESTINESI nella STRISCIA DI GAZA, solo nell'attuale conflitto in MEDIO ORIENTE?

NO!!!

È STATA ISRAELE ,😤😤😤

CON LA COPLICITA DEGLI STATI UNITI 😤😤😤 , DELL'UNIONE EUROPEA 😤😤😤 e DELL'ITALIA 😤😤😤


SI POTREBBE CONTINUARE.....

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Anche Agnelli piscia via la Melona



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Lotta al caporalato

 


I carabinieri hanno bussato alle sedi di Versace, Gucci, Prada, Dolce&Gabbana, Missoni, Ferragamo, Yves Saint Laurent, Givenchy, Pinko, Coccinelle, Adidas, Alexander McQueen Italia, Off-White Operating.


Tredici big della moda sotto accusa: chiesta la consegna di atti per verifiche su caporalato e sfruttamento del lavoro.


La Procura di Milano ha svelato uno strato sotterraneo di lavoro nero forse inimmaginabile, in uno dei settori più redditizi e ammirati nel mondo. 


Il mondo del lusso e della moda è finito così di nuovo nel mirino della procura di Milano, che prosegue con il filone dell’inchieste sull’ipotizzato sfruttamento di lavoratori, l’ultimo dei quali è stato Tod’s. Sono 13 i marchi attenzionati nelle inchieste del pm Paolo Storari. 


“La lucentezza delle vetrine”, riassume Giovanna Trinchella sul Fatto, “la perfezione dei capi o delle scarpe, non mostra chi cuce nell’ombra e chi indaga vuole capire perché nelle stanze con operai piegati a imbastire in condizioni di “para schiavitù” potesse essere trovata merce di marchi così importanti”.


Viva l’Italia!

Andrea Scanzi 

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La battaglia di Montaperti

 


«𝘓𝘰 𝘴𝘵𝘳𝘢𝘻𝘪𝘰 𝘦 '𝘭 𝘨𝘳𝘢𝘯𝘥𝘦 𝘴𝘤𝘦𝘮𝘱𝘪𝘰

𝘤𝘩𝘦 𝘧𝘦𝘤𝘦 𝘭'𝘈𝘳𝘣𝘪𝘢 𝘤𝘰𝘭𝘰𝘳𝘢𝘵𝘢 𝘪𝘯 𝘳𝘰𝘴𝘴𝘰,

𝘵𝘢𝘭 𝘰𝘳𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯 𝘧𝘢 𝘧𝘢𝘳 𝘯𝘦𝘭 𝘯𝘰𝘴𝘵𝘳𝘰 𝘵𝘦𝘮𝘱𝘪𝘰.»


La battaglia di Montaperti ebbe luogo il 4 settembre 1260 e rappresentò uno degli scontri più sanguinosi dell’intero Medioevo italiano. Si svolse tra le forze guelfe di Firenze e quelle ghibelline di Siena, sostenute da contingenti provenienti da città alleate come Pisa e da cavalieri fuoriusciti fiorentini. Lo scontro nacque da tensioni politiche interne alla Toscana, dove i comuni erano divisi dall’appartenenza alle due grandi fazioni che si contrapponevano in tutta la penisola, con le famiglie ghibelline senesi e fiorentine determinate a prevalere nel conflitto che avrebbe deciso il predominio sulla regione.


A Firenze il governo era allora saldamente in mano ai guelfi, che avevano cacciato le principali famiglie ghibelline. Alcuni di questi esuli trovarono rifugio a Siena, dove il governo dei Nove, pur non completamente schierato, finì con il favorire la presenza dei fuorusciti. La città mantenne un orientamento ghibellino più marcato dopo l’intervento dei sostenitori di Manfredi di Sicilia, desideroso di limitare l’ascesa guelfa in Toscana. Le tensioni tra le due città sfociarono presto in provocazioni e scontri minori lungo i confini territoriali, con continue scorrerie o atti ostili da parte di gruppi armati che operavano ai margini dei territori comunali.


La decisione fiorentina di muovere guerra contro Siena avvenne nel corso del 1260, quando il governo guelfo, forte di un esercito molto più numeroso, ritenne possibile ottenere una vittoria rapida. Firenze contava sull’appoggio di alleati come Lucca, Prato e altre città guelfe, mettendo insieme un contingente che, secondo le cronache, superava i ventimila uomini. Anche le fonti più prudenti parlano di un esercito molto più consistente rispetto a quello senese, che si aggirava attorno alle quattromila unità di cavalleria e a un numero variabile di fanti, rafforzato però da contingenti ghibellini provenienti da diverse città toscane. Le forze senesi potevano inoltre contare sulla determinazione degli esuli fiorentini, guidati da Farinata degli Uberti e da altri nobili che vedevano nello scontro la possibilità di riconquistare la loro città.


Le operazioni preliminari alla battaglia cominciarono già nell’agosto del 1260, con i fiorentini che penetrarono nel territorio senese e presero possesso di alcune postazioni minori. L’esercito guelfo, forte della sua superiorità numerica, avanzò con sicurezza, convinto che Siena non avrebbe potuto resistere a lungo. In risposta, i senesi decisero di evitare uno scontro diretto in campo aperto finché non fossero riusciti a ottenere rinforzi ghibellini sufficienti. La scelta di temporeggiare consentì loro di radunare nuove forze, tra cui i cavalieri di Provenzano Salvani, figura di rilievo della politica senese, che assunse un ruolo di guida sia militare che simbolica all’interno della città.


Alla fine di agosto i senesi radunarono le proprie truppe all’interno della città, facendo giurare ai cittadini la difesa del comune. La tradizione vuole che venisse portato nella piazza del Campo il carroccio, simbolo dell’unità cittadina, davanti al quale fu celebrato un rito solenne. Dopo questi preparativi, l’esercito uscì da Siena in direzione sud-est, muovendosi verso la zona di Montaperti, dove intendeva incontrare l’avanzata fiorentina. Il luogo era caratterizzato da colline morbide, spazi aperti ma anche pendii che avrebbero potuto favorire l’impiego strategico della cavalleria e permettere azioni di aggiramento. La scelta del terreno fu parte integrante del piano senese, che puntava a sopperire all’inferiorità numerica con una disposizione più accorta delle truppe.


L’esercito fiorentino, dal canto suo, avanzava con una organizzazione tipica dei comuni guelfi: il carroccio era situato al centro dello schieramento, circondato dalla fanteria, mentre le ali erano difese dalla cavalleria. Alla guida delle truppe vi erano i principali rappresentanti della politica cittadina, determinati a infliggere una sconfitta decisiva ai senesi. Tra i fuoriusciti che combattevano nelle file ghibelline, invece, spiccavano nomi che sarebbero poi rimasti nella storia, come Farinata degli Uberti, impegnato non solo a riconquistare Firenze ma anche a dimostrare il valore della sua parte politica.


Le due armate si incontrarono nei pressi del torrente Arbia, non lontano da Montaperti. Il confronto cominciò nella mattina del 4 settembre con alcune scaramucce e con movimenti di assestamento delle truppe. I fiorentini, forti della superiorità numerica, tentarono un attacco frontale per rompere lo schieramento senese. I senesi, invece, posero parte delle loro forze su una collina che dominava il campo di battaglia, in modo da poter osservare le manovre avversarie e intervenire al momento opportuno con cariche mirate.


Lo scontro vero e proprio iniziò con una carica della cavalleria guelfa, che cercò di rompere il centro ghibellino. I senesi riuscirono a reggere grazie all’intervento dei contingenti di rinforzo provenienti da Pisa e degli esuli fiorentini, che combatterono con determinazione eccezionale. La mischia centrale diventò presto confusa e sanguinosa. Le cronache dell’epoca parlano di uno dei più feroci combattimenti mai visti nella regione: tutte le unità presenti, compresi nobili e cavalieri di alto rango, si scontrarono direttamente senza risparmio.


Uno degli episodi più celebri della battaglia riguarda l’intervento del traditore Bocca degli Abati, nobile fiorentino schierato con i guelfi ma segretamente passato ai ghibellini. Secondo il racconto tramandato, Bocca colpì a tradimento il portabandiera della cavalleria fiorentina, provocando confusione nelle file guelfe. La perdita dello stendardo fu uno dei momenti critici dello scontro: molti cavalieri, non riconoscendo più il segnale visivo che indicava la posizione della loro unità, cominciarono a disperdersi o a ritirarsi in modo disordinato. L’episodio indebolì notevolmente l’ala fiorentina e favorì l’iniziativa dei senesi, che colsero l’occasione per sferrare un contrattacco.


Provenzano Salvani comandò la carica decisiva delle forze senesi, accompagnato dai suoi cavalieri e dai contingenti alleati. La pressione esercitata sul centro guelfo aumentò rapidamente. Sul lato destro fiorentino i ghibellini attaccarono con violenza crescente, sfruttando la confusione creatasi dopo il tradimento. La resistenza dei reparti centrali fiorentini iniziò a cedere, mentre gli uomini posti a difesa del carroccio tentavano disperatamente di mantenere la posizione. L’inclinazione naturale del terreno, unita alla perdita di coesione tra le file guelfe, favorì l’avanzata senese.


Lo sfondamento definitivo avvenne quando la cavalleria ghibellina riuscì a spezzare la linea difensiva fiorentina, provocando il crollo dell’intero schieramento. A quel punto, la battaglia si trasformò in una fuga caotica dei guelfi. L’inseguimento proseguì per diverse miglia e venne ricordato per la violenza dei combattimenti corpo a corpo. La zona intorno al torrente Arbia fu descritta come un vero e proprio campo di sterminio. Le stime sulle vittime sono molto variabili, ma tutte concordano sul fatto che la battaglia fu tra le più sanguinose del periodo. La tradizione parla di migliaia di morti, con numeri che oscillano tra diecimila e ventimila caduti, anche se le fonti più moderne tendono a ridurre queste cifre.


La presa del carroccio fiorentino fu il momento simbolico della vittoria senese. Le truppe ghibelline lo catturarono dopo un ultimo, violento assalto, e lo trascinarono come trofeo verso Siena, accompagnato dai prigionieri e dalle insegne guelfe abbandonate sul campo. Molti nobili fiorentini furono uccisi o catturati. I fuorusciti ghibellini, in particolare, si distinsero nell’inseguimento, guidati dal desiderio di vendicare l’esilio subito anni prima. Tra loro spiccava Farinata degli Uberti, che divenne una delle figure più ricordate di quel giorno.


La vittoria di Montaperti ebbe conseguenze politiche immediate. Firenze, priva delle sue principali difese, cadde nelle mani dei ghibellini. Le famiglie guelfe furono costrette alla fuga o subirono dure ritorsioni. I ghibellini, tornati al potere, instaurarono un governo favorevole all’imperatore Manfredi, consolidando per alcuni anni il predominio ghibellino nella Toscana centrale. Siena, dal canto suo, celebrò la vittoria con grande entusiasmo: la città visse uno dei suoi momenti di massima gloria politica e militare, che rimase impresso nella memoria collettiva e nella cultura cittadina.


Provenzano Salvani, principale protagonista militare e politico della vittoria, acquisì un prestigio straordinario. La sua figura divenne simbolo della difesa dell’indipendenza senese e dell’abilità militare della città. L’impatto emotivo della battaglia rimase forte anche nei decenni successivi, soprattutto per la crudeltà dello scontro e per il numero elevato di vittime registrate tra i fiorentini.


La battaglia provocò anche ripercussioni a lungo termine sugli equilibri politici della regione. Il ritorno dei ghibellini a Firenze non fu accompagnato da una pacificazione duratura. Con il mutare della situazione politica e con la sconfitta di Manfredi a Benevento nel 1266, i guelfi tornarono presto al potere nella città. Tuttavia, lo scontro di Montaperti rimase negli anni un episodio evocato come simbolo della ferocia delle lotte intestine che dividevano i comuni italiani del XIII secolo.


Il territorio intorno a Montaperti portò a lungo i segni della battaglia. Vaste aree furono lasciate incolte per anni, e numerosi ritrovamenti di armi e resti umani furono registrati anche nei secoli successivi. I cronisti medievali descrissero la zona come un luogo di memoria tragica. In particolare il torrente Arbia fu spesso citato come il punto in cui si accumulò la maggior parte dei cadaveri e del sangue versato durante la fuga dei guelfi.


Nel corso del tempo la battaglia entrò nella tradizione storica e letteraria della Toscana. Le cronache senesi celebrarono la vittoria come una dimostrazione della forza e dell’astuzia militare della città. Firenze, invece, ricordò a lungo Montaperti come una delle sconfitte più umilianti della propria storia, un trauma collettivo che segnò profondamente il sentimento politico cittadino. Lo scontro fu considerato non solo un episodio militare, ma anche un momento decisivo nelle lotte tra le fazioni che avrebbero continuato a lacerare l’Italia comunale per decenni.


Il campo di battaglia divenne oggetto di un culto della memoria, con la costruzione nei secoli di monumenti e lapidi dedicate ai caduti. Ancora oggi la collina di Montaperti conserva tracce topografiche e testimonianze che permettono di ricostruire le fasi dello scontro. La presenza del cippo commemorativo, posto sul poggio dove si ritiene si sia deciso l’esito della battaglia, tramanda il ricordo dell’evento come uno dei più rilevanti della storia medievale toscana.


La ricostruzione dei fatti avvenuti quel giorno continua a basarsi su testimonianze coeve, come quelle dei cronisti senesi e fiorentini che cercarono di descrivere con precisione lo svolgimento dello scontro. Tuttavia, la quantità di episodi narrati e la forte componente emotiva presente nelle fonti rendono complessa una valutazione completamente oggettiva. Nonostante ciò, gli elementi fondamentali appaiono chiari: la superiorità numerica guelfa, l’efficacia delle manovre ghibelline, il ruolo decisivo del tradimento e la violenza dell’attacco finale. Tutti questi fattori concorsero a creare una delle pagine più rilevanti della storia bellica italiana medievale.


L’esito della battaglia di Montaperti segnò un punto di svolta negli equilibri politici della Toscana del XIII secolo. Lo scontro, durato ore e caratterizzato da ondate successive di combattimenti, rappresentò il culmine della rivalità tra Siena e Firenze e della divisione tra guelfi e ghibellini. Il dominio ghibellino ristabilito dopo la vittoria non fu destinato a durare a lungo, ma il ricordo di quella giornata rimase impresso a fondo nella memoria collettiva delle due città rivali.


La battaglia si impose come un episodio destinato a rimanere nella storia per l’intensità dello scontro e per il massacro che ne seguì. La fuga dei guelfi lungo il torrente Arbia, l’inseguimento senza tregua da parte dei senesi e la quantità impressionante di caduti fecero di Montaperti un simbolo dell’asprezza delle guerre comunali. La narrazione dei fatti, tramandata attraverso generazioni di cronisti, mantenne vivo il ricordo del giorno in cui Siena riuscì a prevalere su un avversario più grande e più potente, grazie alla determinazione delle proprie truppe e alla capacità di sfruttare ogni debolezza del nemico.


Il contesto politico e militare successivo mostrò quanto fosse fragile l’equilibrio ottenuto con quella vittoria. Nonostante la conquista di Firenze e il ritorno dei ghibellini al governo, i mutamenti della politica italiana determinarono un rapido capovolgimento della situazione pochi anni dopo. Tuttavia, la storia della battaglia di Montaperti continuò a essere un punto di riferimento per la memoria collettiva delle due città, un evento che sintetizzava in modo concreto la violenza e la complessità delle lotte comunali.


La battaglia rimase così un episodio centrale nella storia della Toscana medievale, caratterizzato da un intreccio di rivalità cittadine, alleanze mutevoli, tradimenti e atti di coraggio individuale. Il campo di Montaperti, teatro di uno degli scontri più cruenti del tempo, divenne il simbolo di una stagione storica segnata da conflitti che ridefinirono non solo i rapporti tra le città, ma anche l’assetto politico dell’intera regione. I fatti narrati dalle fonti e tramandati nei secoli rappresentano l’ossatura di un avvenimento che continua ancora oggi a essere studiato e ricordato come uno dei momenti più intensi e significativi delle guerre tra comuni italiani.


#storia #divulgazione #firenze #montaperti #guelfi #ghibellini #farinatadegliuberti #dante #divinacommedia

Storia & Dintorni 

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Jack Wong

manco fu capace di battere jack wong figuriamoci ali….. ecco l intervista a wong


Bruce mi disse che non era lì per fare amicizia e che avremmo dovuto combattere per vedere chi era più bravo. Credo che pensasse che avrebbe perso la faccia se non avesse combattuto contro di me davanti ai suoi amici e agli altri presenti.


  Gli ho detto che avremmo solo fatto duello. Ho rapidamente stabilito le regole universali di un incontro: niente pugni negli occhi, niente prese alla gola o calci all'inguine. Lui ha risposto con rabbia: "Nessuna esclusione di colpi. Nessuna regola. Combatteremo fino alla morte".


  Dopo che gli altri si furono spostati di lato, Bruce mi chiese di andare al centro della stanza. Gli tesi la mano per stringerla, come è consuetudine in qualsiasi incontro aperto. Bruce fece finta di offrirla, ma subito piegò le dita come artigli mortali e cercò di cavarmi gli occhi. Il mio rapido istinto gli impedì di danneggiarmi gli occhi, anche se finì per graffiarmi con l'unghia sopra l'occhio.


 Quell'attacco diede il tono al combattimento. Poi iniziò a emettere questi suoni forti e terrificanti - come un fantasma che urla, è l'unico modo in cui riesco a descriverlo. Non avevo mai sentito suoni simili prima in vita mia, e stavano spaventando tutti nella stanza. Continuava a imprecare, urlare e a emettere suoni terrificanti mentre cercava ripetutamente di colpirmi agli occhi, alla gola e all'inguine, tra un pugno diretto e l'altro al petto.


  Erano queste le tecniche che usava di più, e dovevo fare un passo indietro per evitare i suoi attacchi. Era praticamente fuori controllo e cercava di farmi male seriamente. Mi inseguiva, agitando le braccia, ma ogni volta lo schivavo, quindi i suoi colpi non erano efficaci. Dovevo anche creare distanza per poterlo attaccare con le mie tecniche a lungo raggio per contrastare i suoi attacchi.


  A un certo punto, l'ho afferrato mentre mi caricava e gli ho bloccato la testa sotto il braccio sinistro. Entrambe le sue braccia gli caddero lungo i fianchi e tremava per la mia stretta forte. Avrei potuto finirlo con un pugno destro o strangolarlo, ma non l'ho fatto perché temevo le conseguenze se l'avessi ferito gravemente.


 Dopo averlo lasciato andare, si è infuriato ancora di più e ha continuato a imprecare, urlare e fare suoni orribili. Ho davvero pensato che fosse fatto di qualcosa a quel punto. E ho pensato che volesse davvero uccidermi.


  Continuò i suoi attacchi aggressivi ma inefficaci. Finii per bloccargli di nuovo la testa, ma questa volta era in ginocchio. Lo lasciai andare di nuovo, poi lo afferrai di nuovo e gli bloccai la testa per la terza volta. Ma lui rimase pieno di rabbia quando lo lasciai andare. Continuò ad attaccarmi, agitando i pugni. Usai i miei blocchi a mulino a vento e lo colpii tre volte alla testa in rapida sequenza. Barcollò e si girò tre volte e all'improvviso smise di urlare, imprecare e fare rumori.


  Era così senza fiato che non riuscì a proseguire. Fu così che finì l'incontro. Linda Lee scrisse in seguito che l'incontro durò solo tre minuti, ma in realtà durò circa 20 minuti.


  Prima di partire, Bruce Lee mi chiese di non parlare dell'incontro con nessuno e accettai. Ma in seguito si vantò con la gente di aver vinto, motivo per cui lanciai una sfida pubblica sulla prima pagina di un quotidiano cinese locale, invitandolo a combattere contro di me in un'arena aperta piena di testimoni. Non rispose.

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