martedì 30 aprile 2013

Islanda, l’austerity sconfitta


di Mario lombardo
A giudicare dai commenti entusiastici apparsi occasionalmente negli ultimi quattro anni sui media di mezzo mondo, la maggioranza di centro-sinistra al governo in Islanda avrebbe dovuto incassare una chiara approvazione dagli elettori per l’eccezionale equità con cui avrebbe gestito le conseguenze della rovinosa crisi finanziaria che nel 2008 mise in ginocchio il piccolo paese dell’Europa settentrionale. I risultati del voto di sabato scorso, al contrario, hanno inflitto una severissima lezione alla coalizione formata dall’Alleanza Socialdemocratica e dalla Sinistra-Movimento Verde, riportando al potere i due partiti di centro-destra che avevano presieduto al tracollo del sistema economico e finanziario islandese.

La premier socialdemocratica Jóhanna Sigurðardóttir aveva assunto la guida del paese dopo il trionfo elettorale del 2009 sull’onda del diffuso malcontento nei confronti di un governo che aveva messo in atto spregiudicate e rovinose politiche di deregulation dell’industria finanziaria. In un clima simile, le tre principali banche islandesi - Glittnir, Kaupthing e Landsbanki - nel 2008 erano finite per crollare sotto il peso di un debito enorme, costringendo il nuovo gabinetto ad intervenire con la ricapitalizzazione degli istituti in crisi.

Il significato del rovescio patito alle urne dal governo Sigurðardóttir è stato riassunto da un’analisi pubblicata lunedì da Bloomberg News, secondo la quale, nonostante “gli elogi del Fondo Monetario Internazionale per le politiche di gestione della crisi messe in atto dal governo, incluse misure sul controllo dei capitali e l’accollamento di una parte delle perdite ai creditori, gli elettori si sono mostrati più ricettivi verso le promesse dell’opposizione di migliorare le loro condizioni di vita”.

In altre parole, a fronte della linea dura tenuta nei confronti dei creditori stranieri che cercavano il rimborso delle perdite subite con il crollo delle banche islandesi e di iniziative in buona parte di facciata, come la riscrittura della Costituzione o il processo tenuto lo scorso anno ai danni dell’ex premier, Geir Haarde, per le sue responsabilità nel crollo finanziario, anche il governo “progressista” islandese ha in definitiva operato per il salvataggio del sistema economico domestico facendone pagare il prezzo alla maggioranza della popolazione.

Inoltre, se il livello di disoccupazione è attualmente sceso attorno al 5% rispetto al 7,3% del 2009 e a quasi l’8% del 2010, esso rimane nettamente superiore a quello del 2007 e, in ogni caso, la discesa è dovuta in buona parte alla massiccia emigrazione che ha segnato l’Islanda in questi ultimi anni.

Come altrove in Europa, anche il governo di Reykjavik ha poi messo in atto pesanti tagli allo stato sociale, in particolare nei settori della sanità, dell’educazione e dei servizi sociali in genere. Soprattutto, il valore della corona è crollato e buona parte degli islandesi che aveva ottenuto prestiti legati a valute straniere si è ritrovata con un livello spropositato di indebitamento. Parallelamente, l’inflazione ha fatto segnare una sensibile impennata, determinando un aumento vertiginoso del costo dei beni di prima necessità e dei livelli di povertà nel paese.

In questo scenario, i due partiti che hanno formato la coalizione di governo fin dal 2009 (Alleanza Socialdemocratica e Sinistra-Movimento Verde) hanno perso in questa tornata elettorale rispettivamente il 17% e l’11% dei consensi, assicurandosi appena 16 seggi (9 e 7) sui 63 totali dell’Althing (Parlamento) islandese. Pur senza suscitare particolare entusiasmo, saranno così i due partiti di centro-destra usciti vincitori dal voto di sabato ad avere i numeri per mettere assieme una coalizione di governo in maniera agevole.

Il Partito dell’Indipendenza ha superato di solo 3 punti percentuali la propria peggiore prestazione di sempre fatta segnare nel 2009, assestandosi al 26,7%, mentre il Partito Progressista ha ottenuto il 24,4% dei voti e un +10% rispetto a quattro anni fa. Le due formazioni politiche si sono aggiudicate 19 seggi ciascuna e il leader del Partito dell’Indipendenza, Bjarni Benediktsson, dovrebbe ora essere incaricato dal presidente islandese di formare il nuovo esecutivo.

L’elevato astensionismo e lo spostamento complessivo del voto indicano comunque una diffusa sfiducia nei confronti del tradizionale establishment politico del paese. I quattro principali partiti, infatti, nel 2009 avevano ottenuto quasi il 90% dei voti espressi, mentre in questa occasione si sono fermati appena al di sotto del 75%.

Il voto di protesta è andato a due nuovi partiti che non rappresentano alcuna reale alternativa ma che sono stati in grado di superare la soglia di sbarramento del 5%, necessaria per conquistare seggi: il partito Futuro Luminoso (8,2%, 6 seggi) e il Partito Pirata dell’ex portavoce di WikiLeaks, Birgitta Jönsdóttir (5,1%, 3 seggi). Quasi il 12% dei consensi espressi, infine, è andato a formazioni minori che, singolarmente, si sono fermate al di sotto del 5%.

A pesare sull’esito del voto sono state le promesse elettorali dei due partiti che hanno ottenuto i maggiori consensi. Il Partito dell’Indipendenza e quello Progressista si sono impegnati ad abbassare la pressione fiscale, ad intraprendere misure per alleviare il peso degli onerosi mutui contratti da molti islandesi e a rallentare il processo di adesione all’Unione Europea avviato dal governo uscente.

Alla luce della profonda crisi che continua ad attraversare i paesi dell’eurozona, la maggior parte della popolazione vede correttamente un eventuale ingresso del proprio paese nella moneta unica come un’ulteriore seria minaccia alle proprie condizioni di vita. Forti resistenze all’integrazione europea sono manifestate anche dalla potente industria ittica islandese che rappresenta il 10% dell’economia del paese e il 25% dell’export complessivo.

Le ambiziose promesse elettorali, in ogni caso, difficilmente potranno essere mantenute dal governo entrante. Ad esempio, l’eliminazione delle misure di controllo dei capitali per stimolare gli investimenti esteri e la crescita economica rischia di provocare piuttosto una fuga dei capitali stessi, mentre una parziale cancellazione dei debiti detenuti dai sottoscrittori di mutui potrebbe ugualmente avere conseguenze indesiderate, dal momento che, come ha ricordato un economista di Danske Bank in un’intervista a Bloomberg News, “se i loro ‘asset’ venissero intaccati, gli investitori internazionali non lo dimenticherebbero tanto facilmente”.

Lo stesso primo ministro in pectore Benediktsson, subito dopo la chiusura delle urne, ha fatto così intravedere una più che probabile marcia indietro dalle promesse fatte in campagna elettorale, affermando che il suo partito “non avanzerà proposte che non potranno essere attuate”.

Ciò che si prospetta per l’Islanda nel prossimo futuro, in definitiva, sono perciò le stesse politiche anti-sociali perseguite finora, così che gli elettori, dopo avere assegnato la maggioranza in parlamento a due partiti che “hanno promesso la luna”, come ha sostenuto domenica il commentatore locale Egill Helgason in un’intervista alWall Street Journal, scopriranno ben presto che ben poco potrà essere in realtà mantenuto.

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