martedì 11 settembre 2012

L’umano sentire di gente comune




di
Gaetano Grasso


(..) È una fortuna aver letto quando si era ragazzi. E doppia fortuna aver letto libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di storia, libri di viaggi e le Mille e una notte in special modo. Uno può ricordare anche quello che ha letto come se lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha tutta la storia degli uomini e tutto il mondo in sé, con la propria infanzia, Persia a sette anni, Australia a otto, Canadà a nove, Messico a dieci, e gli ebrei della Bibbia con la torre di Babilonia e Davide nell’inverno dei sei anni, califfi e sultane in un febbraio o un settembre, d’estate le grandi guerre con Gustavo Adolfo eccetera per la Sicilia-Europa, in una Terranova, una Siracusa, mentre ogni notte il treno porta via soldati per una grande guerra che è tutte le guerre.
Elio Vittorini



Prima parte

Maria riposava, Anna era uscita con le amiche, Giovanni s’era recato in piazza a divertirsi ed io, prima di raggiungere la mia sposa nel letto, volevo indugiare in cucina. Era domenica 31 maggio e avevamo festeggiato il mio compleanno – che cade martedì 2 giugno - ed eravamo tutti felici. Anche Giovanni, tornato dalla licenza un po’ smagrito, aveva mangiato molto e con allegria: la pasta al forno era buona, le cotolette pure e anche il ‘tiramisù’, fatto apposta dalla sorella, non sfigurava. Lui se n’era mangiate due porzioni, prima di scappar via, giusto il tempo di cambiarsi. La sua divisa era stata stesa da mia moglie sul balcone della cucina ed io potevo vederla, seduto ancora a tavola, gocciolare un poco.
Ne avevo compiuti cinquanta e, per la verità, non me li sentivo addosso che dopo mangiato, come in quel momento; era per questo che, se non bevevo vino in abbondanza, cosa per me rarissima, mi sentivo un po’ triste, benché soddisfatto.
Maria, mia moglie, aveva la mia stessa età, sosteneva di essere invecchiata tantissimo, ma io sapevo che non era vero. Infatti era così ragazza ancora che metteva gli stessi vestiti di Anna, nostra figlia diciottenne. Più giovane di così? E poi, come dice  quella canzone? “Io amo le sue rughe, ma lei non lo capisce.” Ma lei davvero non lo capiva? Non credo che mi avrebbe dato i baci che mi dava se fosse stato così. Voleva solo più comprensione, un po’ d’aiuto in più, sentiva la fatica e desiderava qualche complimento sincero, quanto basta, senza esagerare.
La sera precedente guardavamo alla televisione alcuni genitori come noi, i cui figli erano al confine con il Kosovo.
Tramite telefono e telecamera potevano, aiutati dai giornalisti, parlare ai loro ragazzi. Maria ed io guardavamo questa trasmissione quasi furtivamente. Nostra figlia non voleva, diceva che stavamo facendo una malattia di questa guerra, diceva che non era una guerra, che non ci dovevamo preoccupare per Gianni e solo degli stupidi, come le sembrava che noi eravamo diventati, potevano agitarsi tanto. Noi non la lasciavamo tanto dire, ma queste trasmissioni le guardavamo ugualmente di nascosto. In fondo preferivamo così, che lei non si spaventasse.
In trasmissione c’erano madri come Maria che si commuovevano e genitori tipo me, che sembravano di roccia, ma che faticavano a trovare parole per il figlio; c’erano ragazzi con il fucile in spalla sotto la bandiera che avevano occhi di chi dorme poco, male e in ansia, occhi di chi sa cosa l’aspetta se la situazione precipita, ma che, o perché caporali, o perché truppe scelte, nascondeva con un sorriso la stanchezza e la tensione.
“Come va? Hai ricevuto il pacco?”
“Certo papà, e non va malaccio.”
Ragazzi forse capaci di scatenare una rissa in discoteca per le gambe d’una coetanea qualche settimana prima, quand’erano in borghese; adesso, in divisa, al di là del mare, parlavano da persone responsabili, come fossero stati a scuola a sostenere un esame, con cravatta, giacca e camicia pulita, perfettamente pettinati.
Era un piacere vederli così, ma era anche un piacere sapere che Giovanni si trovava invece in Friuli, lontano, troppo lontano per essere coinvolto. L’esercitazione Nato in Ungheria, a sentir lui, era stata sospesa, quindi tutti noi potevamo stare tranquilli.
Lui se la sarebbe cavata, ne ero sicuro, e non lo dicevo da padre, ma perché ero stato capace di essergli amico e sapevo che mi assomigliava. Non avrebbe mai commesso cattiverie e non avrebbe lasciato nessuno dei suoi commilitoni in difficoltà; ciononostante non avrebbe fatto ‘l’eroe’, cioè non sarebbe stato temerario.
Ma perché non risparmiargli quello che ai suoi nonni era toccato, mi chiedevo? Bombe, proiettili, ospedali da campo, ordini che non arrivano, perdersi in un territorio che non conosci? Non era successo ai tre soldati di ronda americani proprio questo: perdersi, essere catturati e bastonati? Non era forse perché troppo sicuri, o forse troppo temerari, o forse troppo coraggiosi? O persino arroganti? Di qui non si può dire, ma sapevo che Gianni non si sarebbe fatto prendere per arroganza. Se prendevano lui, era perché corso dietro all’amico a dirgli: “Cretino, torna nei ranghi!” L’amico avrebbe riso e la cattura sarebbe stata una disgrazia. Forse lo stesso aveva fatto il sottufficiale americano sul confine macedone.
Lui, Gianni, lo sapevo: non aveva paura. Era minuto com’ero stato io alla sua età, solo che ai miei tempi quelli come me erano considerati giganti. Invece ora ci sono ragazzi in divisa, professionisti o di leva, regolari o irregolari, che con un pugno gli potrebbero fracassare la testa. Gente addestrata, che conosce la boxe e tutti i trucchi, gente dalla quale Gianni era sempre stato alla larga come gli avevo insegnato io e come aveva imparato da solo: usava la ragione, si mostrava sicuro e faceva riflettere anche il toro, se ce l’aveva di fronte.
Ora non so perché quella domenica mi perdevo dietro a questi ragionamenti: lui non aveva niente da temere, in Ungheria non sarebbe andato. L’esercitazione Nato era stata rinviata e forse avrebbe fatto le stesse manovre in Friuli. Così, se la sera non si fosse sentito troppo stanco, sarebbe uscito con i camerati, i compagni di branda, altri ragazzi come lui, amici, a mangiare tutti insieme una pizza. Verso le nove avrebbe fatto risuonare il telefono di casa con il cellulare e noi lo avremmo potuto chiamare.
“Come stai?”
“Uno schifo, non vedo l’ora di andarmene da questo schifo!”
“Uno schifo è la vita militare,” gli dirò, “ma anche fuori è dura, se si lavora onestamente. E tu questo devi fare, quando finirai. Tieni duro e…goditi la vacanza!”
Avremmo riso insieme, e lui avrebbe parlato alla mamma e soprattutto alla sorella. Era lei, di noi tutti, quella che amava di più in questo periodo: lo capiva, gli teneva i contatti, non aveva addosso la nostra paura e non faceva prediche.
Benedetti ragazzi! Uno è bello, due è bellissimo, ma che fatica! Però siamo una famiglia unita. E davvero, pensavo, questa guerra non ci voleva, alle porte di casa, con un figlio in divisa!
A me era toccata nel 1971. Avevo rimandato nel 1969, benché abile arruolato, per gli studi universitari. Ero rimasto indietro con gli esami e così, invece di presentarmi a Orvieto, mi presentai a Baggio, all’Ospedale Militare. Lì poterono constatare che non litigavo con nessuno; che lasciavo mi tagliassero i capelli cortissimi e non frequentavo brutte compagnie. Constatarono che me la cavavo a dama, persino con il sergente; che tenevo in ordine la branda e non pregavo il mattino, ma stavo alzato in piedi, con la testa abbassata, in segno di rispetto.
Il Colonnello mi chiese: “Francesco, dimmi un po’: tu lo vuoi fare o non lo vuoi fare il militare?”
Io, preso alla sprovvista, risposi, senza saperlo, come risponde il soldato:
“Se c’è da farlo, lo faccio, signor Colonnello, ma se posso evitarlo…”
E così: “Vai pure,” fu il suo commento.
E credo che pensò: “Invece del Granatiere facciamo fare il Pompiere a questo Francesco, nell’eventualità capiti una brutta alluvione.”
Per questo feci il servizio militare da pompiere, a Milano, nella mia città, senza bruciarmi mai.
Quando fu per mio figlio Gianni non c’era posto e presentammo la domanda troppo tardi, avevamo un reddito abbastanza elevato, e così per questo lui è Alpino, in Friuli.

Ricordo che nel 1968, mentre mi trovavo in Piazza Duomo per protestare a favore della libertà per la Cecoslovacchia, pensai che se fossi nato moscovita, per età avrei potuto essere su uno di quei carri con la stella rossa. Avrei potuto, pensavo, ma non sarei stato disposto: in guardina, piuttosto, per insubordinazione o in qualche ‘manicomio’, perché invece di un falso socialismo amavo la pace e la libertà. La Pace e la Libertà, l’una condizione dell’altra, reciprocamente, come avrei capito davvero, sapendolo anche sostenere correttamente, solo molto, molto più tardi, ormai insegnante.
Ripensare a quegli anni non mi faceva bene, perché come tutti nel 1989 m’ero illuso che sarebbe cominciata, finalmente, una nuova era: potevamo a Est e a Ovest tutti appendere al chiodo il coltello e usarlo solo per sbucciare le mele.
E invece venne il 1991 in Russia, le due guerre, prima d’Iraq e poi di Somalia, e ora quest’altra, in piena Europa, lungo il Danubio, micidiale, perché si innesta su una crisi civile dai contorni oscuri, che coinvolge popolazioni europee. Ma l’aspetto più terribile non era nemmeno questo, bensì il fatto che potevo essere coinvolto non solo come cittadino – in quanto cittadino lo ero già fino al collo – ma come padre, direttamente.
I figli sono altre persone, non la nostra copia, ma mi sembra che in essi investiamo così tanto di noi, a loro diamo di noi ogni cosa in maniera così esagerata che non riusciamo più a staccarci da loro, come fossero la nostra mano destra. E parlo di padri, come me. Per le madri, poi, è ancora più forte l’attaccamento – per natura – ma anche perché il ricordo della gestazione e del parto è sempre presente, e quindi ‘sentire’ il proprio respiro come quello del figlio, quello del figlio come il proprio, è per loro parte dell’Esperienza, non della Fantasia. Quando è preoccupata per uno dei suoi figli, una madre sente accelerarsi il battito del cuore, le mani cominciano a tremarle e gli occhi le si bagnano di calde lacrime. Così è mia moglie, così, immagino, tutte le mogli che sono madri. Paradossalmente, la mia credo che senta a questo modo anche quando si preoccupa per me, ed è una ragione importante dell’amore che le porto. Ma anche questo suppongo sia la regola, non l’eccezione.
Una volta, ricordo ancora la conversazione, parlando con amici sostenevo che senza l’agosto 1945 non saremmo forse ancora vivi. Paradossalmente alla Bomba dovevamo, secondo me, la nostra esperienza, come cittadini italiani, priva di guerra. E parlavo, naturalmente, della guerra in casa, dei bombardamenti e dei combattimenti tra luoghi e strade conosciuti, di combattimenti accaniti, feroci, senza tregua. Quasi tutto il resto del mondo, lo sapevo molto bene, sanguinava terribilmente: feroci dittature, terrorismo, mercenari sanguinari e morte ovunque. C’erano tra le potenze "bracci di ferro" che mettevano a ferro e a fuoco paesi grandi come la Francia o l’Italia; ma c’era anche spazio per noi, allora ragazzi, di batterci per la Pace, di essere solidali con gli innocenti o coi deboli, solidali, spesso, con chi aveva ragione da vendere.
Ora, pensavo, non era più così. Non solo era incerta la nostra ragione, non solo erano spesso incomprensibili i motivi veri del contendere, perché, paradossalmente, l’enorme quantità d’informazione di cui potevamo disporre si trasformava sempre più in un rumore caotico e confuso, dal quale faticavamo a districare l’essenziale… non solo per questo, ma anche per il peso dell’enorme responsabilità che ci portavamo addosso.
Non avevamo più diciotto o vent’anni come nel 1968, non potevamo chiamarci fuori, protestare come se nulla di quanto avevamo fatto da allora non c’entrasse nulla, come se potessimo ancora dire: “Questo mondo non ci piace!”
Era il nostro mondo ed era quello che eravamo stati incapaci di migliorare insieme a tutti quelli come noi sparsi in ogni luogo del pianeta. Tutti noi, ragazzi pacifisti e rivoluzionari di allora, oggi genitori di questi altri ragazzi che si scannano.
Non il mio per fortuna. Buono d’indole, intelligente e autonomo, stava ai margini. Ma quanta violenza aveva sotto gli occhi? Quanto schifo era costretto a vedere? E quanto di questo schifo lo contagiava? Poco, speravo, ma ero molto preoccupato.
Non fuma, non beve, per esempio, e mi rimprovera continuamente per le micidiali sigarette che mangio. Per fortuna vede che è l’unico veleno che assorbo con regolarità e, purché non glielo butti in faccia, me lo perdona.

È di questo mondo la bellezza e anche la bruttura. Come un cielo stellato e fresco è diverso da uno grigio, cupo, troppo caldo e umido, così ogni cosa. Lo impariamo tutti, ma non ci aiuta. Il vero aiuto l’abbiamo quando dalla bruttura sorge una luce amica, magari frutto di nostro impegno; quando, per sopportare il freddo ci abbracciamo con qualcuno e ci scaldiamo; quando per sopportare la fame, dividiamo equamente il poco o tanto che abbiamo; quando calmiamo la sete allo stesso modo, un sorso a testa; quando comprendiamo che sono queste esperienze a fare della vita quello che è: un’avventura meravigliosa e in certo senso soprannaturale.
Ah, che anno il 1999! Finisce un millennio, finisce un secolo terribile e fantastico, ma noi siamo, come Einstein constatava, ancora primitivi. Ma non era Freud che poteva dargli risposta, secondo me. E nemmeno Darwin, così mal compreso. Cristo, forse. Ma se a Cristo togli la resurrezione, la speranza di una vita migliore in un mondo migliore, se a Cristo togli la sua azione quotidiana, come fosse oggi presente ogni momento, resta solo l’uomo giusto che soccombe.
Forse di questo avrei voluto parlare a Gianni, senza presunzione, come fossi uno dei suoi amici o il suo insegnante, ma sapevo già che non sarei mai stato capace di farlo.

Francesco con questo peso addosso si coricò, finalmente, ma non gli riuscì subito di addormentarsi. Non svegliò sua moglie, nonostante sentisse questa pena addosso, di cui, forse, una carezza di lei e un suo bacio assonnati sarebbero stati la giusta medicina. E quando la donna, tempo dopo, si alzò, Francesco ancora indugiò. La sentì preparare il caffè in cucina, recarsi sul balcone a controllare che la divisa di Gianni si fosse asciugata e sedersi infine. L’immaginò con gli occhiali sfogliare una rivista di annunci che usava per arrotondare il loro reddito: aveva amiche che desideravano cambiar casa, e lei le aiutava volentieri, dietro un onesto compenso per il tempo e la professionalità impiegate a trovare l’acquirente e a combinare l’affare. Sentì, Francesco, il caffè bollire, ma quando vide la moglie sulla soglia della loro camera, prima che lei lo chiamasse, chiuse gli occhi e finse un sonno profondo. Lei non lo disturbò e tornò in cucina. Tenne così, Francesco, gli occhi chiusi a lungo e respirò in modo regolare e riuscì ad addormentarsi davvero, finalmente rappacificato.
Erano le sei del pomeriggio quando si svegliò d’improvviso. Squillava il telefono: era Gianni. Dal parlare della moglie capì che il ragazzo le comunicava che sarebbe restato fuori a mangiare e che anche la sorella l’avrebbe raggiunto,  perché i ragazzi frequentavano ormai da tempo gli stessi amici. Ne fu contento. Era domenica e lui e la moglie avrebbero potuto restare soli come due innamorati appena conosciuti, cenare e poi guardare insieme un programma sulla salute, che tanto piaceva ad ambedue. Come quello sulla vita degli animali, dove queste creature televisive compensavano, coi loro modi e nel loro ambiente naturale, l’artificiosità dell’ambiente urbano in cui erano costretti a vivere.

“Ehi, ti sei svegliato, finalmente! Ne avevi di sonno. Vuoi un po’ di caffè?” disse Maria tutto d’un fiato, quando lo vide alzato, preparandosi a scaldarlo.
E aggiunse: “Ma è naturale: non festeggiamo il tuo compleanno, oggi?”
“Proprio così: cinquanta giusti giusti.”
“Però sembri ancora un ragazzo.”
“E già, per questo ho la barba bianca e se non la taglio ogni mattina per tutto il giorno faccio pena.”
“La barba che c’entra? Parlo di tutto il resto.”
Maria scherzava, ma davvero i suoi complimenti erano sinceri. Lei lo amava sempre più per come era lui stesso, compresi i suoi difetti e le piaceva sempre più stare nella stessa casa con lui, non solo perché era padre dei suoi figli.
“Pensa alla lucidità che sai esprimere a volte, oppure a come sei capace di correre dietro al nostro cane. Pensa a come è fresco il tuo viso dopo che ti sei rasato e…”
“Per te, amor mio. Per te taglio barba e baffi... e mi profumo.”
Francesco l’abbracciò e, lieve, le regalò un bacio.
Sarebbero stati liberi, quella sera, di cenare a lume di candela, liberi di abbracciarsi fingendo che l’indomani non sarebbe stato un lunedì.
E così fecero. Ossia, presero due candele, cenarono sobriamente, finendo il ‘tiramisù’ e dopo la televisione, solo due parole, tanti baci e tanta passione. Quando i ragazzi rientrarono, finsero di non essersi svegliati. Era tardi, ma non troppo. Sorrisero, loro due genitori, e ripresero a dormire fino al mattino.

Quel lunedì, Giovanni doveva rientrare e aveva il treno alle cinque del pomeriggio, come al solito. Francesco, con tutta la famiglia, cane compreso, andò come sempre ad accompagnarlo alla stazione e la sera gli poté parlare, come ogni sera, al telefono. Poi si coricò presto e non volle nemmeno guardare la Tivù: fece un tentativo con un libro, ma spense la luce quasi subito. Come un sasso riposò, perché il lunedì era sempre un po’ faticoso per lui: le ore di lezione lo stancavano di più, e l’inquietudine che aveva addosso, ormai da settimane, gli faceva pesare ogni cosa. Per consolarsi sosteneva di vederla anche negli altri, negli alunni nervosi, nelle colleghe svagate e così mormorava tra sé: “Tutti siamo colpiti e tutti sentiamo di stare muti.”
Certo, c’era qualche cartello appeso in bacheca o qualche titolo di giornale affisso a un muro, ma nessuno si soffermava a guardare troppo a lungo. Tutti si concentravano sul programma, sulle materie e basta: insegnanti, personale e alunni. E Francesco costatava come questa guerra, giorno dopo giorno, stava pervadendo ogni cosa, non solo i ‘media’.
I giornali, in particolare quello che comprava con regolarità, ne parlavano ampiamente, con resoconti giornalieri di inviati e dichiarazioni e interviste e fotografie terribili e racconti di protagonisti. Il suo giornale preferito aveva assunto una posizione decisamente pacifista, ma non solo per questo lo apprezzava. Il titolo di prima pagina, il giorno di inizio della guerra, era stato: "Sangue d’Europa", ripreso da quello di un libro scritto da un combattente, poi rimasto ucciso, dell’ultima Guerra Mondiale.
Francesco condivideva appieno. E raccoglieva ogni numero di questo e di ogni altro giornale gli sembrasse interessante, perché voleva esaminare con attenzione ogni passaggio, perché voleva comprenderne bene le dinamiche. Soprattutto se si stava rischiando, come temeva, di farsi trascinare in una spirale nella quale tutti potevano anche perdere la testa. E annotava ogni cosa gli sembrasse rilevante, cercando di unire i vari tasselli, come si suol dire, in un quadro che rivelasse qualcosa di più della giustezza o meno, dei torti e delle ragioni, dei protagonisti: voleva capire come s’era potuta formare la catena di avvenimenti che stavano sconvolgendogli la vita e oscurandogli il futuro.
Per questo non gli sfuggì la notizia che le esercitazioni in Ungheria si sarebbero fatte ugualmente, come niente fosse, al confine con la Serbia. E fu un colpo per lui. L’intervento di terra, di cui tanto si parlava in quei giorni, con gli elicotteri da combattimento in piena esercitazione sul confine albanese, poteva avvenire in maniera abbastanza rapida e sicura non da lì, ma solo dal confine ungherese. Fu un collega che conosceva la regione a dirglielo, parlandone.
Anche Giovanni, su richiesta, aveva ammesso che erano stati tutti avvertiti, ma aveva aggiunto che il suo nome non si trovava nell’elenco, anche se nessuno dei commilitoni di cui si fida aveva potuto vedere questo famoso elenco. Addetto al magazzino delle armi, sembrava quindi che il ragazzo l’avrebbero lasciato in Italia, in caserma.
Francesco era molto allarmato lo stesso per queste manovre, Maria tremava all’idea. Temevano un sostegno russo diretto in caso di intervento di terra, temevano che fossero coinvolti anche i soldati di leva che, inizialmente occupati in esercitazioni, venissero alla fine impiegati, se necessario, in operazioni di guerra guerreggiata. Un disastro!
Era sempre così, pensai: mio padre non poté evitarlo, mio suocero neppure, e ora tocca al loro nipote, l’unico maschio. Maledetta guerra, porco mondo! E io costretto a non poter far niente. E cosa avrei potuto fare?
E che guerra, poi! Delle peggiori immaginabili, con un odio smisurato lasciato libero d’insanguinare e contagiare tutti i contendenti, quasi non fosse più possibile un barlume di umanità, ma solo sete di potenza! E lui, mio figlio Giovanni, ancora poco più d’un ragazzo, poteva essere spinto a forza a passare quest’inferno.
Sarà forte, mi chiesi? Saprà restare umano, circondato dalla ferocia? E saprà sfuggire al mostro orrendo che tutti ci aspetta, costretto da un ordine a cercarlo?
Accidenti a me, mi dissi, che come lo struzzo non avevo voluto sentirne parlare nel ‘91, quando tutto questo pasticcio era cominciato. Troppo occupato a crescere i miei ragazzi, a portare avanti la mia famiglia, avevo lasciato alle spalle l’impegno di un tempo e assistevo o indifferente o stupefatto a quanto avveniva intorno a me. E così quando la situazione sembrò precipitare, io ne fui così sorpreso da sentirmi un ingenuo.
“Mi sta bene!” dissi a me stesso: “Ora mio figlio è coinvolto e io a far l’anima bella non ci ho guadagnato nulla! Certo, sono un brav’uomo, ma che se ne fa Gianni di me, ora che è solo con il suo destino?”
Però anche l’amarezza che questo mio disinteresse di allora provocava in me, che senso aveva, se non potevo fare niente per lui?
Giovanni diceva che non lo avrebbero mandato, che io e la mamma stavamo esagerando, come sempre, che gli sembrava che c’eravamo un po’ fissati, diceva che non era nell’elenco e basta, non era nell’elenco e basta. Ma intanto non facevano tornare a casa nessuno per quella settimana, e questo elenco non era pubblico in caserma. E sul giornale leggevo che c’erano genitori come noi che facevano, nel modo opportuno, richieste al ministero per sospendere le manovre in Ungheria. Ma al governo furono sordi a ogni argomento, sostenendo che la decisione era stata ormai presa da tempo e i nostri soldati di leva sarebbero partiti regolarmente, perché la guerra in corso non li riguardava affatto, come se invece i loro coetanei di mestiere non stessero combattendo in quel momento. Così dissero che i soldati di leva sarebbero partiti alla data stabilita, per l’esercitazione della NATO, proprio mentre si discuteva di intervento di terra.
Portai Maria e Anna al cinema, una sera. Andammo a vedere: “Salvate il soldato Rayan”. Curiosità mia e di Maria, ma per Anna, soprattutto, lo facevamo: perché capisse meglio che cosa poteva essere la guerra.
Io e Maria ne avevamo letto la recensione sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore. Era stata la descrizione delle scene iniziali dello sbarco a convincere me, la vicenda a convincere Maria. Io volli vedere queste famose riprese e, quando le vidi, compresi meglio di quanto già non sapessi come fosse del tutto evidente che chi riusciva ad arrivare illeso sulla spiaggia lo doveva quasi esclusivamente al caso; e come fosse del tutto evidente che in un’azione di guerra di quel genere - uno sbarco su una costa fortificata -  il valore di ciascuno c’entrava pochissimo con la sicurezza personale. La confusione e il terrore regnavano sovrani in quei casi, e se ardore ci voleva era soprattutto per il sacrificio. Si portava a casa la pelle con meno difficoltà solo se si era inquadrati nella seconda ondata. E mi chiedevo: in quale ondata metteranno Giovanni, nel caso venisse coinvolto, lui che colpisce con disinvoltura il bersaglio, in esercitazione, con la bomba a mano? Non lo metteranno forse in prima linea?

L’indomani Francesco fu nello studio del dott. Gabrieli.
Gabrieli era un uomo minuto, aveva superato i sessanta, portava un pizzo grigio e dei baffi dello stesso colore come fosse ancora un moschettiere; i capelli corti, quasi a spazzola, erano quasi tutti presenti sul capo, dello stesso colore del pizzo: grigio ferro. Per il resto una figura minuta, ma solida, asciutta, abituata alla fatica. Se serrava la mascella e taceva, se gli occhi neri ti fissavano poteva persino farti paura; mentre, uomo buono e medico capace, stava studiandoti per capire meglio come aiutarti. Ti ascoltava, ti visitava e quando finalmente parlava, non solo per farti qualche domanda, potevi ascoltare la sua voce, calda e profonda e sentirti già meglio.
Francesco invece aveva i capelli color del rame, sporchi qua e là come di vernice bianca; gli occhi azzurri avevano la tonalità un po’ stinta di un paio di vecchi jeans; la bocca piccola conteneva qualche perla, ma ormai più opera del dentista che di sua madre; in compenso le mani erano più espressive dei sopraccigli, o completamente fissi o perennemente inquieti; infine un metro e ottanta di un corpo deforme sostituivano l’atleta dei primi vent’anni. Ma il vero tracollo c’era stato a partire dai trentacinque: lì aveva definitivamente acquisito il peso stabile di novanta chili, malissimo distribuiti: il lavoro sedentario e un po’ di pigrizia gli impedivano di sfruttare l’intatta agilità che era, nonostante tutto, riuscito a conservare.
I due si davano del tu, uno insegnate elementare, l’altro pediatra erano quasi colleghi, in campi diversi.
“Ciao, Gabrieli, scusa la quasi irruzione nel tuo studio. Ho bisogno di dieci minuti solamente. Non si tratta di me e non di visita. È che mi sento uno straccio, come poteva sentirsi mio padre nel 1940 o mio nonno nel 1915, per dirla tutta.”
“In guerra? Non siamo in guerra.”
“Peggio, secondo me. Nel quaranta almeno si poteva ‘non belligerare’, nel quindici ‘non intervenire’. Qui ci tirano per la criniera, manco fossimo ronzini riottosi, e ci mettono il morso in bocca, e ci…”
“Calmati, Francesco, non esagerare!”
“Con migliaia di disgraziati perseguitati e costretti a fuggire, scacciati e deportati, con le bombe a grappolo in Adriatico… Ma l’hai vista la faccia del pescatore che s’è ferito, morso come da una tarantola gialla e schifosa mentre si guadagnava il pane? Io l’ho vista l’altra sera, assieme a quella della nonna albanese in carriola spinta da un nipote lacero e affamato. Non le hai viste le donne serbe ballare sui resti dell’aereo abbattuto, con le vesti disordinate, con gli occhi e le bocche di chi non dorme da giorni? E gli altri, giovani soprattutto, con il loro ‘target’ dipinto sul viso o incollato sul cuore, manco fossero i colori con cui i pellirosse si dipingevano prima della battaglia, i colori della morte? Non sembrava anche a te…”
“Calmati. Cosa ti tormenta davvero?”
“Sono giorni che dormo da cani, sono inquieto e provo un disgusto e una paura che non hai idea. Gianni è sotto leva in Friuli, Alpino.”
“Ebbene? In Friuli, mica in Kosovo o in Albania.”
“Già, ma deve fare un’esercitazione. Alla Tivù non ne dicono niente, ma su alcuni giornali se ne parla e proprio il suo battaglione deve fare un’esercitazione Nato in Ungheria tra meno di una settimana. È vero era prevista da tempo, ma mi hanno spiegato che se intervento da terra ci sarà, tatticamente il territorio più adatto a farlo è proprio sul confine serbo-ungherese, perché meno aspro, e potrebbe godere dell’appoggio delle popolazioni ungheresi di confine e di quelle irredentiste in territorio serbo. Insomma, chi mi assicura che il mio ragazzo non sia impiegato a fianco dei professionisti e non vada a rischiare la vita per un servizio che…”
“Stai esagerando. Sono ripresi i negoziati, lo sai bene, e questi sono quelli buoni, vedrai!”
“Dopo il ‘tragico errore’ dell’Ambasciata Cinese?”
“Proprio per quello, Francesco! Non possono andare avanti così. La svolta ci sarà, e non sarà quella che vuole il generale Clark, vedrai!”
Gabrieli scartò una caramella e se la mise in bocca. Francesco se ne fece dare un’altra e lo imitò.
“Il tuo ragazzo non corre pericolo, stai tranquillo.”
“Mi sono portato dei ritagli di giornali. Senti questa: partiranno 60 ambulanze per l’esercitazione. Sono così pericolose queste esercitazioni? Dieci treni trasporteranno i carri, dieci carri a treno come minimo, quanti carri fanno? Questo solo dal Friuli, Gabrieli! Giovanni non ci deve andare. Forse sarà solo per mostrare i muscoli e far pressione, ma si credeva così anche a marzo. Io penso che stiano tutti perdendo un po’ la testa. L’obiettivo dell’operazione, l’hai visto, è ormai apertamente rovesciare il regime di Belgrado, ma quel maiale non se ne va, e…”
“Vuoi calmarti, accidenti! Come parli? E bada, io la penso uguale su alcune delle cose che dici, ma…”
“Ma non hai un figlio in divisa d’Alpino con la valigia pronta.”
“Sei sicuro che manderanno anche lui. Parte tutto il suo plotone o…”
“Giovanni continua a dire che il suo nominativo non c’è nell’elenco, ma l’elenco non è pubblico in caserma. Non ha avuto modo di vederlo. Io temo fortemente che spediscano anche lui. Ma a parte questo, avrà un’ultima licenza, prima dell’Ungheria: sarà qui venerdì. Possiamo fare in modo che non sia costretto a rientrare? Che almeno partano senza di lui, perché ammalato? Per questo sono qui, Gabrieli.”
Gabrieli aveva finalmente capito. Automaticamente guardò il calendario. E disse: “Quando deve rientrare?”
“Dovrebbe fermarsi cinque giorni, quindi il martedì successivo.”
“E lui cosa dice?”
“Che in Ungheria non lo manderanno e di non preoccuparci, ma io per telefono non gli ho parlato di queste notizie che ho raccolto e ho portato a te.”
Gabrieli tacque e fissò Francesco per quasi un minuto. Poi, pacatamente, con la sua voce calda e rassicurante: “Tu sei troppo sconvolto. Ora ti prescrivo qualcosa per dormire meglio. E Maria?”
“Uno straccio. Ma è Giovanni che…”
“Prendetele tutti e due! Sono calmanti ma fanno anche dormire. Prima di coricarvi fatene uso e fra qualche giorno fatemi sapere. Quanto a Giovanni, mandamelo lunedì mattina, parlo io con lui.”


Seconda parte

La Basilica di Santa Maria delle Grazie è troppo famosa e ognuno sulla nostra Terra la conosce, anche per il Cenacolo Vinciano che, nel Chiostro, è ancora conservato. Ma anche per la sua magnifica Cupola e la sua forma armonica, come il corpo di una madre seduta, intenta ad allattare.
Se si arriva da Corso Magenta quest’aspetto può sfuggire, perché sono il Sagrato e la Piazza, ottimamente conservati che suggeriscono che della Chiesa della Madre si tratta.
Così, più fortunati di certi passanti distratti, sono i turisti che giungono dalla Circonvallazione Interna parcheggiando i loro pullman prima della piazza, offrendo ai loro occhi lo spettacolo della facciata, del Sagrato e della Piazza.
La piazza è sempre piena di bambini e bambinaie, nonne e nipoti che giocano con palle e palloncini colorati. Lì nessuno, nemmeno i più grandicelli o quelli già giovanotti, gioca in modo rumoroso o chiassoso, e persino i cani, scodinzolando, si rincorrono tra loro senza farsi male. Tutti di fronte a tanta grazia architettonica stanno come in punta di piedi e sottovoce.
Certo, il tempo mostra soprattutto i suoi bei mattoni rossi e bianchi, più dei marmi pregiati, come il Duomo. Quelli scoloriti e scheggiati dalle intemperie furono presto e bene sostituiti con un restauro intelligente: materiale struttura e composizione originale, usato per cambiare quello logoro solo dov’era veramente necessario. Altrimenti, dove il materiale d’origine s’era conservato ancora in buono stato, un paziente lavoro con il cesello, centimetro per centimetro, lo riportava a vita nuova. Diverso fu per l’Affresco Leonardesco. Occorse persino il calcolatore per misurare attentamente e dosare giustamente i colori. Come molti sanno Leonardo usava colori fini e tenui di sua fabbricazione, che avevano il solo difetto di essere delicati; è così che il Maestro rendeva il pallore del viso o delle mani di Gesù e degli  Apostoli, tenue il colore del vino e quasi grigio il pane.
Allo stesso modo Francesco e Maria avevano il viso e le mani: pallide, scarne e i loro abiti, di tenui colori pastello, sottolineavano non l’ancor bella presenza dei due genitori, abbastanza giovani e sani, ma il tremore di quei loro corpi che li rappresentavano.
Però l’allegro carosello dei bambini, la vivacità dei loro calzoncini o delle loro gonnelline, dei loro palloncini, la voce sottile e acuta dell’estasi del divertimento che provavano, permetteva ai due di avvicinarsi al Sagrato con labbra tremanti, guance esangui, ma con occhi ridenti.
Insieme entrarono nella penombra e il silenzio solenne della Basilica li avvolse. Ma questa volta non si sarebbero soffermati, come in precedenza avevano sempre fatto, ad apprezzare le meraviglie artistiche della Basilica, non si sarebbero diretti all’altare principale e non c’erano funzioni in quel momento. Ad una piccola Cappella laterale preferirono rivolgersi, per sentirsi come in una comune Chiesetta di campagna. Ma allora perché si trovavano lì, e non in quella di quartiere? Noi che li conosciamo bene sappiamo che volevano proprio recarsi nella Basilica Milanese di Maria, Madre e Dispensatrice di Grazie e per questo avevano fatto tanta strada.
Maria, moglie di Francesco, voleva parlarle per il suo Giovannino. Alla Madre di tutte le madri, alla Madonnina delle Grazie, Gentile e Benedetta, da madre avrebbe parlato.
Entrando aveva lasciato il braccio del marito e in punta di piedi s’era segnata con l’acqua benedetta, come se un’arsura terribile provasse nel cuore. Senza il marito - che si teneva a una certa distanza, in segno di rispetto - volle inginocchiarsi sola, là dove lunghe file di lumi bianchi ardevano d’amore e di speranza. Si segnò di nuovo, e recitò, in segno di saluto, muovendo appena le labbra, la poesia bella che fa del Figlio un Frutto e della Madre la Madre di tutti i Peccatori. Poi le s’inumidirono gli occhi e così coprì il volto con le mani tremanti e pallide.
Disse: “Sai, Madonnina mia, che è come se ti vedessi? E che i tuoi occhi dolci di Madre li sento così vicini che per parlarti bisbiglio?”
E: “Tu lo sai, non sempre ti cerco, come adesso, in Chiesa. Ma ti penso sempre, credimi, e da te mi faccio ispirare. Ecco, Madonnina mia, noi tutti siamo preoccupati. Ad agosto Giovannino finisce il suo servizio. Potesse darmi un’altra nipotina, un giorno, come Paoletta, lui, che somiglia tanto a me e al nonno. Lui, dei più giovani di noi, è l’unico maschio. Io lo so che fa il suo dovere, lontano da casa, e anche tu lo devi sapere, se lo vedi di lassù. E ricorderai com’era piccolo e vivace, e quanta fatica abbiamo fatto per aiutarlo a diventare uomo. Un uomo buono, Madonnina mia.”
E: “Ora può correre grave pericolo, ma tu aiutalo! Aiutalo, anche se qualche volta ho peccato, lo sai! Aiutalo se a volte l’avrà fatto anche lui: sarà stato per leggerezza. Perdonalo, Madonnina mia e proteggilo lo stesso, se lo puoi.”
Il sussurro della donna filtrava dalle dita tremanti mentre ogni fiammella di tutti i mille lumi bianchi che si consumavano lì accanto oscillava un poco.
Lì si trovava Francesco, immobile, con il capo chino, silenzioso. In quel momento proprio non riusciva a sollevare il capo che per guardare i lumi. Variamente consumati e di varia grandezza, tutti vivi di fuoco, si consumavano d’amore. Li guardava tenendosi a rispettosa distanza. Presso il candeliere c’era un’urna per l’offerta e un contenitore sempre fornito di lumi d’ogni dimensione: piccoli, per i bambini, grandi per tutti gli altri, infine grossi per chi troppo soffriva e molto aveva bisogno. L’offerta richiesta era compensata dalla buona cera messa disposizione e comprendeva la cura di un’apposita persona che badasse non si spegnessero accidentalmente. L’offerta era l’amore pieno di speranza, non la speranza che attende amore. Francesco non poté evitarsi di notare, infine, che di banconota minima e facoltativa si trattava.
Pensò alla sventura di morire, che tocca a tutti e che potrebbe ora toccare a suo figlio, e come sua moglie stesse piangendo pregando a mani giunte per la stessa paura; pensò alla sventura di morire senza colpa e alla morte di Cristo; e, quasi senza rendersene conto, si trovò a immaginare come in quel momento entrambe le madri stessero, in maniera misteriosa, scambiandosi davvero il cuore e trovassero ambedue conforto nel restare unite.
Lui, Francesco, non aveva dubbi sul destino che tutti ci aspetta: sempre in agguato, sempre pronto a fare con le fibre di noi persone un pasto orrendo; e se potesse dirlo senza trasalire, sosterrebbe che l’anima che ci batte nel cuore si staccherà impaurita e per salvarsi fuggirà smarrita da tanto orrore.
Quando sua moglie si alzò e Francesco le vide prendere un cero e accenderlo, la imitò prontamente. Forse perché sapeva che non nell’eventuale medaglia alla memoria l’anima di Giovanni, Alpino d’Italia, si sarebbe sentita davvero bene e finalmente al sicuro, ma brillando in quelle due deboli fiammelle.
Quando tornarono a casa, i due genitori erano ancora molto preoccupati, ma meno tristi, e con un po’ d’aiuto riuscirono a riposare, quella notte, meglio dei giorni precedenti. Più uniti fra loro, sentendo la loro stessa famiglia, tutta intera, più unita ad altre analoghe.
Per questo Francesco il giorno dopo si recò volentieri da Padre Anselmo, un sacerdote che conosceva da tanto tempo i suoi ragazzi, e Giovanni tanto aveva imparato da lui. Francesco apprezzava nel Sacerdote le molte qualità umane e amava il modo e lo spirito con il quale diffondeva la parola dei Vangeli.
Anselmo possedeva una semplicità di modi che rivelava grande esperienza e sentimenti elevatissimi. Francesco era sempre stato felice che la sua famiglia se ne fosse, in più occasioni, arricchita.

“Caro Padre Anselmo, ci conosciamo da tanti anni e abbiamo parlato di tante cose. Io le rivelai il mio non credere, ma lei lo stesso, da buon amico, seppe accettare di parlarmi, non tanto per aiutarmi a comprendere il mio eventuale errore, quanto per portarmi le parole del Vangelo, nel bel modo che lei ha di porgerle a tutti.
Lei ricorderà quanto io stimi l’insegnamento di Gesù Cristo, nonostante sia convinto di come l’uomo e la specie umana in quanto tali siano una specie naturale tra le altre. Ricorderà, anche, come la vera novità del suo insegnamento consista per me nell’ampiezza che Lui dava al principio: Ama il prossimo tuo come te stesso.
Se voglio riparlarne oggi, è perché in questi giorni mi sono provato a esaminare più in dettaglio questo principio, come se non fosse soltanto un principio cristiano, ma qualcosa di più ampio, che concerne il vivere stesso della nostra  specie. Ho tentato di scomporre la frase che lo contiene in tre parti, esaminandone ciascuna separatamente, in dettaglio, per intenderla meglio. Se vuole glene posso parlare adesso. A me sarebbe di grande aiuto farlo."
"Parla pure, Francesco. Ti  ascolterò volentieri, come ho sempre fatto."
"La ringrazio, Padre. E, vede, per cominciare ho preso in esame la prima parola: Ama. Cosa significa amare, qui? In questa frase, intendo. E così constatavo che provare un sentimento di amore, che sembra la cosa più naturale del mondo, è stato forse sempre, o forse solo per alcuni, una cosa estremamente difficile. E vedevo inoltre che bisogna intendersi.
Nel parlare di ogni giorno si possono ‘amare’ i dolci, non solo le persone, si possono ‘amare’ i fiori o gli animali, non solo le persone. C’è allora un modo di amare che è un ‘preferire’, un ‘gustare’, un modo di ‘amare’ che è ‘provare piacere a guardare’ un fiore, a ‘odorare’ il suo profumo, un ‘amare’ che è ‘giocare’ con un animale al quale si bada.
Amare una persona sembra però essere un’altra cosa, più profonda, più ampia. E mi spiego subito: nel caso dei dolci, dei fiori e degli animali, posso parlare di amore come di una relazione con un ‘oggetto’, mentre nel caso di una persona, devo pensare a un ‘soggetto’.
Credo che in definitiva l’insegnamento di Cristo sia stato soprattutto quello di insegnarci a vedere, sempre e chiunque esso sia relativamente a noi, l’altro uomo come un ‘soggetto’. Un Soggetto che per Gesù è ‘il prossimo tuo’, anche quando non capisce la tua lingua.
Prima di Gesù il prossimo era esclusivamente qualcuno che apparteneva alla nostra gente; dopo Gesù è l’Altro, la creatura umana che non sono io.
Tutto l’Anticristo di Nietzsche, che ho letto recentemente, è una critica feroce, e anche un po’ squilibrata, proprio a questo principio. Nietzsche sostiene che questo modo è un modo astratto di ragionare, quindi innaturale e quindi dannoso. Per lui, credo di capire, posso amare solo chi appartiene alla mia gente, quindi chi conosco, chi ho delle ragioni di amare, non posso amare l’Uomo, perché se sono Tedesco amerò i Tedeschi, molto più degli altri e così via. Questa critica di Nietzsche credo che abbia il suo fondamento in questo: lui conosceva e apprezzava l’opera di Darwin e l’animale, appunto, ama, se così si può dire, chi appartiene al branco e vive nello stesso territorio. Tutti vediamo certi cani che non si conoscono che quando s’incontrano casualmente il più delle volte ringhiano l’uno contro l’altro. L’uomo naturale non sembra essere stato meno feroce, sia che avesse la pelle bianca o scura, gli occhi a mandorla o il naso camuso, sia che vivesse in Europa o in Africa, nelle Americhe o in Asia, ai Poli  o in Australia.
Gesù, però, sosteneva che anche l’Estraneo è uomo, sosteneva che anche lo Straniero è uomo. E che il Dio che adoriamo, non è solo il nostro dio, ma è Dio per tutti gli uomini.
Questo è allargare le prospettive, è avere vista lunga e immaginazione, è essere davvero ispirati! È capire come, al di là delle differenze, ci sia un’identità più forte. L’altro essere umano è quindi come te stesso, non solo perché a guardarlo senza pregiudizi è del tutto evidente, ma perché così vuole Dio, che lo ha creato esattamente come te, anche se coi lineamenti diversi.
Solo che, Padre, lei sa bene come sembrerebbe la cosa più semplice del mondo sapere chi si è, che cosa si è, mentre invece è spesso molto difficile. Io che a volte sono preso da dubbi e contraddizioni, so che mi capita di smarrirmi e non capirmi più. Perché faccio questo? Perché penso quell’altro, se tutto dovrei fare tranne che comportarmi così? Oppure anche: perché sbaglio, non metto attenzione quando costerebbe così poca fatica?
Io che mi affido ai sensi e tendo a credere di essere solo un corpo biologico in mezzo ad altri corpi biologici, che penso all’animo mio solo come ad un modo che ho di esistere e di organizzare il mio corpo, che non credo di essere stato creato ma procreato… io, a volte mi domando cosa sono, chi sono, qual  è la mia natura?
Sentirsi materia non significa sentirsi una pietra. Nemmeno il mio cane si sente così. Lui, anzi, sa benissimo di essere un cane. Ma credo che nel sentirsi cane non sia prevista alcuna relazione interna se non immediata, riferita a qualche cosa di particolare, legata cioè alla soddisfazione di un bisogno per mantenersi vivi e sani. Così mi sembra che lui sappia sempre come comportarsi con la femmina, quando la trova, e riesca persino ad amarla, a modo suo. Sa comportarsi con se stesso e si rispetta, a modo suo, cioè non ha comportamenti autodistruttivi, e così via.
Io, invece, che mi sento essere umano, che possiedo un cervello con una massa e una qualità di gran lunga superiori a quelle di qualsiasi altro vivente, mi rappresento a volte - non l’unico in questo - così: vivo dentro un corpo e vivo il mio corpo come se fosse una cosa fuori di me.
Questo complica enormemente ogni mio comportamento. Cosa significa amarmi, ovvero rispettarmi, se mi sciupo senza criterio, facendomi mancare il sonno? Se non bado alla salute, fumando mille sigarette; se ingrasso enormemente pur non avendo necessità di cibo… insomma, ‘se mi amo così male’, da che dipende?
Eccoci arrivati al punto: Ama il prossimo tuo come te stesso, non è affatto una cosa semplice. E non ci si può facilmente intendere sul significato di queste parole. Eppure secoli di tradizione cristiana ci fanno capire molto bene di che cosa si tratta: avere relazioni interpersonali davvero umane. L’uomo è Uomo, e non un animale qualsiasi, quando sa fare questo, quando questo gli viene naturale.
Già, ma il cristiano chiede aiuto a Dio per riuscirci, ricorda le parole del suo unico Figlio per ispirarsi; l’altro, che cristiano non è, che come me non ha alcun dio a cui rivolgersi, dove può trovare consiglio?
Mi scusi, Padre Anselmo, se parlo così, ma io sono troppo razionale per poter davvero affidarmi  in qualcosa di lontano ed estraneo che agisce su di me purché io abbia Fede. Credo questa un’illusione, che aiuta, non dico di no, anche persone degnissime, come poteva essere Manzoni. Solo che io mi sento come si sentiva Leopardi. Lei che conosce senz’altro entrambi, perché entrambi sono stati sommi poeti e scrittori del nostro paese, capisce che cosa intendo dire.
Recentemente ho letto anche vari testi di psicologia e uno, in particolare, mi ha colpito. Uno scritto di Jean Paul Sartre sulle emozioni, uno scritto del 1939, che avevo trovato anni fa in una bancarella, e che solo nei giorni scorsi ho letto molto attentamente.
Ne voglio parlare solo per un aspetto: nel mio sentirmi materia, pensavo di essere simile a un meccanismo. Mi dicevo: perché un meccanismo puro non può essere anche un meccanismo ragionevole? Ovvero, perfettamente equilibrato e capace di assolvere tutte le sue funzioni?
Dal punto di vista fisico, lo sono infatti. Ho avuto la fortuna di nascere sano e salvo che per una brutta ernia, che forse era congenita, ma che non mi ha ucciso quand’ero bambino, non ho alcun difetto fisico. Allora, perché, meccanismo fisico perfetto, sono preda a volte della disperazione?
Parlando delle emozioni, Sartre sostiene che la razionalità dell’essere umano, quando si trova sottoposto a una forte emozione, viene meno e che c’è una regressione, come un ritorno a un modo magico di vedere se stessi e il mondo. Come se la visione magica del mondo non sia solamente una antica e primitiva maniera, ma al contrario la visione razionale una fragilissima conquista moderna, come se la natura umana non possa evitare di cedere periodicamente a quella sotto la spinta d’un’emozione; una natura umana che non può evitare di precipitare in situazioni e vissuti che spesso la tormentano, ma che non hanno alcuna realtà fisica reale, che non può evitare di provare terrore e paure del tutto privi di fondamento.
Faccio solo un esempio, tratto da Sartre. Di notte vediamo un volto alla finestra illuminato dalla Luna e ci coglie il terrore, come se la finestra non ci fosse e non fosse ben chiusa, come se la vista di un volto umano, e non del muso di una bestia feroce, non rivelasse che si tratta di una persona come noi, che forse sta solo cercando di comunicarci qualcosa e non vuole farci del male.
Sartre sostiene che a volte ci facciamo prendere dal terrore proprio come se la finestra non fosse chiusa, come se non esistesse addirittura. E io sono convinto che sarebbe lo stesso se la finestra, oltre a vetri spessi e serratura chiusa, avesse molte sbarre di ferro a proteggerla e quel volto, quindi, non potrebbe mai attraversarle.
Sartre dice che quando si è profondamente emozionati, come in questo caso, si può urlare di paura, senza rendersi conto che siamo al sicuro. Come avviene nei sogni, dove il mondo non è un mondo regolato da leggi meccaniche, per lo più determinate in maniera univoca e che ormai conosciamo bene: a tale causa, tale effetto.
Sartre dice che è come se d’improvviso lo scordassimo e ad un mondo reale, ben conosciuto e familiare, sostituissimo un ‘altro mondo’, una pseudorealtà in cui le sbarre potrebbero dissolversi.
L’esempio che ho appena riferito dimostra chiaramente che cosa succede: la finestra perfettamente chiusa, le sbarre, che un minimo di razionalità ci permetterebbero di ricordare come fatte di ferro e quindi strumento di nostra sicurezza, diventano non l’ostacolo insormontabile per il volto umano, che forse solo la luce della Luna rende minaccioso, ma si trasformano in noi nella spaventosa cornice di quel volto e possono addirittura accentuarne l’aspetto sinistro. Terribile!
Ecco, in preda a una emozione, a me capita di avere paure simili. Ovvero, devo ammettere che anch’io regredisco fino al punto da avere paure ingiustificate, sentendomi indifeso anche quando sono al sicuro, come se i muri della mia casa non fossero di pietra solida, ma d’aria. Sono costretto a constatare, con Sartre, che non sono un meccanismo naturale così ‘puro e semplice’ e che una visione magica del mondo, ritenuta primitiva, quella dove esistono pericoli irreali, come quelli che il buio e il pallore della Luna possono suggerire senza che davvero agiscano negativamente, è ben presente anche in me, uomo moderno. Quasi che sia il biologico stesso in me a organizzarsi fin dall’inizio nel suo rapporto con il mondo come se questi fosse magico e incomprensibile, oltre che imprevedibile.
Da bambini o quando si sogna, il mondo ci domina e siamo dipendenti da esso totalmente. Nel sogno, da un mondo fittizio che da soli ci creiamo; da bambini anche nella veglia dipendiamo, soprattutto i primi anni, in tutto e per tutto dagli altri. Crescendo, il nostro organismo diventa effettivamente un meccanismo fisico autonomo e perfetto in tutte le sue parti, ma è come se il ricordo di quell’impotenza ci trascini, anche da adulti, a regredire in balia d’un’emozione di paura che può sempre catturarci all’improvviso. Così il mondo non è più lo spazio e il tempo in cui agiamo, ma si trasforma, nell’animo nostro, nell’assurdo e spaventoso paesaggio che ci avvolge nei nostri incubi, come se la Natura che dominiamo tornasse quella terribile e ostile dell’epoca delle palafitte.
È questa la caduta? È qui che il ‘cogito’ cartesiano mostra la sua fallacia? Non perché falso, anzi, ma perché una razionalità come quella del ‘cogito’ è possibile a ciascuno solo in condizioni ottimali.
Nella nostra vita siamo così frequentemente preda di stati d’animo confusi e di paure irrazionali, che a stento riusciamo a scacciarle, quasi fossimo costruiti male, difettosi o inadeguati, come se a destare meraviglia sia a volte proprio il comportamento che si ispira all’amore cristiano. Per me, che forse cristiano non sono, significa intendere l’altro come un soggetto, razionalmente e sentimentalmente, e  non come oggetto di miei desideri o capricci, oppure di bramosia di possesso e di potere.
Caro Padre Anselmo, mi scusi se sono passato da un argomento all’altro, magari in modo confuso. In questi giorni sono molto turbato e credo di essere in quanto uomo ben lungi dal possedere ragionevolezza per natura, come voleva Aristotele. Sono uomo solo a patto di vigilare sempre sulla mia natura con l’insegnamento di tutti gli uomini saggi e onesti del passato e del presente, compreso, naturalmente, l’insegnamento di Gesù. Solo così riesco ad essere uomo davvero. Quando guido la mia natura con la ragione, sapendo che orientare me stesso ed essere pienamente adulto sono tutt’uno; sapendo come operare questa scelta sia conquistare un’altra natura, più profonda, umana.
Lei direbbe angelica. Non eravamo forse, all’origine, secondo la tradizione, angeli di carne? Perché allora siamo caduti? Io credo che la conquista della razionalità sia come la conquista della salute o della forma fisica: per essere vera dev’essere mantenuta.
In questi giorni, compiuti cinquant’anni, sono forse arrivato alla maturità. Per troppo tempo pregi che ho - essere buono e affettuoso o intelligente - sono stati troppo fragili. Non potendo contare sull’aiuto di Dio, per mancanza di Fede, non potendo contare su una forza che mi trascende, ma solo su me stesso e sulle persone che mi vogliono bene, ho cercato nella cultura. Solo così riesco, a volte, ad essere razionale, di una razionalità buona come quella di Cartesio, per esempio, senza scivolare nel pessimismo e nello sconforto come capitava a Leopardi; così posso riuscire ad amare e rispettare la donna che mi sta a fianco, i nostri figli e vedere in essi persone libere e belle; e infine tutti gli altri esseri umani della nostra Terra, secondo il principio di cui parliamo e che tutti dobbiamo a Gesù.
Amare gli altri come se stessi, è credo saper viversi davvero come una Persona e vedere negli altri altrettante Persone.
Rispettarsi e rispettare sono tutt’uno, ma per farlo devo evitare, per esempio, che l’emozione che il sentimento d’amore mi suscita si trasformi in una passione sfrenata e travolgente, capace di farmi vivere momenti di straordinaria intensità, ma che può anche degradarmi e degradare l’altra persona, che smette di essere una persona, per essere solo un oggetto di desiderio.
Non si può amare la propria compagna come si amano i dolci, con fame e appetito; nemmeno come si amano i fiori, per deliziarsi gli occhi o il naso con il loro profumo; tanto meno come si amano gli animali più cari, per giocare con loro. Piuttosto come bisogna amare se stessi, appunto, ricordando sempre di essere una Persona ricca e bella, perché creatura sublime, piena di qualità, unica, insostituibile. In fondo, è quello che si pensa tutti di se stessi, quando siamo sereni: si vedono le proprie qualità come elevate, la propria esistenza nel mondo come un miracolo della Natura, il proprio corpo come la propria raffigurazione e non come involucro, tanto che persino la sorte di un’unghia che ci appartiene ci sta a cuore e se la perdessimo ci sentiremmo mutilati."

Io avevo finito di parlare e come sempre in questi casi avrei desiderato una sigaretta. Ero però nella camera di Padre Anselmo, che tra le altre virtù possiede anche quella di non fumare; eravamo nel Convitto dell’Ospedale in cui altri padri come lui riposavano poco, lavoravano molto e avevano bisogno d’aria sana e pura; infine, se costretto dalle buone ragioni, io posso rinunciare a qualsivoglia dei miei vizi.
Ero felicemente riuscito ad esprimere il mio pensiero, così mi sentivo interiormente sereno, orgoglioso e sereno come dopo una conquista. Fin da ragazzo sapevo molto bene che nulla inventavo e tutto scoprivo, tutto trovavo, e se mi sembrava qualcosa d’importante subito correvo, se potevo, a dirlo a qualcuno. Come me gli altri analogamente facevano. Infatti, soprattutto questo avveniva con i miei coetanei: loro dicevano con le loro parole o mi consigliavano di leggere; io allo stesso modo lo rivestivo di parole mie, come meglio ne ero capace, di personale gli davo solo l’abito che porto.
Ho corso più volte il rischio che vorrei chiamare della Lucciola che si crede più della Luna solo perché la luce è sua. Certo, come una Lucciola non sopporto una Luna che m’umili della mia fioca, debole, intermittente luce, lei che può solo riflettere quella del nostro Sole, certe sere così bene che possiamo vederla chiara e grande all’orizzonte. Allo stesso modo soffrivo a volte ad ascoltare chi si limita a riportare la luce che trova e non cerca di rivestirla dei suoi propri colori, arricchendola di sé. Ciò che riporta può essere splendido e bello, frutto di qualche uomo ispirato del passato o di uno che cammina come noi in questo istante sulla nostra Terra. Un uomo ispirato, magari un uomo antico, che voleva illuminare altri simili a lui, non perché loro fossero ciechi, ma perché c’era veramente troppo buio. Quell’uomo riusciva miracolosamente in sé trovare e fuori di sé scoprire proprio quello di cui parlo: magari una fioca, debole luce, che aiutava tutti a non smarrirsi, a ritrovarsi nell’unione con il Mondo, a trovare l’armonia di stare bene insieme, anche se immersi in una Natura a volte terribile e ostile. Le sue parole sapevano restituire un senso alla vita, anche quando si era immersi nella paura e nella sofferenza.

Il sacerdote aveva nascosto il viso con le mani giunte e per tutto il tempo aveva ascoltato, ascoltato, ascoltato. Lui s’ispirava a Dio, e forse così riusciva a richiamarlo su di sé perché l’aiutasse a trovare le parole. Io non so proprio come Dio l’aiuti, ma penso che lui faccia sempre a questo modo per accoglierlo dentro di sé e donarne la buona novella a chi lo interroga. Non ho mai avuto occasione di vederlo parlare con altri, né ho la più pallida idea di quali argomenti le altre persone abbiano voglia di discutere con lui, per sbrogliarli meglio, se è il caso. Quello che posso dire, per esperienza mia, è che Padre Anselmo, sempre delicato nel parlare, se può cerca nelle Scritture una similitudine adatta, una vicenda che s’accosti, perché sa bene, per studio e formazione, per lunga e faticosa vita e per vocazione, che questi sono argomenti antichi come l’uomo e come l’uomo sempre nuovi e attuali.
“Francesco io ti ringrazio d’essere venuto e credo ti ringrazi anche Dio, attraverso me, perché se dubbi fastidiosi e angosce come queste, gravi e persistenti, ti spingono persino a consumar la vita per liberartene, se dedichi tempo ed energia e scavi nel tuo cuore e nei libri con tanto impegno, se vieni a dirlo a me, come per scusarti d’averlo fatto… Non  voglio deluderti, non voglio che un rifiuto mio ti sembri quello di Dio. Ricordati, però, che questa voce è la mia e se in essa vi parla Dio non è merito mio. Ricordati anche, più delle mie parole, l’affetto che ti porto come Sacerdote e come uomo, prossimo tuo.”
Padre Anselmo disse le sue parole a mani giunte, tenendo ben chiusi gli occhi e ben ferma la voce. Solo quando ebbe fatto questo li aprì su di me, dolci e stanchi, e per un lungo istante li pose delicatamente grandi e brillanti sui miei, divenuti svagati e incerti.
Io non reggo a lungo lo sguardo di nessuno. Ho perso l’innocenza di quand’ero bambino e oggi m’imbarazza uno sguardo altrui che insiste o afferma o che mi chiede assenso. Per tatto evito agli altri quello che sento come un peso per me e per la mia storia mi sono inselvatichito, comportandomi, sotto lo sguardo insistente di qualcuno, come una preda quando si sente sorpresa. Così, se mi trovo immerso, come allora sentivo d’essere con Padre Anselmo, in un tale frangente, quasi me ne vergogno, anche quando di nulla devo, e chiedo scusa. Distolgo i miei pallidi e incerti occhi da quelli del mio interlocutore e li concentro su qualcos’altro: le sue mani, la sua bocca, i suoi capelli, l’abito suo. E se il silenzio persiste, al mio gesto di scusa aggiungo parole.
“Caro Padre Anselmo, io certe volte sinceramente temo di parlare a lei di queste cose. Davvero temo di contagiarla e non vorrei.”
“Tu sei gentile, Francesco, ma non puoi. Per quanto io sia solamente un debole Sacerdote, Dio mi ha fatto dono della Fede generosamente e mi protegge.”
“Ecco,” gli dicevo ancora, “non vorrei proprio. Lei ogni giorno fa tanto bene. Io so per esperienza che le sue buone qualità, l’umanità che sgorga dal suo cuore, la Fede moltiplica e rende durature. Ma non voglio che lei mi fraintenda: a me sembra di scoprire, non d’inventare; io valuto con la ragione cose e fatti, non abbraccio idee e concetti; e senza Fede riesco solamente a sentirmi più solo nel mondo e forse più infelice; non depresso, o annichilito, né tanto meno più alto o più pesante di quello che sono per Natura. Tendo forse a divenire triste, distratto e scemo, indifferente, oppure m’arrabbio inutilmente.”
“Perché il Mondo, Francesco, tu lo vedi solo fuori di te, non nel tuo cuore. Non capisci che il Mondo non è grande, grande è Dio. Non capisci che il tuo stesso cuore non sarebbe il Cuore senza questo Mondo di Dio che lo pervade. Il tuo cuore è ricco perché ti permette la vita, ma senza tutto il Mondo di Dio al suo interno non batterebbe più; senza l’acqua di questo Mondo di Dio sarebbe un deserto; senza la Parola di Dio sarebbe come un cratere della Luna, silenzioso; senza lo sguardo di Dio non avrebbe luce. E la tua ragione non avrebbe sentimento: arida, avara, asettica e asimmetrica spaccherebbe il capello in quattro, come fosse una cosa importante. Nulla apprezzerebbe della sua lucentezza, nulla del suo colore. E così avresti la ciocca di capelli conservata in un libro di poesie d’amore, non l’amore della donna, che quei capelli porta; l’ombra degli uomini che ti passano attorno riflessa sulla parete della caverna dove ti sei nascosto, non le persone che questi uomini sono insieme a te. Non allontanarti, Francesco! Non allontanare il tuo Cuore, intendo. Non essere così umano da poter fare a meno del divino. E bada, non ti esorto, ti consiglio.”

Ascoltavo io, silenzioso. Ascoltavo le parole del Sacerdote, soavi come musica, e mi acquietavo. E in quella piccola camera, seduti uno di fronte all’altro come per dividerci il pane o un bicchiere di vino, c’era davvero questo Mondo di Dio, tutto intero: una sfera straordinaria priva d’incrinature, meravigliosamente sospesa, stupendamente illuminata, ricca di calore, colore e profumi.
Certo, a illuminare la camera del Sacerdote era un paralume di comune fattura, ma ardeva di mille candele per illuminare non pareti e mobili, ma l’animo nostro di creature semplici, uomini comuni. La semplicità, pensavo, era nel clima: né troppo caldo, né freddo, né troppo secco, né inzuppato di pioggia amara. Per questo due come noi, pensavo, potevano, parlando umanamente, trovarsi tra le labbra le parole giuste.

Padre Anselmo aveva finito, mi aveva risposto, ma per essere sicuro che avessi compreso bene e per aiutarmi aggiunse questo: “Dio non è morto, Dio non può morire. Dio è nell’Uomo e fuori dell’Uomo; Dio è nel Mondo, è il Mondo, ma anche più del Mondo; Dio è l’origine di tutto quello che c’è, ma anche la ragione del suo esistere così come esso è. Dio desidera che tu abbia Fede per poterti aiutare meglio, ma se tu non ne senti il bisogno, ti aiuta lo stesso: Lui sa trovare il modo. La tua difficoltà non è che non Lo riesci a vedere, è che gli dai un altro nome: lo chiami Natura, o Universo, o che so io. Ma così facendo, gli togli gli occhi che vigilano su di te, la parola che ti parla all’orecchio, il calore e la serenità che ti regala nel sonno. La Natura non ha orecchie per ascoltarti, Dio sì; la Natura non ha volto in cui specchiarti, Dio sì; la Natura non si occupa di te e alla fine t’uccide, Dio ti mantiene vivo e ti salva. Ora, tu puoi essere così forte, ma spero anche così buono, da credere di poter fare a meno di Lui, senza capire che Dio ti ama tanto che è Lui che non può fare a meno d’aiutarti. E siccome la tua ragione s’è fatta un po’ presuntuosa troverà altre vie.”


Terza parte

Tornato a casa mi pentii di non essermi confidato con Padre Anselmo anche delle mie angosce. Lui conosce tutta la mia famiglia e avrebbe potuto consigliarmi su come aiutare mio figlio. Pensai che parlargli in privato delle mie riflessioni di prima della guerra fosse stato utile, sì, ma solo a me stesso. Non io, però, rischiavo di trovarmi anzitempo di fronte... insomma, non io stavo per attraversare un fiume sotto il fuoco nemico quasi certo d’annegare; non io avrei visto in faccia la falce orrenda della matrigna crudele, quella che, non mossa a pietà, ma per errore, m’avrebbe amputato un braccio o una gamba, mi avrebbe sfigurato il viso. Ed io questo pensavo, nonostante l’ottimismo di Gabrieli.
Lui non aveva torto: le trattative erano questa volta davvero cominciate, ma eravamo quasi a luglio e gli elicotteri da combattimento erano già da qualche tempo arrivati sul campo. Non erano ancora entrati in azione, per la verità. Avevano solo attraversato lo Stivale e ora, minacciosi, mostravano alle milizie armate serbe, che sparavano addirittura al confine albanese addosso ai profughi, quello che le aspettava.
Dubbi sulla manovra congiunta in Ungheria non ce n’erano più, sarebbero partiti forse lunedì o martedì prossimi, quando Gianni sarebbe dovuto rientrare in caserma. Lui per telefono non aveva voluto parlarne più. A me aveva semplicemente detto:
“Ciao, papà, tutto bene. Vorrei parlare alla mamma e poi ad Anna. Mi passi una di loro?”
“Sì, caro. Ti passo subito la mamma, ciao.”
Nient’altro.
Con Maria eravamo d’accordo di non preoccuparlo, per farlo venire a casa venerdì e parlarne quando sarebbe arrivato. Anche Anna, che noi tenevamo al corrente - prudentemente, per non spaventarla – sapeva che non doveva mettere ansia al fratello. La licenza c’era, ma fino al mattino di venerdì poteva essere revocata se il ragazzo si innervosiva e per caso reagiva male o trascurava il suo dovere...
Primo – tutti c’eravamo detti – farlo tornare questi cinque giorni a casa. Era quasi un mese che mancava, lo volevamo con noi. Venerdì all’ora di pranzo saremmo stati tutti insieme, avremmo mangiato le cose buone che facciamo a lui e solo quando sarebbe stato nella sua stanza, con il nostro cane tra le gambe, a godersi una canzone che gli piaceva... solo allora, prima Anna, poi Maria, infine io avremmo fatto un tentativo nei suoi confronti.
Il ragazzo arrivò all’una del pomeriggio, come al solito, sorridente e felice di essere a casa. La mamma, la sorella e il cane s’erano recati alla stazione ad aspettarlo, per tornare insieme allegramente a casa.
Avevo apparecchiato io la tavola, appena tornato da scuola. Tutto era già pronto dalla sera prima, così si trattava solo di riscaldare il sugo e cuocere la pasta, aggiungere mozzarella e metterla in forno, assieme a cotolette e patatine, già cotte anche loro, solo da riscaldare.
Lui era abituato a vedermi trafficare in cucina e sapeva che non facevo meno bene della mamma e così, con la televisione rigorosamente spenta o a sua completa disposizione, avremmo mangiato senza parlare d’altro di com’era bello essere di nuovo insieme.
Così fu. Il cibo si riscaldava mentre Gianni si lavava in bagno e quando ne uscì ancora con il vapore addosso, noi dicemmo:
“Gianni, guarda! É come piace a te, né troppo caldo, né freddo. Vieni così come sei, che altrimenti si fredda troppo!”
Lui allacciò bene l’accappatoio e cominciò a mangiare. Poi prese il telecomando e accese la Tivù, ma quando capitò il Telegiornale subito cambiò. C’erano altri Telegiornali e lui cambiava. Il fatto che nessuno di noi facesse commenti dovette sembrargli strano. Evitò di guardarci e scelse il canale dove le canzoni della sua generazione facevano un gran fracasso allegro e vivace. Tenne il telecomando vicino a sé per poter cambiare di nuovo, se era il caso. Così fece quando la canzone fu troppo melodica e troppo insipida per i suoi gusti, posizionandosi prontamente altrove. Trovò una commedia per ragazzi con attori americani suoi coetanei che s’incontravano, parlavano, andavano in giro, qualche volta ballando, a volte scherzando. C’era un ragazzo dalla pelle scura che sotto braccio aveva una tavola per correre e saltare simile alla sua e che si preparava a mostrare la sua abilità. Gianni alzò il volume, ci guardò e si stupì che tutti seguissimo il programma. Cosparse di maionese le patatine e affondò la forchetta guardando la commedia solo se per lui ne valeva la pena, se lo sportivo collega americano diceva o faceva qualcosa che gli piaceva veramente. Io, volevo vederlo mangiare sereno, smagrito com’era, ed ero contento che si divertisse a quel modo. Sua madre gli porgeva ogni momento una specialità preparata apposta per lui e Anna, l’unica che parlava di noi tre, faceva commenti sulla trasmissione legandoli – solo lei sapeva come – a notizie sugli amici che non vedevano l’ora d’incontrarlo.

Giovanni teneva ancora sua madre sotto braccio. Gabrieli li vide in sala d’attesa, l’uno accanto all’altra, come fossero due ragazzi. Maria aveva un leggero vestito di cotone, semplice e coloratissimo. Le segnava le forme in maniera deliziosa, il busto da ragazza e i fianchi rotondi sulle gambe robuste, accavallate senza timore. Giovanni, per il gran caldo, aveva messo una maglietta colorata, ma non aveva rinunciato ai suoi jeans e alle sue scarpe. Dinoccolato gli si fece incontro, mentre sua madre con un sorriso dolce e amaro seguiva suo figlio come se stesse allontanandosi, con passo svelto, agile e armonioso. Nello studio si sedettero di fronte al medico che disse semplicemente: “Ciao Maria, ciao Giovanni, tutto bene?”
“Tutto bene, grazie,” disse Maria.
“Bene, sì,” aggiunse Giovanni.
“Dormi bene, Maria?”
“Sì, grazie Gabrieli.”
“E tu Giovanni?”
Giovanni sorrise: “Quando dormo non sento nemmeno i cannoni. A casa dormo come prima, un sonno lungo e felice. In caserma, quello che posso.”
“Fai molte guardie?”
“Parecchie.”
“Ti vedo un po’ smagrito.”
Maria intervenne: “Visitalo Gabrieli, vedi se è tutto a posto.”
“Tra poco lo farò. Francesco come sta?”
“Il solito.”
“E Anna?”
“Anna, lo sai, ha compiuto diciott’anni, studia, balla e salta tutti i giorni. Benissimo.”
Gabrieli s’intese con Maria e lei tornò in anticamera per permettergli di visitare il ragazzo.
Per prima cosa il medico fece togliere la maglietta a Gianni e gli ascoltò cuore e polmoni.
“Come va?” chiese Gianni.
“Bene. Dormi troppo poco e basta.”
“Presto finisco.”
“Lo so. Fammi sentire lo stomaco. Sdraiati.”
Gabrieli lo palpò, lo fece risuonare con le dita, poi chiese:

“Ti fa male qui?”

“Solo quando premi forte, Gabrieli.”

“Sei davvero un po’ troppo smagrito, e qui non dovresti sentire dolore.”

“Sarà perché ho appena finito di mangiare.”

“Fai un po’ fatica a digerire. Com’è il rancio?”

“Quasi non lo mangio. Fuori della caserma mangio panini o pizza.”
“E da bere?”
“Al solito, coca-cola o gassosa.”
“Nient’altro?”
“Ogni tanto un liquore o una birra con gli amici. Poca roba solo per far loro compagnia.”
“Mangi troppo poco e dovresti integrare la dieta con frutta fresca o spremute.”
“Mangio spesso banane.”
“Cerca di bere anche molte spremute, Gianni. Ti servono, adesso che fa caldo.”
“Anche la mamma lo dice, ma mi prepara un bricco enorme e mi ci vuole una montagna di zucchero. Non voglio rovinarmi i denti.”
“E tu metti meno zucchero.”
“Non mi piacciono senza zucchero.”
“Non dico senza. Mettine meno! Riesci a berne di più. Ascoltami!”

Poi chiese: “E la gola? Fammi vedere!”

Gabrieli guardò con la lampada e disse: “La gola bene. E il naso?”
“Quest’anno, meglio.”
“Davvero? E qui sulla fronte dimmi se ti fa male se premo.”
“Un poco.”
“Bene. Quest’anno va meglio, vedrai che tra qualche tempo non ti darà più fastidio. Soffrirai una settimana, poi basta più per tutta la primavera e l’estate.”
Gianni fu contento.
Esclamò: “Davvero?”
“Certo! Non sudare troppo i primi giorni, fai le cure e lascia che il tuo corpo e il tuo naso si abituino pian piano. Non affannarti troppo all’inizio. Poi non avrai problemi, stai tranquillo.”
“Allora non è grave.”
“Ma sai quanti?”
“E si rimedia?”
“E cosa ho detto? Certo!”
Il medico tornò a sedersi mentre il ragazzo si rivestiva. Ma quando stava per andarsene, il dottore lo richiamò e lo trattenne: “Giovanni, siedi ancora un momento.”
Giovanni tornò a sedersi.
“Quando rientri?”
“Martedì prossimo.”
“Troppo presto, hai bisogno di riposo e di una cura che adesso ti prescrivo.”
“Non posso.”
“E perché?”
“Non posso restare a Milano, devo rientrare in caserma. Gli altri partono, io resto e devo essere presente. La cura la farò in Friuli.”
“Chi parte?”
“Tutto il reggimento.”
“E dove va?”
“Andiamo in Ungheria per l’esercitazione, ma io non sono nell’elenco.”
“Come lo sai?”
“Il sergente l’ha detto: Giovanni, tu no.”
“E perché tu no?”
“Perché devo restare in caserma al magazzino.”
“Il fatto è che ti vorrei vedere lunedì e poi ancora giovedì prossimo.”
“Lunedì mattina posso, non giovedì.”
“Giovanni rischi un peggioramento e devo visitarti di nuovo. Vuoi guarire di questa cosa, o no?”
“Certo! Ma ormai sono abituato.”
“Vuoi che si cronicizzi?”
“Che c’entra? C’è il medico della caserma.”
“Non parte anche lui?”
“Lui parte, ma resta l’assistente.”
“E non preferisci che ti curi io invece dell’assistente?”
“Certo! Ma non è possibile. Se faccio malattie, poi non torno a casa al tempo stabilito, devo fare tutta l’estate in caserma, mentre io voglio andare al mare con gli amici. Mi aspettano apposta!”
“E quando finiresti?”
“Entro il dieci di agosto.”
“Io ti prescrivo solo una settimana, non tanto tempo. Per le analisi e tutto.”
“Ma così mi congedano dopo il quindici o anche più tardi. Gli amici non possono più aspettarmi e partono senza di me. Come faccio?”
Gabrieli a questo punto disse: “É stato qui tuo padre, settimana scorsa.”
“E perché?”
“Era molto preoccupato per te e non stava tanto bene. E anche tua madre è in ansia e non si sente tanto bene.”
“Lo so, sono in pensiero per questa guerra. É da Marzo che non fanno altro che guardare Telegiornali.”
“Anch’io, Giovanni, da Marzo non faccio altro.”
“Ah, ma allora vi siete fissati tutti! Noi non c’entriamo, è una faccenda che non ci riguarda come italiani. Stiamo solo aiutando della povera gente.”
“Infatti, ma la situazione ha preso una brutta piega, ti pare?”
“Questo sì, ma che c’entro io, che c’entriamo noi del Friuli? Mio padre le ha detto delle esercitazioni, del pericolo e così, vero?”
“Sì, me ne ha parlato.”
“Ma lui è fissato! Dottore, io gli voglio bene, ma lui è fissato. Io non sono nell’elenco.”
“Questo me l’ha detto.”
“E allora? Mica il sergente dice una cosa per un’altra! Lo conosco, è corretto.”
“L’elenco l’hai potuto vedere?”
“Nessuno può, ma credo che sia per non creare invidie, finti malati, ecc. Noi siamo delle pesti, mi creda, dottore.”
Gabrieli sorrise: “É la vostra età!”
“Appunto. Quindi se il sergente dice questo, questo è.”
Gabrieli riprese a parlare con molta calma:
“I sergenti contano, ma contano più i capitani e i generali. Se decidono, in un secondo momento, di  mandare anche te, può dipendere da ragioni che non sappiamo. Tuo padre m’ha detto che sai fare bene il tuo mestiere di soldato e se hanno bisogno di buoni soldati sta tranquillo che manderanno anche te, mentre pulire le armi in magazzino può restare un altro. Io sono stato congedato capitano medico, ai miei tempi. La situazione forse potrebbe farsi grave e quindi è meglio evitare perché temo che soffriresti tanto con i tuoi problemi respiratori in esercitazioni lunghe e complesse, in un luogo dove non parlano la tua lingua, insomma...”
“Ma non sono nell’elenco, le ho detto! Sono esercitazioni, non intervento come in Albania. E poi c’è il capitano medico del battaglione.”
“Certo, ma tu sai bene come in queste situazioni, come all’addestramento, curano chi si fa male davvero, non chi ha i calli ai piedi, capito?”
“Lo so, dottore. Anche quando ho mostrato le lastre e tutto, hanno dato un’occhiata e non mi hanno risposto. Ma io, lo volete capire, non sono nell’elenco!”
Gabrieli comprese che il ragazzo poteva essere convinto in un solo modo: “Fallo per tua madre, fallo per tuo padre, fallo per chi ti vuole bene, come tua sorella. Fallo anche per te.”
E aggiunse: “Hai tutta la vita davanti. Congedato troverai lavoro e il prossimo anno potrai fare tutte le vacanze che vuoi, libero di respirare bene e senza problemi.”
Giovanni chiese: “Quanti giorni hai detto, Gabrieli?”
“Una settimana.”
“E a chi devo spedire il certificato?”
“Prima in caserma, poi ti chiameranno a Baggio, all’Ospedale Militare.”
“All’ospedale?”
“Fanno così con tutti i soldati  del distretto. Lì troverai un capitano medico come me, che cura tutti i militari di Milano, non solo quelli del tuo battaglione. Parlerai con lui.”

Per tutto il fine settimana Giovanni non mi ha quasi rivolto la parola. Con Anna e sua madre conversava, io quasi non esistevo. Non voleva sedersi a tavola e andava apposta a mangiare in camera sua e appena poteva usciva con gli amici. Il tempo era bello e lui si divertiva con loro, tornava sudato e felice, si lavava e beveva litri di gassosa e coca-cola, cercando in frigo quello che gli piaceva, preparandosi a uscire di sera con la sorella. Anna, finiti i compiti, gli dedicava tutto il tempo disponibile e insieme si recavano in qualche locale con amici. Rientrarono tardi sabato e rientrarono tardi domenica.
Il tempo era caldo e si stava bene fuori, ma io e Maria, a parte la passeggiata con il nostro cane, che amava giardini ed erba fresca, eravamo restati in casa i due giorni interi, muti per lo più.

Giovanni aveva accettato i consigli di Gabrieli, aveva il suo certificato tra le mani, il tesserino militare. Era lunedì, il giorno del rientro in caserma, ma noi non stavamo dirigendoci alla stazione tutti insieme, allegramente. Io guidavo, ma eravamo noi due soli, io e Giovanni, e stavamo recandoci all’Ospedale Militare del distretto di Milano.
Giovanni seduto accanto a me guardava la pioggia cadere sulla città. Aveva voluto che l’accompagnassi, nonostante avesse ben compreso dove si trovava e quale fermata della metropolitana doveva usare per raggiungerlo. Voleva che l’accompagnassi perché intendeva dirmi:
“É per te che lo faccio e per la mamma, fissato!”
Per questo non mi guardava mai, ed io evitavo di fumare e che lui fosse costretto ad aprire il finestrino. Attraversammo tutta la città a questo modo.
In quei giorni erano iniziati i colloqui decisivi, ma c’erano difficoltà. L’indomani gli alpini del Friuli sarebbero partiti per l’esercitazione, mentre sul confine macedone truppe Nato si incontravano quasi ogni giorno con truppe serbe. Io lo sapevo dal giornale perché le televisioni erano a completa disposizione dei ragazzi e la nostra rigorosamente spenta. I giornali li nascondevo e li leggevo solo quando lui era fuori casa. Maria aveva sempre qualcosa da fare e io evitavo di riassumere quanto leggevo, anche perché  a volte ero felice che si stesse arrivando ad un accordo a volte mi deprimevo e volevo risparmiare a mia moglie questi alti e bassi.
Giungemmo al portone e io trovai parcheggio proprio lungo il marciapiede lì vicino. Giovanni mi seguiva senza partecipazione. Fui io a suonare e la serratura scattò. Il militare di guardia ci ricevette, ma non volle parlare molto con me. Voleva che Giovanni mostrasse i suoi documenti. Era gentile, ma chiedeva sempre a Giovanni, non a me. Dopo aver telefonato e avvertito chi di dovere, indicò a Giovanni la strada, mentre a me disse: “Lei deve aspettare in sala d’aspetto.”
Una piccola stanza, vuota di mobili e ricca solamente di sedie, con qualche immagine alle pareti che non guardavo nemmeno, mi accolse con il suo silenzio e io mi sentii solo, solo e spaesato, solo e imbarazzato, come fossi stato sorpreso a rubare. Nella stanza non si poteva fumare e così, non riuscendo a stare senza poterlo fare, socchiusi la porta, mi guardai attorno, e accesi timidamente una sigaretta, restando sull’uscio. Riuscii a fare qualche boccata, ma poco dopo il piantone mi vide e mi chiese, sempre cortesemente, di restare in sala d’aspetto. Io ubbidii e, spenta la sigaretta a metà, la conservai in tasca.
Poco dopo fu Giovanni a chiamarmi entrando: “Devo tornare domattina.”
“Domattina non posso accompagnarti,” fu tutto quello che seppi dire.
“Domani prendo la metropolitana,” fu il suo commento.
Risalimmo in macchina e muti come all’andata tornammo a casa. In quel momento partiva dalla Stazione Centrale il suo treno per il Friuli.
Giovanni uscì dalla stazione della metropolitana e trovò subito la direzione. Il viale era lo stesso, ma suo padre non c’era. E nemmeno la pioggia c’era, ma un sole caldo. Il portone metallico aveva lo stesso citofono, ma erano le sue dita che suonavano. Il sole gli illuminava gli occhi chiari e i corti capelli rossi, troppo corti per essere quelli che lui avrebbe voluto portare. Brillavano di luce. La maglietta aderente mostrava gli scattanti muscoli di un ragazzo che sapeva afferrare saldamente un fucile e lanciare lontano una bomba. Braccia che sapevano abbracciare sua madre o la sorella e sollevarle per aria facendole ridere di una paura buona e dolce. Mani magre e nervose che sapevano manipolare qualsiasi cosa: un manubrio, una matita o un compasso, che sapevano danzare sopra una tastiera, che dolci e morbide sapevano accarezzare un gatto o un cane senza fare altro che lisciarne il pelo. Spalle di chi può sollevare pesi o tenere una ragazza addosso per farle meglio guardare il mare. La sua pelle rosa, ricca di piccole lentiggini e il pelo delle braccia ramato era ciò che si vedeva, scoperto, e si riscaldava al sole. Una bocca e un naso regolari e lineamenti ben definiti erano il suo viso, ma gli occhi parlavano, ancora non abituati a simulare, e mostravano un animo pulito. Al suo viso di ragazzo faceva contrasto una voce capace di farsi sentire a distanza come un tuono e capace di mormorare calda e sottile ad un orecchio attento. I pantaloni erano jeans ampi che se cadevano da ogni parte era perché stringevano gambe magre e dure come il ferro; ampi, permettevano anche salti e corsa, sulle scarpe adatte. Era un ragazzo di anni ventuno, che poteva essere già tipografo, grafico o meccanico, e invece era un alpino. Gli toccava, era dura e gli toccava, non era questo il problema. Un pari suo, un fante come lui, gli aprì la porta, come lui quasi in tutto uguale, in una divisa marrone, con mostrine colorate. Giovanni se portava la divisa la portava solo in Friuli, ma chiedeva a sua madre che gliela ricucisse se per caso s’era strappata. Il ragazzo che lo accolse faceva lo stesso. La divisa per ambedue era un vestito come un altro, niente di speciale. Indica solo che il servizio che si svolge fa parte del tuo dovere di cittadino. Insomma, che si deve e basta. Giovanni di fronte al commilitone sentì imbarazzo e mostrò la tessera che diceva la sua matricola. Il fante piantone telefonò allo studio medico e mentre Giovanni aspettava in giardino un’ambulanza passò, verde e marrone, con una croce rossa e la bandiera. Lui la vide senza niente poter dire, senza niente parlare, tutto guardare. Si sentì nel sole e nel tepore di giugno pieno di salute  e vivo come una cosa viva che cammina. Ma non sapeva dire perché il commilitone in divisa gli sembrava più vivo, gli sembrava che meglio potesse camminare. Un altro fante gli indicò la strada e l’accompagnò quanto bastava perché lui trovasse la porta da solo.
Il capitano era stato avvertito del suo arrivo e l’aspettava  sulla soglia. L’accolse e lo fece sedere. Poi, girò intorno al suo tavolo e si sedette a sua volta davanti al ragazzo.
La stanza era bianca, la scrivania era ingombra di strumenti medici e in un angolo c’erano un armadietto pieno di farmaci e un lettino da visita coperto da un lenzuolo bianco.
Il capitano non indossava però il suo camice, ma la divisa con i gradi e le mostrine colorate. Al centro della scrivania, Giovanni poté leggerne il nome: Cap. Davide Lombardi.  I due si guardarono un momento negli occhi e Giovanni s’accorse come il capitano avesse circa l’età di suo padre. Lo udì chiedere: “Come va, oggi, Giovanni?”
“Bene.”
Il capitano portava capelli corti e li perdeva sulla fronte: le tempie grigie facevano contrasto con lo scuro di quelli rimasti sulla nuca. Non aveva né  baffi né barba, piuttosto gli occhi penetranti da dottore, lineamenti da soldato e nessun gonfiore addosso. La sua voce era calma e netta, il suo sguardo buono e sereno.
Giovanni sentì molto imbarazzo. Ora forse avrebbe voluto addosso le sue mostrine di soldato. Invece la sua maglietta bianca, profumata di bucato, le sue braccia scoperte da ragazzo, aumentavano il suo disagio.
Il capitano abbassò gli occhi e lui Giovanni poté respirare meglio. Il capitano lesse, o meglio finse di leggere, un certificato che conosceva a memoria e chiese, senza sollevare lo sguardo: “Conosci da molto il dottor Gabrieli?”
“È il mio medico.”
“Da quanto tempo?”
“Da bambino.”
Il capitano fissò il ragazzo nuovamente negli occhi, con il suo sguardo dolce, e sorrise; ma Giovanni, dopo un istante in cui riuscì a ricambiare, distolse lo sguardo, guardò i gradi, abbassò la testa e studiò le proprie scarpe.
“Dice che hai bisogno di una settimana di riposo. Non stai bene?”
Sempre studiando le scarpe Giovanni rispose: “Così così.”
“Cosa ti tormenta?”
“Non so. Mio padre e mia madre stanno male. Solo mia sorella mi capisce. Il dottor Gabrieli mi ha detto che rischio di deprimermi parecchio, oltre ai problemi di respirazione.”
“Non ti piace la vita militare?”
“Ci sto. Non è che mi piace o no.”
“Vuoi fermarti qui da noi, questi sette giorni?”
“Qui?”
“Sì, qui. Questo è l’ospedale di tutti i soldati come te. Vuoi fermarti qui?”
“Se bisogna… non so.”
“Qual è il problema?”
“Il mio reggimento parte domani.”
“Ah sì? E tu?”
“Il sergente dice che non sono nell’elenco.”
“Non vuoi partire?”
“Io non so. È un’esercitazione che sapevamo già. Ora però c’è questa specie di guerra. Mio padre ha paura, mia madre si dispera e anche mia sorella comincia a preoccuparsi.”
“E tu? Hai paura tu?”
“Io non sono nell’elenco.”
“Quale elenco?”
“Non l’ho visto. Il sergente ha detto che il mio nome non c’è.”
“Quando l’ha detto?”
“Prima della licenza.”
“Hai amici in camerata?”
“Certo, qualcuno.”
“E loro sono nell’elenco?”
“Mi pare di sì.”
“Tu però no.”
“Così ha detto il sergente. Ma l’elenco mica l’ho visto, signor Capitano.”
“Questo ti preoccupa?”
“Signor Capitano mi preoccupa e non mi preoccupa. Sarà come il periodo dell’addestramento. Saremo tanti, saremo in Ungheria. Sarà come l’addestramento.”
“Non t’era piaciuto quello fatto in Friuli?”
“Era dura.”
“E be’? Come doveva essere?”
“Signor Capitano, lei ha ragione, lo so. Io non sono nell’elenco perché qualcuno in caserma deve restare. Il sergente l’ha detto: qualcuno deve restare.”
“Allora perché ti preoccupi?”
“I miei si preoccupano! Parlano di intervento di terra e temono che anche noi… Ma io non ci credo, noi non andremo. E poi, non sono nell’elenco.”
“Ma loro pensano che se non ti mostrano che il tuo nome manca, spediscono anche te. È così?”
“È così.”
“Cosa faresti in caserma?”
“Tengo in ordine le armi.”
“Ti piace?”
“Bisogna stare attenti.”
“Hai paura d’un fucile?”
“Paura no, signor Capitano. È un fucile. Ma un conto è portarlo in spalla, un conto pulirlo e maneggiarlo.”
“Hai spalle grosse. Quanto pesi?”
“Settanta chili.”
“E allora? Non hai già sparato?"
“Certo.”
“E come andava?”
“Bene.”
“E le bombe le hai lanciate?”
“Signorsì.”
“E come?”
“Bene.”
“E in Ungheria non sarà come all’addestramento? Cosa temi?”
“Non so… I miei temono. Non potrò telefonare facilmente, per un mese staremo senza notizie o quasi.”
“Temi per loro?”
“Temo si preoccupino. Guardano la televisione continuamente. Io dico: ‘Spegnete!’ e loro ‘Lasciaci vedere!’ Signor Capitano loro hanno paura per me.”
“E tu?”
“Io? Io non sono nell’elenco.”
“Ma se fossi, diciamo, nell’elenco… avresti paura?”
Giovanni fissò il capitano. Gli occhi dell’ufficiale erano comprensivi, ma l’espressione del suo viso, scolpito sulla sua divisa di soldato, esprimeva fermezza.
“Ci sono i miei amici. Loro non hanno paura.”
“E tu?”
“Io sono come loro.”
Il capitano sorrise, guardò il certificato che conosceva a memoria, poi concluse: “Oggi stai qui da noi, mangi con noi e questa sera vediamo. D’accordo?”
“Signorsì.”

La guerra finì e Gianni concluse il suo servizio in Friuli, senza partire per l’Ungheria. Alla Stazione Centrale di Milano sabato 21 agosto 1999 c’era molta gente che partiva e che arrivava. Noi tutti, con il cane che scodinzolava, aspettavamo vicino alla fontana. Anna aveva sentito il fratello con il telefono cellulare, il treno stava per arrivare, al solito binario. Gli altri genitori lì si trovavano ad aspettare i soldati del suo battaglione che abitavano a Milano. Gianni, invece, per ragioni che solo Anna conosceva, le aveva detto:
“Al solito posto.”
Lì dov’eravamo.
Il nostro cane sentiva gli odori e si divertiva: la sua coda sembrava una bandiera al vento e con i denti rideva a tutti. Gianni, il suo beniamino, stava arrivando e lui era felice e contagiava ogni altro essere vivente: pari suoi, dall’aria severa o mite;  ragazzi e ragazze che partivano per le vacanze o che tornavano; donne e bambini, anziani e signore sottobraccio che passavano e si fermavano a guardare.
Io evitai di fumare: non riuscivo, nella folla, a vedere dove avrei potuto buttare la cicca. La stazione ora è sempre così pulita che è diventata bella ed era davvero un peccato sporcarla, anche solo con un mozzicone.
Inoltre non volevo allontanarmi da nessuno dei miei cari. Anna era stata promossa e la vidi procurarsi un fumetto che le piaceva all’edicola, per portarselo in vacanza con gli amici; Maria, abbronzata per una settimana appena trascorsa al mare con una famiglia di amici – io ero con Anna a casa – tra poco ripartirà con la nostra ragazza per una seconda settimana in riviera; Gianni sarebbe partito l’indomani con i molti amici avevano deciso di aspettarlo. Io solo, stanco come uno straccio appena strizzato, ma finalmente sereno, non avrei fatto vere vacanze. Mancavano dieci giorni alla riapertura del nuovo anno scolastico e avrei avuto l’ultimo anno di corso. I ragazzi erano in gamba e li avevo tutti recuperati, volevo però preparare meglio qualche lezione, in collina, lontano dal rumore e dalla confusione, in compagnia di cari amici in Toscana. Sotto la quercia posta dinanzi alla magione avrei trovato fresco al mattino, ma dopo pranzo avrei potuto prendere il sole in costume su un’ottima sedia-sdraio, e ai miei cari avrei telefonato almeno una volta al giorno, per sentire se tutto procedeva bene…
Ma eccolo: all’improvviso arrivò alle mie spalle, il cane abbaiò felice e mi fece voltare. Gianni fece cadere la sua borsa a terra e abbracciò prima sua madre, sollevandola da terra, quindi la sorella, allo stesso modo.
Poi si chinò sul cane, che prese a saltargli attorno al viso.
Infine mi guardò, alto come me, fisso negli occhi.
“Gianni!” dissi io.
“Papà!” disse lui.
Ci abbracciammo e ci stringemmo forte.
Poi, mentre gli stavo portando la valigia per permettergli di giocare con il cane al guinzaglio, gli chiesi: "Ma che diavolo di maglietta hai addosso?”
E lui: “La maglietta del congedo. Vedi questa? É la bandiera...”

FINE

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