sabato 1 settembre 2012

Creature nude tra i profumi d’Africa

In Madagascar, tra villaggi in cui sembra d’essere risucchiati indietro di secoli, o addirittura millenni, si scopre che la Natura nutre non solo il corpo, ma anche l’anima. Qui anche il sorriso è nudo e, come il delicato profumo di ylang-ylang, seduce con innocenza




Durante i miei viaggi non mi sono mai sentita straniera lontano da casa. E’ come se, ad ogni partenza, cambiassi non solo locazione ma anche pelle, come i camaleonti. E’ una sensazione d’appartenenza, più che di aderenza, perché mi trovo ogni volta in sintonia con l’intera sfera terrestre, cielo e firmamento compresi.
Devo ammettere, però, che ci sono luoghi in cui mi sento più a casa che in altri, come quando ci s’infila un paio di scarpe così comode da non sentirle più. E il Paese che meglio calza alla mia natura è senz’altro l’Africa, perché con i suoi eccessi e le sue contraddizioni mi somiglia e, forse, anche perché qui affondano le radici di un mio lontano passato, che rispondono al ritmo di un silenzioso richiamo.
Quest’armonia nei confronti dell’Africa non coinvolge solo lo spazio ma anche il tempo. Perché ci sono villaggi, laggiù, in cui sembra d’essere risucchiati indietro di secoli, anzi di millenni, e pare di ritrovarsi a vivere come probabilmente vivevano i nostri antenati, ignari di cosa potesse essere il futuro mostro della tecnologia.
Nuda. E’ come ritrovarsi improvvisamente nuda, senza tutto quel superfluo che come ruggine ha col tempo incrostato abitudini e pensieri, fino a diventare un’irrinunciabile necessità. Ci siamo dimenticati di essere stati tutti creature nude in origine ma, forse, i nostri avi devono avere trasmesso nelle nostre cellule tracce profonde di sé, antichi riflessi che possono riemergere con particolare vigore in alcuni di noi.



Quando ho visitato il Madagascar, quest’estate, questa sensazione di nudità, di dignitosa semplicità, è stata inebriante, proprio come i profumi delicati e pungenti dell’isola. Zenzero e cannella, vaniglia e peperoncino, ylang-ylang e caffè, cocco e papaia: queste sono le fragranze che laggiù fluttuano nell’aria e scivolano sulla pelle, lasciando addosso una mescolanza di aromi sensuali e languidi privi di ogni chimica artificiosità. Anche l’aspetto della gente sembra evocare questa diversità di sfumature aromatiche, attraverso le timbriche della carnagione, il colore degli occhi e i lineamenti del viso. Perché il popolo malgascio è un incredibile incrocio di etnie: africana, oceanica e asiatica, un intreccio di frammenti rubati qua e là a ogni cultura, riuniti insieme in un armonioso mosaico.
Nei villaggi appollaiati nella foresta, ho conosciuto diverse persone non ancora corrotte dal turismo orgiastico e, forse anche per questo, istintivamente amichevoli, mai diffidenti né invadenti. Persone gentili, accoglienti, nude di pregiudizi, che vivono immerse nella Natura, confuse con essa, amalgamate ai suoi ritmi. Ogni giorno raccolgono e pescano solo ciò che è necessario, rispettando le leggi e la spontanea ciclicità della vita. E se hanno bisogno di un ‘dio’, scelgono una stella, un animale o una pianta invocando l’intercessione degli avi, perché la Natura nutre non solo il corpo ma anche l’anima.
A volte le persone laggiù nemmeno si distinguono dal brulicante sottofondo vegetale che strangola le strade. Camminano con passo lento, all’ombra di banani, manghi e palme lussureggianti, con enormi cesti stracolmi sulla testa, in perfetto equilibrio come funamboli su un filo invisibile; oppure le vedi sedute sui gradini delle case, accovacciate accanto a galline, anatre e zebù, intente a cucinare, cucire, sbucciare frutti o spaccare le pietre destinate alle case dei ricchi europei. Se non fosse per i parei variopinti delle donne, i bianchi sorrisi dei bambini e qualche timido focolare acceso per cuocere la carne nemmeno ci si accorgerebbe della loro discreta presenza. Soprattutto la sera, al calare del sole, quando il buio rende ogni creatura democraticamente uguale all’altra, loro si mimetizzano, proprio come i camaleonti.
Questi uomini e queste donne dalla pelle lucente, dall’aria affabile e serena, dormono per lo più in capanne senza luce artificiale, costruite con un legno ricavato da una palma particolare. L’albero del viaggiatore, lo chiamano: si tratta di una specie di enorme palma che cresce ovunque nella fitta foresta malgascia, ergendo le sue grandi foglie a ventaglio verso il cielo, come fossero lunghe braccia protese in preghiera. La vita viene anche da lassù, dal cielo, perché, durante i mesi di pioggia, all’interno dei robusti fusti di questa monumentale palma, si accumula l’acqua che, il viaggiatore di passaggio, potrà bere durante i suoi faticosi spostamenti. Acqua e legno, dunque: il primo seme della vita, qui. Insieme a tutto ciò che la terra e il mare generosamente offrono ogni giorno.
Sembra un documentario riciclato migliaia di volte, lo so. Invece è vita che si ripete ogni giorno. Esiste davvero questa realtà così diversa dalla nostra e se la tv o internet ci portano il mondo in casa, non ci portano tuttavia gli odori, i sapori, le fragranze e le emozioni che nascono dal contatto con la gente.



Durante un’escursione all’interno dell’isola, ho conosciuto una signora in particolare che non dimenticherò mai. Si chiama Madame Chanel, così almeno le piace farsi chiamare, anche per evitare a noi europei l’insidiosa pronuncia del suo nome malgascio.
Madame Chanel è un capo tribù. Parla perfettamente tre lingue, malgascio, francese e il suo dialetto, uno dei diciotto diffusi sull’isola. Vive in una piccola dimora fatta di mattoni, non di legno, e questo la fa ricca, una dimora immersa in una delle tante piantagioni di ylang-ylang dell’isola. Il profumo che emana dalle piante qui è violentemente dolce, reso più sensuale dal calore del sole. La signora ha invitato in casa sua me e la mia sapiente guida per mangiare insieme il dolce di riso appena cucinato, mostrandoci con orgoglio il suo giaciglio e soprattutto la piccola televisione che un italiano residente qui le ha regalato tempo fa. Ovviamente la sua dimora non ha corrente elettrica ma a lei piace tanto guardare quella scatola nera senza vita, mentre stesa nel suo letto di paglia e cenci probabilmente scorre film immaginari nella mente.
Questa signora, in gioventù, ha lavorato con Coco Chanel – ecco il motivo della scelta del nome - quando negli anni ’40 viveva qui, distillando essenza di ylang-ylang in una fabbrica ancora esistente e florida. Oggi, questa signora dal sorriso materno ha 85 anni, un’età insperabile per la gente di qui. Vive con una pensione equivalente a circa 70 euro che riceve ogni tre mesi, e anche questo è assai raro per queste parti, per ciò si sente fortunata. Ma, soprattutto, la signora vive della gentilezza di quei pochi turisti che osano avvicinarsi a lei e alla gente come lei, turisti che voltano le spalle alle spiagge languide, ai tramonti romantici, all’opulenza e all’artificiosità dei resort per addentrarsi nel cuore autentico, intricato e contraddittorio, di quest’isola profumata.
E’ vero che ogni escursione può rivelarsi un’incursione, e il moderno turismo può trasformarsi in colonialismo. Inevitabilmente la mia presenza in questi villaggi e il contatto con questa gente hanno provocato delle conseguenze, cambiando qualcosa anche in loro, non solo in me. Tuttavia, credo che la gentilezza e il rispetto siano il denominatore comune a ogni rapporto umano, comprensibile al di là d’ogni linguaggio. Perché il sorriso è nudo e, un po’ come il profumo delicato di ylang-ylang, seduce con innocenza ricamando piacevoli ricordi.
Quindi, se il contagio tra culture diverse è fatto innanzitutto di nudi sorrisi, non dobbiamo sentirci in colpa, né avere timore, piuttosto avremo tanto da imparare e da scambiare, in un reciproco umile arricchimento.
Ciascuno di noi porta in sé un universo e nel mio, ora, insieme ai profumi d’Africa c’è anche Madame Chanel con il suo dolce di riso e il suo dolce sorriso. Prima di salutarla, le ho promesso che avrei raccontato di lei una volta a casa e le ho chiesto il permesso di mostrare la foto del suo viso, insieme a quella della sua casa. Ne è stata entusiasta e mi ha ringraziato con tanti timidi merci accompagnati da lievi assensi del capo, simili agli inchini delle geishe giapponesi.
Ora sono io a ringraziare lei per avermi fatto sentire a casa in casa sua e per avermi concesso il piacere di trasformare profumi evanescenti in un piccolo racconto, che spero possa contagiare positivamente anche per chi, per caso, un giorno lo leggerà.




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