E’ il nostro fiore all’occhiello.
E’ forse l’unica grande azienda italiana, leader
planetario nel suo specifico settore merceologico, ad essere virtuosa,
solida, in espansione. Presente in 132 nazioni, ha 75.560 dipendenti, di
cui 62.000 addetti che producono nel territorio della repubblica
italiana. Non ha neppure un cassintegrato e non ne prevede. Il suo
titolo quotato in borsa, soltanto nel 2012, è schizzato in avanti del
32%: unico titolo in positivo. Il suo fatturato si aggira intorno ai 7
miliardi di euro, superiore di un +13,1% rispetto all’anno precedente.
L’azienda è nata nel 1961, ad Agordo, in provincia di Belluno, dentro un garage.
La storia di questa fabbrica e del suo ideatore e
fondatore è studiata oggi nel corso di management industriale
all’università di Harvard come esempio pratico e vincente “del miracolo
economico italiano che coniuga impresa, creatività, rischio, con una
ricerca accurata del design, del gusto e del dettaglio che nasce
dall’applicazione della tradizione artigiana locale”.
L’azienda non ha mai visto uno sciopero, né uno scorporo, né proteste.
Si chiama LUXOTTICA. Produce lenti per occhiali e li
vende in tutto il mondo. Tra i suoi clienti più famosi la polizia
stradale della California (i celeberrimi CHIPS) l’esercito cinese, tutta
la linea occhiali di Christian Dior e Yves Saint Laurent. Produce in
Italia e vende in Cina.
Il suo proprietario e fondatore, Leonardo Del
Vecchio, nato nel 1935 a Milano, è poco noto alla massa degli italiani.
Ma il suo nome è un mito in Usa, Germania, Gran Bretagna, Cina.
La sua frase più recente? “Non investiamo neppure un
euro nella finanza, perché noi sappiamo come produrre, come inventare
mercato, avendo come fine la ricchezza collettiva della comunità,
altrimenti questo lavoro non avrebbe senso”.
Alieno da conventicole, complotti, schieramenti
politici di parte, corteggiato da sempre sia dalla destra che dalla
sinistra (“no grazie, non mi piacciono i balli a corte” ha risposto
all’ultima preghiera-convocazione alle elezioni politiche del 2008 sia
al PD che al PDL che alla Lega Nord) è uscito allo scoperto per la prima
volta nella sua esistenza, violando il suo codice personale fatto di
discrezione, poche chiacchiere e molto lavoro intinto di creatività.
“Basta con i manager mitomani finanzieri” ha detto al
giornalista Daniele Manca in una esplosiva intervista pubblicata sul
corriere della sera qualche giorno fa, non a caso, in Italia,
volutamente passata sotto silenzio e rimasta priva del dibattito che
avrebbe meritato.
Ma non all’estero.
Soprattutto in Usa e in Gran Bretagna dove la
situazione italiana è seguita con estrema attenzione, perché Del Vecchio
sta spiegando come funziona l’Italia, anzi….come non funziona l’Italia e
perché, allertando il business internazionale che conta sulla
situazione nel nostro paese. Vox clamantis in deserto, la sua opinione è
fondamentale, soprattutto in questo momento, e per una ragione ben
specifica: perché Del Vecchio è sceso in campo (non ama e non ha bisogno
di visibilità) andando all’attacco del cuore della finanza italiana.
Qualche notizia biografica su di lui tanto per capire che tipo sia.
All’età di sette anni rimane orfano, insieme a
quattro fratelli. Provenendo da famiglia disagiata, i fratelli vengono
dati in affidamento. Lui, invece, finisce nei Martinitt, l’orfanotrofio
milanese per poveri. All’età di 15 anni, con il diploma di scuola media,
esce e va a lavorare come garzone di bottega in una fabbrica che stampa
marchi di metallo. I proprietari del negozio lo aiutano e lo spingono a
iscriversi ai corsi serali all’Accademia di Brera per studiare design e
soprattutto incisione. A ventidue anni si trasferisce nel trentino dove
trova lavoro come operaio in una fabbrica di incisioni metalliche e
impara il mestiere. Dopo sei anni, all’età di 27 anni, riesce a ottenere
gratis un enorme garage e capannone abbandonato nel comune di Belluno,
di proprietà della regione, con la consegna di avviare un’attività per
assumere personale proveniente dalle comunità montane più disagiate. E
inizia, insieme a due collaboratori, a tirar su l’impresa: fabbricare
occhiali all’italiana, con montature originali artigianali d’eccellenza,
incise a mano, e lenti molate da lui personalmente. Vent’anni dopo è
una florida azienda e va all’attacco del mercato statunitense che gli
mette potenti sbarramenti. Li supera tutti. Stende la concorrenza più
competitiva che si arrende. Acquista i tre più importanti marchi Usa e
diventa la più potente multinazionale al mondo nel settore della
produzione di occhiali. Dal 2002 è leader incontrastato.
Oltre ad essere il maggior azionista di Luxottica è
un importantissimo grande azionista di Unicredit e soprattutto le
assicurazioni Generali. Data la sua posizione è sempre stato nel
consiglio direttivo del colosso assicurativo. Tre giorni fa (ed ecco
perché ne parliamo e lui ha deciso di parlarne al pubblico) si è
dimesso, se n’è andato sbattendo via la porta, con un clamoroso atto
d’accusa: “la mia è una protesta contro il management imprenditoriale di
questo paese, composto da individui superficiali che non sanno nulla
del loro lavoro, sono semplici contabili mitòmani. Mi sento davvero a
disagio. Il vero problema è che quando da assicuratori si vuole
diventare finanzieri comprando le più disparate partecipazioni senza
comunicare nulla ai propri azionisti, non si fa un buon servizio né per
l’azienda, né per gli azionisti, né per il paese. Mentre questo è un
periodo in cui ciascuno dovrebbe fare il proprio dovere, ovverossia:
fare ciò che sa fare. E chi crede che lo spread sia domato, si sbaglia
di grosso. Basta un nulla per farlo schizzare a 600 e mandare la nazione
a picco. E’ ciò che stanno facendo gli imprenditori italiani e le
banche e i colossi assicurativi perché insistono nell’investire nella
finanza: il rischio è alto ed estremo”.
La considero una voce fondamentale da ascoltare, quella di Leonardo Del Vecchio.
Sulla quale riflettere. Perché l’Italia ha bisogno di
un incontro tra imprenditoria efficace, efficiente e virtuosa da una
parte e mondo del lavoro dall’altro, uscendo fuori dalle consuete
griglie di protesta che finiscono per coagulare dissenso e indignazione
uscendo fuori dalla immediata necessità di emergenza di costruire
alleanze solide tra le due parti sociali.
Del Vecchio è sceso in campo.
Nel modo giusto.
Non scende in campo appoggiando un certo partito, né
movimento. Non ama Monti e non lo odia. Non vuole entrare in politica
come soggetto. Vuole dare uno scossone al mondo dell’imprenditoria. La
sua voce è da diffondere.
Perché il suo curriculum professionale ed esistenziale è il suo biglietto da visita.
“Il problema dell’Italia nasce quando si vuole fare
finanza. Quando, le aziende, usando i soldi degli investitori e
soprattutto dei risparmiatori, comprano un pezzettino di Telecom, e un
pezzetto di una banca russa; si mettono a repentaglio –come nel caso
delle assicurazioni Generali- ben due miliardi di euro alleandosi con
il finanziere ceko Kellner e ci si impegna con la Citylife in una
percentuale che nessun immobiliarista al mondo avrebbe mai accettato,
com’è avvenuto nel 2009 quando hanno investito 800 milioni in fondi di
investimento greci. Miliardi di euro sono andati in fumo. Erano soldi di
imprenditori italiani che avevano investito con l’idea di poter poi
spostare i profitti nel mercato del lavoro per tirar su imprese e creare
lavoro. I manager responsabili di questi atti perdenti sono stati tutti
promossi e saldati con stipendi multi milionari. Non si va da nessuna
parte, così”.
E’ impietoso, Del Vecchio. Picchia duro. E se lo può
permettere. E parlando al canale televisivo di Bloomberg, quando un
giornalista americano gli ha fatto la domanda da 1 milione di dollari
“Lei come si pone rispetto all’articolo 18 che in Italia è il punto
dolente nello scontro tra imprenditori e lavoratori?” ne è uscito in
maniera impeccabile. Ha risposto: “Un dibattito inutile, fuorviante.
Personalmente, ripeto “personalmente” non mi riguarda. Su 65.000
lavoratori italiani che pago ogni mese, non c’è nessuno, neppure uno che
rischia il licenziamento. Che ci sia l’art.18 così com’è, che venga
abolito, modificato, cambiato, per me è irrilevante. La mia azienda
funziona e ogni imprenditore -parlo di quelli veri- ha come sogno
autentico quello di assumere e non di licenziare. Il paese si rialza
assumendo non licenziando. E la colpa è delle banche”.
E’ la prima volta che un grande imprenditore, un
grande finanziere, un grande industriale, attacca frontalmente le banche
italiane. E qui non si tratta dei bloggers che odiano Goldman Sachs o
dei consueti slogan contro la finanza internazionale. Perché Del Vecchio
attacca la gestione inconcludente delle banche, affidata a “personale e
personalità poco affidabili”. Racconta la parabola di Alessandro
Profumo che lui presenta come una favola con un brutto finale, senza
fare pettegolezzi o scandali.
“Finchè Unicredit e le Generali facevano le banche
andava bene. Poi si sono buttati nella finanza e hanno perso la testa.
Ho visto sotto i miei occhi trasformarsi Profumo. Partecipazioni,
fusioni, investimenti a pioggia inutili e perdenti, con l’unico fine di
agguantare soldi veloci e facili invece che produrre impresa con l’unico
risultato di ottenere perdite colossali e bonus di uscita per diverse
decine di milioni di euro. Le banche italiane hanno perso la testa.
Ricordo il 1981. La mia azienda, dopo 20 anni, era diventata forte e
solida. Avevo capito che la globalizzazione era alle porte e bisognava
andare all’attacco del mercato americano. Ma non si cerca di entrare in
Usa se non si è solidi finanziariamente. Abbiamo fatto le nostre
ricerche e analisi e alla fine abbiamo calcolato che avevamo bisogno di
una certa cifra molto alta. Mi rivolsi al Credito Italiano. Andai a
parlare con Rondelli che la dirigeva. Gli dissi che volevo iniziare
acquistando Avantgarde, un marchio americano che sarebbe stato il
cavallo di Troia, ma non avevo i soldi. Presentai il progetto, il
business plan, il programma, i rischi. Dieci giorni dopo mi convocò alla
banca. Accettò. Mi presentai in Usa che mi ridevano in faccia. Dissero
la cifra. Tirai fuori il libretto di assegni e firmai senza neppure
chiedere lo sconto di un dollaro. Due ore dopo, l’amministratore
delegato di Avantgarde mi confessò al bar penso di aver commesso il più grande errore professionale della mia vita e
si ritirò dagli affari. Un anno dopo avevo restituito alla banca tutto
il capitale con gli interessi composti, avevo aperto quattro nuovi
stabilimenti e assunto 4.500 persone. Questo deve fare una banca. O in
Italia lo capiscono e si danno una smossa, oppure si rimane alle
chiacchiere e si affonda”.
Del Vecchio spera e auspica che Monti intervenga
molto presto nel settore che lui (e Corrado Passera) conoscono molto ma
molto bene: banche e finanza italiane. E propone di far applicare un
codice ferreo di regolamentazione comportamentale che imponga a tutti
gli amministratori delegati di banche, fondazioni e aziende, di riferire
come usano i soldi.
“Alle Generali l’amministratore delegato poteva
disporre investimenti fino a 300 milioni di euro senza comunicare niente
a nessuno. Lo stesso a Unicredit, Intesa SanPaolo, Mps. La verità è che
nessuno sa dove vanno a finire quei soldi, dove siano andati a finire i
soldi. La mia azienda alla fine dell’anno si ritrova circa 700 milioni
di euro da investire. Andrea Guerra che è il mio amministratore ogni
volta che deve spendere cifre superiori a 1 milione di euro, informa
ogni singolo membro del consiglio e manda copia a ogni importante
azionista. Pretende di avere delle risposte e pretende che si discuta
del suo investimento perché vuole sapere l’opinione di tutti, compreso
il collegio sindacale interno e il rappresentante sindacale dei
lavoratori dipendenti. Perché l’azienda è anche loro. Il loro posto
dipende dalle scelte di chi dirige. Ogni decisione presa viene valutata
collettivamente. Se si rischia, lo sanno tutti, l’hanno accettato. Non
esistono mai sorprese. Questa è la strada. Non ne esistono altre. O si
fa così, o si chiude tutti quanti, baracca e burattini”.
Perché la classe politica italiana non si fa carico
delle gravissime preoccupazioni di imprenditori come Del Vecchio e non
interviene in proposito?
Non stanno lì in parlamento ad appoggiare un gruppo
di professori nel nome delle imprese e della ripresa economica? Se non
ascoltano i leader che producono, che senso ha? Dov’è il Senso?
Ho pensato che potesse essere interessante una voce
insolita, diversa dai precari, dai disoccupati, dai licenziati, che
vivono ogni giorno la propria tragedia esistenziale. Il nemico non sono
le imprese. Il vero nemico è la sordità di governanti e politici che non
ascoltano chi produce e conosce la verità del mercato.
Quello è il vero nemico.
Quella sordità è l’anti-politica. Che cosa c’entra Beppe Grillo?
Nessun commento:
Posta un commento