venerdì 5 dicembre 2025

Caccia alle streghe

 


C’è una tendenza sempre più diffusa, soprattutto nei contesti mediatici, divulgativi e militanti, a presentare la caccia alle streghe come una sorta di genocidio di genere ante litteram, una persecuzione sistematica delle donne in quanto tali, organizzata dal patriarcato per reprimere l’autonomia femminile. Secondo questa narrazione, le streghe sarebbero state guaritrici, levatrici, donne libere, custodi di un sapere alternativo e “naturale”, eliminate perché minacciavano l’ordine maschile, clericale e autoritario. La caccia alle streghe diventa così un mito fondativo, una preistoria della violenza misogina moderna, un simbolo eterno della paura maschile verso le donne indipendenti. È una narrazione seducente, emotivamente potente, politicamente spendibile. Ma è anche, nella sua struttura portante, storicamente falsa, metodologicamente scorretta e intellettualmente disonesta.


Il primo problema di questa lettura è che tratta la caccia alle streghe come un fenomeno unitario, compatto, dotato di una sola causa, di un solo movente e di un solo bersaglio. In realtà, ciò che chiamiamo “caccia alle streghe” è un insieme di fenomeni giuridici, religiosi, sociali e politici che si sviluppano in modo disomogeneo tra il XV e il XVII secolo, con enormi differenze tra regioni, Stati, confessioni religiose, sistemi giuridici e strutture sociali. Non esiste “la” caccia alle streghe: esistono molte cacce alle streghe, con dinamiche spesso divergenti. Ridurle tutte a un unico schema patriarcale significa rinunciare in partenza a capirle.


Il secondo problema, strettamente connesso al primo, riguarda il rapporto tra genere e persecuzione. È vero che nella maggior parte dei contesti europei la maggioranza degli accusati di stregoneria furono donne. Ma “maggioranza” non significa “totalità”, né automaticamente “persecuzione di genere”. In molte aree dell’Europa centrale e settentrionale la percentuale di uomini accusati e condannati è altissima, in alcuni casi maggioritaria. In Islanda, in Estonia, in Finlandia, in molte regioni della Svizzera e della Germania, la stregoneria è un crimine che colpisce uomini e donne in modo tutt’altro che sbilanciato. Esistono intere ondate persecutorie quasi esclusivamente maschili. Se la caccia alle streghe fosse stata un progetto ideologico coerente di repressione delle donne in quanto tali, questi dati sarebbero semplicemente inspiegabili.


La spiegazione per cui siano state accusate più donne che uomini non risiede in una volontà astratta di annientamento del femminile, ma nella struttura concreta delle società rurali e proto-moderne europee. Le accuse di stregoneria nascono quasi sempre da conflitti di vicinato, rancori, sospetti, tensioni economiche, gelosie, invidie, liti per eredità, pascoli, debiti, relazioni. Colpiscono più facilmente le figure socialmente marginali, isolate, percepite come ambigue o pericolose. Le donne anziane, vedove, povere, senza protezione maschile, rientravano spesso in questa categoria. Non perché rappresentassero una minaccia emancipativa al patriarcato, ma perché erano esposte al sospetto, prive di reti di difesa, vulnerabili dal punto di vista sociale e giuridico. La spiegazione è sociologica, non ideologica.


Un altro mito durissimo a morire è quello della strega come guaritrice, levatrice, scienziata mancata, custode di un sapere femminile represso dalla Chiesa. Anche questa immagine è in larghissima parte una costruzione moderna, proiettata retroattivamente su un passato che non corrisponde. Nella stragrande maggioranza dei processi di stregoneria, le accuse non riguardano la medicina, la cura, la conoscenza delle erbe, ma il maleficio: far morire il bestiame, causare malattie, provocare impotenza, distruggere raccolti, far morire bambini. La strega non è vista come una guaritrice repressa, ma come una criminale soprannaturale. Le levatrici, inoltre, furono molto meno perseguitate di quanto si racconti: in molti contesti erano figure protette dalle autorità, proprio perché indispensabili alla comunità.


La caccia alle streghe non nasce dal basso contro un potere femminile emergente, ma dall’alto come costruzione teologica e giuridica. Il passaggio decisivo non è la paura del sapere delle donne, ma l’elaborazione dottrinale del complotto demoniaco. L’idea che la stregoneria non sia più una superstizione individuale, ma un crimine organizzato, una setta satanica che agisce contro l’ordine cristiano, è un’invenzione dell’élite ecclesiastica e giuridica tardo-medievale. È questa costruzione ideologica che giustifica le grandi persecuzioni, l’uso sistematico della tortura, i roghi di massa. Non è un conflitto uomini-donne: è un conflitto tra un potere ossessionato dall’eresia, dall’ordine e dal controllo e una popolazione resa capro espiatorio.


Ridurre tutto a una guerra contro le donne serve a fornire una chiave di lettura semplice, emotivamente spendibile, ma cancella i veri motori del fenomeno: la nascita dello Stato moderno, l’irrigidimento del diritto penale, l’uso politico della paura, le tensioni sociali prodotte da crisi economiche, carestie, epidemie, guerre. La caccia alle streghe esplode negli stessi secoli in cui l’Europa è attraversata da sconvolgimenti profondissimi: la Riforma, le guerre di religione, la centralizzazione del potere, la crisi climatica della Piccola Era Glaciale. Attribuire tutto al patriarcato significa ignorare deliberatamente questa complessità.


C’è poi un altro aspetto che la narrazione femminista rimuove con particolare cura: il ruolo attivo delle donne nella macchina persecutoria. Le donne non furono soltanto vittime, ma anche accusatrici, testimoni, delatrici, giudici, talvolta carnefici. In moltissimi processi sono proprio le donne a denunciare altre donne, magari vicine di casa, rivali, parenti. Questo non perché fossero “alienate” o “strumentalizzate” da un potere maschile onnipotente, ma perché la caccia alle streghe è un fenomeno comunitario, che attraversa l’intero corpo sociale. Trasformare le donne in soggetti sempre e solo passivi è una forma sottile di infantilizzazione storica.


Ugualmente problematica è l’idea che la Chiesa abbia perseguitato le streghe in quanto donne. In realtà, il rapporto tra Chiesa e stregoneria è molto più ambiguo e contraddittorio. Per secoli la Chiesa ha considerato la stregoneria una superstizione, una credenza popolare illusoria. Le grandi cacce non nascono nel pieno Medioevo cattolico, ma nella prima età moderna, spesso in territori protestanti o in zone di conflitto confessionale. L’istituzione che in molti casi cercò di arginare gli eccessi fu proprio l’Inquisizione, soprattutto quella romana, che impose criteri probatori più rigidi rispetto ai tribunali laici. Anche questo dato è incompatibile con la favola di un progetto unitario di sterminio delle donne da parte dell’istituzione ecclesiastica.


La trasformazione della strega in eroina femminista postuma è un classico esempio di anacronismo ideologico. Si proiettano nel passato categorie, conflitti e identità del presente, come se fossero universali e immutabili. Le donne del Cinquecento non pensavano in termini di “emancipazione femminile”, né si percepivano come un soggetto storico collettivo in lotta contro un sistema di oppressione di genere. Vivevano dentro strutture mentali, religiose, simboliche completamente diverse. Usarle come simboli di battaglie contemporanee non è un atto di memoria, ma un atto di appropriazione.


Questo non significa negare che le donne abbiano subito violenze, discriminazioni, subordinazioni per secoli. Sarebbe ridicolo negarlo. Significa però rifiutare l’uso della storia come serbatoio di miti militanti. La caccia alle streghe è una tragedia immensa, una delle più grandi persecuzioni di massa della storia europea. Ma proprio per questo merita di essere studiata per quello che è stata davvero, non per quello che ci fa comodo che sia stata.


C’è anche un problema etico in questa operazione: trasformare le vittime storiche in simboli astratti. Le streghe non erano archetipi, non erano icone proto-femministe, non erano ribelli contro il patriarcato. Erano persone concrete, con vite, paure, miserie, rancori, deformate dalla tortura fino a confessare qualunque cosa venisse loro richiesto. Ridurle a un emblema ideologico è una seconda forma di violenza, più raffinata, ma non meno reale.


Il successo di questa narrazione dipende anche dalla sua utilità politica. Presentare la caccia alle streghe come “il più grande femminicidio della storia” consente di stabilire una linea di continuità diretta tra il passato e il presente, di costruire un racconto in cui la violenza contro le donne sarebbe una costante immutabile, un destino inscritto nella struttura stessa della civiltà occidentale. È un racconto che funziona sul piano emotivo, ma che genera anche una visione profondamente pessimistica e semplificata della storia, in cui non esistono rotture, trasformazioni, conflitti reali tra sistemi diversi di potere, ma solo la ripetizione eterna dello stesso schema.


Questa lettura produce un altro effetto perverso: rende incomprensibile la fine della caccia alle streghe. Se davvero si fosse trattato di un progetto patriarcale di sterminio delle donne, perché sarebbe terminato? Cosa avrebbe improvvisamente dissuaso un sistema millenario di dominio dal continuare? La fine delle persecuzioni si spiega invece molto bene se si considerano i fattori reali: il mutamento dei criteri giuridici, il declino della tortura come strumento probatorio, la secolarizzazione del diritto, l’affermarsi di una diversa concezione della causalità naturale. È la trasformazione delle strutture dello Stato e del sapere, non un’improvvisa illuminazione morale sul valore delle donne, a far crollare il sistema.


Attribuire alla caccia alle streghe una valenza “femminista al negativo” è anche un modo per sottrarsi a una riflessione più scomoda: il fatto che la persecuzione non nasce dalla diversità, ma dalla normalità. Le accusate non erano per lo più donne straordinarie, libere, ribelli, ma persone comuni, perfettamente integrate nella mentalità del loro tempo. La strega non è l’altra radicale, ma la vicina di casa. Questo è molto più inquietante, perché ci costringe a riconoscere che i meccanismi del capro espiatorio attraversano l’intera società, non solo un gruppo di potere monolitico.


Infine, c’è un elemento di narcisismo storiografico in questa operazione. L’idea che il passato debba parlare di noi, che ogni tragedia debba confermare le nostre categorie, le nostre battaglie, le nostre identità. Ma la storia non è uno specchio consolatorio. È uno spazio di alterità radicale. Le donne perseguitate per stregoneria non chiedevano di diventare simboli del femminismo. Chiedevano, molto più banalmente e tragicamente, di non essere torturate, umiliate, bruciate vive.


Difendere la complessità storica della caccia alle streghe non significa sminuirne la portata, né tantomeno giustificarla. Significa, al contrario, prendere sul serio l’intelligenza delle vittime e dei carnefici, senza trasformarli in personaggi di una favola morale scritta cinque secoli dopo. La storia non è un tribunale ideologico in cui il verdetto è già deciso prima del processo. È un terreno di conflitti reali, di paure reali, di poteri reali, che richiede strumenti analitici, non slogan.


Chi insiste a leggere la caccia alle streghe come un puro e semplice femminicidio di massa non sta facendo un atto di memoria, ma un atto di semplificazione. E ogni semplificazione violenta della storia, anche quando nasce da buone intenzioni, finisce per produrre nuove forme di cecità. La verità, come spesso accade, è molto meno rassicurante di un mito: la capacità di distruggere l’altro non appartiene a un genere, ma alle società nel loro insieme, quando la paura diventa legge.


#storia #divulgazione #bufale #miti #streghe #inquisizione #stregoneria #chiesa

Storia & Dintorni 

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Antonio Gramsci

 


"VOI FASCISTI PORTERETE L'ITALIA ALLA ROVINA, 😓😓😓

TOCCHERÀ A NOI COMUNISTI DI SALVARLA" ❤🇨🇳✊✊✊


❤️ Antonio Gramsci ❤️🇨🇳✊✊✊

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I fascisti sono sempre senza vergogna

 


𝙂𝙚𝙣𝙤𝙫𝙖, 𝙡𝙖 𝙨𝙩𝙧𝙖𝙩𝙚𝙜𝙞𝙖 𝙙𝙚𝙞 𝙨𝙞𝙣𝙙𝙖𝙘𝙖𝙡𝙞𝙨𝙩𝙞 𝘾𝙜𝙞𝙡 𝙘𝙝𝙚 𝙤𝙧𝙜𝙖𝙣𝙞𝙯𝙯𝙖𝙣𝙤 𝙡𝙤 𝙨𝙘𝙤𝙣𝙩𝙧𝙤 𝙘𝙤𝙣𝙩𝙧𝙤 𝙡𝙖 𝙋𝙤𝙡𝙞𝙯𝙞𝙖 𝙥𝙚𝙧 𝙥𝙤𝙞 𝙛𝙖𝙧𝙚 𝙡𝙚 𝙫𝙞𝙩𝙩𝙞𝙢𝙚 𝙚 𝙖𝙩𝙩𝙖𝙘𝙘𝙖𝙧𝙚 𝙞𝙡 𝙂𝙤𝙫𝙚𝙧𝙣𝙤


“Se necessario ci andiamo a picchiare con le forze di polizia, noi non abbiamo paura. Così finiamo sulle pagine dei giornali e poi sono affari del governo dire che picchiano gli operai che lottano per difendere la fabbrica e l’occupazione a Genova”. Parole (molto chiare) dello storico esponente Fiom, Franco Grondona.


Siamo a Genova e la cornice è la mobilitazione per l’ex Ilva di Cornigliano, stabilimento che lo stesso ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha assicurato che non chiuderà. Ma, forse, questo non importa, ciò che conta è alzare la tensione. “Mantenere i presidi e i blocchi stradali” è l’ordine. La proposta del Governo? “Vaselina” secondo Grondona per cui la premier “fa l’europeista per pochi milioni”. 


Ma, attenzione, non si tratta di una “sparata”. A quanto apprende “Il Giornale” da fonti qualificate ci sarebbe una precisa strategia per ricercare lo scontro con aggressioni mirate ai danni delle forze di polizia per innescare una reazione degli agenti. Uno schema già previsto: prima attaccare duro incappucciati per poi presentarsi come manifestanti pacifici e inermi davanti alle telecamere per di ottenere quel titolo: “Il governo carica gli operai”. 


Ma dal Viminale non sono certo sprovveduti e l’ordine è di non cedere alle provocazioni. 

E, aggiungerei, una volta svelato il bluff anche tutti i cittadini capiranno.

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Un'altra stronzata targata Gualtieri

 


Migranti gratis a casa dei romani, aggiudicata gara da 400 mila euro

ImolaOggi-3 Dicembre 2025 

È stata definitivamente aggiudicata dal Comune di Roma la gara per l’accoglienza di migranti in città. Dopo aver valutato l’offerta tecnica ed economica, l’amministrazione ha affidato il servizio alla Refugees Welcome Italia, l’unico soggetto che ha partecipato all’avviso.


Accoglienza in famiglia dei migranti

Parliamo del bando che già mesi fa aveva scatenato enormi polemiche a Roma e non solo. Il Comune, infatti, ha stanziato 400 mila euro per questo servizio, che si svolgerà dal 1° gennaio 2026 fino al 31 dicembre 2028. Il vincitore della gara, oltre a favorire percorsi di inclusione sociale e di autonomia lavorativa, dovrà trovare “famiglie, mentori o tutori sociali” che ospitino i migranti con regolare permesso di soggiorno.


Nessun rimborso per chi accoglie

Le polemiche su questo avviso scaturirono soprattutto perché non sono previsti ristori per chi accoglierà i migranti. Insomma, le famiglie che parteciperanno al progetto dovranno accollarsi completamente le spese di vitto e alloggio. I fondi stanziati, infatti, serviranno soprattutto per individuare soggetti ospitanti e favorire i percorsi di autonomia delle persone prese in carico. Insomma, dal 1° gennaio comincerà la ricerca vera e propria di persone o altre realtà disposte ad accogliere le persone che rientreranno poi nei progetti di inclusione.


Quando era uscito l’avviso, il centrodestra aveva attaccato il Comune parlando di uno spreco di risorse. Il Pd, dal canto suo, aveva difeso l’avviso sottolineando che “l’accoglienza in famiglia dei migranti è un’esperienza dal grande valore umano, sociale e culturale”.

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I fascisti attaccano sempre gli operai

 


E il vizietto a Genova non se lo tolgono, solidarietà ai lavoratori.


Genova medaglia d'oro della Resistenza, tutte le volte che in Italia c'è un governo di destra botte da orbi ai lavoratori, a chi sciopera o manifesta per la pace.


Anni 60 governo Tambroni che governa insieme al MSI di Almirante, G8 di Genova governo Berlusconi con Fini ministro degli esteri.


E oggi con il governo Meloni, fascisti al governo. 


Si sempre quando ci sono i nostalgici del fascismo, accade che non si può più manifestare, addirittura questo governo ha emanato un Decreto Sicurezza che prevede anche il carcere.


Le forze dell'ordine di solito la Digos che negli altri governi dialoga con i manifestanti e i sindacati, con i governi di destra non c'è più dialogo ma transenne, idranti, manganelli e pistole.


I lavoratori ex Ilva che da giorni scioperano  contro la chiusura degli stabilimenti vogliono manifestare davanti alla Prefettura


Ed ecco di nuovo la provocazione come al G8 transenne, forze dell'ordine in tenuta antisommossa come se fossero davanti a un summit di mafiosi.


No sono dei lavoratori disperati, che ancora una volta chiedono di essere ascoltati dal Prefetto, vogliono lavoro ed invece botte da orbi, lacrimogeni e spari ad altezza d'uomo.


Questa volta non c'è scappato il morto come accadde in Italia con il governo Tambroni a Catania con la morte dell'operaio Salvatore Novembre e in altre città d'Italia, come accade a Genova con l'uccisione di Carlo Giuliani nel 2001.


E come a Genova durante il governo Tambroni il processo riguardò i soli manifestanti, nessun processo venne mai fatto per valutare l'operato e le responsabilità degli appartenenti alle forze dell'ordine che parteciparono a quegli scontri.


Così come accadde al G8 di Genova dove l'unico a pagare è stato quel giovane carabiniere alla prima esperienza mentre gli altri sono stati promossi. 


Si perché è così che funziona in Italia, le forze dell'ordine non possono essere processati e se processati e condannati quando ci sono i governi di destra vengono promossi, basta vedere i post nella pagina della Meloni solidarietà sempre ai tutori della legge mai ai lavoratori. 


Perché i governi di destra dimenticano che sono stati eletti per applicare la costituzione e la democrazia e non per emanare decreti di sicurezza che colpiscono la libertà di manifestare e il diritto al lavoro. 


Sono sempre loro, Piantedosi, Salvini, D'Urso e tutto il fascio che governa invece di prendere esempio dalla sindaca di Genova Salis che è scesa in piazza con i lavoratori.


Questo è il ruolo politico di chi ammistra una città o il governo nazionale, quello per cui è stato eletto dai cittadini, applicare la costituzione e la democrazia e non il terrore e il carcere.

Santina Sconza 

#antifascistademocraticapacifista

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𝗜 𝗚𝗜𝗢𝗖𝗛𝗜 𝗗𝗘𝗟 𝗖𝗢𝗟𝗢𝗦𝗦𝗘𝗢: 𝗣𝗢𝗧𝗘𝗥𝗘, 𝗦𝗔𝗡𝗚𝗨𝗘 𝗘 𝗜𝗟 𝗦𝗢𝗥𝗥𝗜𝗦𝗢 𝗗𝗘𝗟𝗟’𝗜𝗠𝗣𝗘𝗥𝗔𝗧𝗢𝗥𝗘



Quando l'imperatore Tito inaugurò l'Anfiteatro Flavio nell'anno 80 dopo Cristo, Roma non vide semplicemente l'apertura di un nuovo edificio, ma l'inizio di una liturgia politica scolpita nella pietra e nel sangue.


Le cronache di Cassio Dione ci tramandano che i festeggiamenti durarono cento giorni, un periodo di opulenza sfrenata durante il quale la generosità imperiale trasformò la morte in una forma d'arte per il godimento della folla.


Sotto l'immensa tela del velario, manovrata con maestria dai marinai della flotta di Miseno per proteggere gli spettatori dal sole cocente, l'aria si saturava di odori contrastanti. Il profumo dello zafferano spruzzato sulla folla si mescolava al tanfo ferroso del sangue e al lezzo delle fiere che risalivano dagli oscuri sotterranei dell'ipogeo.


Marziale, testimone oculare di quei giorni, compose il Liber de Spectaculis per celebrare la meraviglia di un'arena capace di ospitare battaglie navali e cacce esotiche, dove la natura stessa sembrava inchinarsi al volere di Cesare.


La giornata dei giochi seguiva un ritmo preciso, scandito dalla ferocia crescente degli spettacoli. Il mattino era dedicato alle venationes, le cacce alle bestie feroci.


Queste vedevano contrapposti uomini e animali provenienti dagli angoli più remoti dell'impero. Leoni, tigri, orsi e persino struzzi venivano sollevati tramite complessi sistemi di ascensori e carrucole direttamente sull'arena, apparendo quasi magicamente dalla sabbia per essere massacrati.


Le fonti antiche riportano cifre impressionanti: durante l'inaugurazione voluta da Tito perirono novemila animali, un'ecatombe che serviva a dimostrare il dominio di Roma non solo sui popoli, ma sull'intero creato.


Nelle ore centrali della giornata, quando il sole era allo zenit e la maggior parte degli spettatori si allontanava per il pranzo, l'arena ospitava il momento più crudo, quello delle esecuzioni capitali.

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Seneca, nelle sue lettere a Lucilio, descrive con orrore questi intermezzi meridiani, definendoli "puri omicidi" dove i condannati, privi di qualsiasi protezione, venivano esposti alle belve o costretti a uccidersi a vicenda.


La mitologia veniva spesso messa in scena in modo grottesco e reale: criminali vestiti da Orfeo venivano sbranati dagli orsi, o bruciati vivi indossando tuniche impregnate di pece per ricreare le sofferenze di eroi leggendari, trasformando la giustizia punitiva in teatro macabro.


Il culmine giungeva nel pomeriggio con i munera, i combattimenti tra gladiatori, veri protagonisti dell'evento. Qui il rapporto tra il principe e il popolo raggiungeva la sua massima espressione.


L'imperatore non era solo uno spettatore privilegiato seduto sul suo palco, ma il giudice supremo e il dispensatore di grazia.


Un suo cenno, spesso dettato dall'umore della folla urlante, decretava la vita o la morte del combattente sconfitto. Il sorriso dell'imperatore, o la sua commozione, diventavano atti politici.


Tito, in particolare, era noto per la sua prodigalità, gettando piccole sfere di legno contenenti buoni per cibo e vestiario verso il popolo, comprando così l'amore dei sudditi con il pane e il circo.


L'architettura stessa dell'anfiteatro rifletteva l'ordine sociale rigido e immutabile voluto dall'impero. I senatori sedevano sui gradini di marmo più vicini all'azione, separati dalla plebe che occupava i settori superiori, fino alle donne e agli schiavi relegati nel loggione più alto.


In questo microcosmo stratificato, ogni cittadino trovava il proprio posto assegnato, unito agli altri solo dal brivido collettivo della violenza legalizzata. Quando il sole tramontava e i cadaveri venivano trascinati via attraverso la Porta Libitinaria, restava sulla sabbia insanguinata il messaggio inequivocabile della dinastia Flavia: il potere di Roma era assoluto, capace di dare la morte e, con un sorriso, concedere la vita.


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giovedì 4 dicembre 2025

Socrates

 


Appena arrivato in Italia Socrates fece capire a tutti di quale pasta era fatto.

Quando venne presentato ai tifosi della fiorentina, presso lo Stadio Comunale, scatenò il delirio tra la folla alzando il pugno chiuso in segno di saluto.

Il presidente della Viola, Ranieri Pontello, vicino alla DC, gli chiese il perché del gesto e se sapesse che quello era il saluto dei comunisti in Italia. Lui rispose che il gesto gli ricordava Smith e Carlos a Messico ‘68 e che ignorava che in Italia fosse un simbolo dei comunisti, ma la cosa gli piaceva. La stessa sera Socrates disertò una festa di gala e poi si recò a un dibattito organizzato in una vicina Casa del Popolo.

La vicinanza ad ambienti popolari e politicizzati aiutò Socrates ad ambientarsi in città. Le sue prese di posizione a favore dei lavoratori e contro le diseguaglianze fecero crescere rapidamente la sua fama, già radicata grazie all’esperienza della Democrazia Corinthiana, ovvero la modalità del tutto innovativa e rivoluzionaria con cui i giocatori e i dirigenti del Corinthians avevano gestito dalla fine degli anni ‘70 il club. Tutte le decisioni vengono prese in gruppo, nello spogliatoio. In quel gruppo tutti hanno diritto di voto e ogni voto vale quanto gli altri, da quello del presidente a quello del magazziniere. La squadra non giocava per vincere, ma per divertirsi e divertire i propri tifosi e soprattutto per dimostrare che era possibile un’alternativa alla dittatura brasiliana.

Quando Socrates fu acquistato dalla Fiorentina trovò un ambiente profondamente diverso. Lo spogliatoio, all’epoca diviso in due fazioni distinte, era indifferente se non ostile alla sua volontà di politicizzare l’attività sportiva e infastidito dal suo modo di stare in campo. Allo stesso tempo i sistemi di allenamento e la disciplina gli impedivano di vivere il calcio come aveva sempre fatto: prima di tutto, un divertimento, fatto anche di diversi eccessi.

I risultati sul campo del dutur - soprannome affibbiato per i suoi studi in medicina - furono deludenti, viceversa fuori fu amato da tanti fiorentini. Incredibile resta, tra i tanti gesti, quello della terzultima di campionato quando, infortunato, Socrates vide metà della partita tra i tifosi della Fiesole.

Alla fine della stagione lasciò la Fiorentina per tornare in Brasile, al Flamengo. L’Italia, le frizioni nello spogliatoio, la distanza dagli affetti, una situazione sentimentale complessa lo riportarono a casa.

In Italia non era riuscito ad ambientarsi e diffondere la sua idea di calciatore disimpegnato negli allenamenti e impegnato fuori dal campo, ma restava comunque grande l’affetto che buona parte della città gli aveva riservato.


Cronache Ribelli


Uno dei nostri poster è dedicato proprio a Socrates. Lo trovi al link nel primo commento.

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