Il completo ritiro delle forze statunitensi dall’Afghanistan avverrà entro la data simbolo dell’11 settembre. Un passaggio delicato, già posticipato di 4 mesi (il withdrawal day sarebbe dovuto essere il 1° maggio 2021), perché la situazione nella nazione centro-asiatica è tutt’altro che facile. Malgrado l’impegno e l’alta professionalità degli eserciti Nato(Italia in testa per formazione e per preparazione delle forze locali), infatti, i secolari problemi del Paese degli Aquiloni non faranno altro che tornare a galla appena l’ultimo soldato occidentale avrà varcato la frontiera.
Va ricordato, infatti, che l’Afghanistan è caratterizzato da una fortissima componente tribale, clan radicati specie nelle zone montane e rurali, sovente in lotta fra loro. Nessuna forza militare è mai riuscita a compattare queste realtà né a piegarle: inglesi, sovietici, talebani, statunitensi. Nessuno. Eppure quel travagliato angolo di mondo continua ad essere crocevia di strategici interessi internazionali.
Come sarà l’Afghanistan dopo il ritiro
L’attacco dinamitardo che nella sera del 30 aprile ha lasciato sul terreno 25 morti nella provincia di Logar e l’esplosione che ha investito un’auto di militari afghani ad Herat, palesano il crescente clima di tensione che accompagna il ritiro, ulteriormente appesantito dal “ritorno” di al-Qaeda. Azioni non casuali, anzi. Collegate ad un momento simbolo per i qaedisti, il decimo anniversario della morte dello “sceicco del terrore” Osama Bin Laden. In effetti “la base” non se ne è mai andata dall’Afghanistan, neanche quando minacciata dall’avanzata delle avanguardie dell’ISIS Provincia del Khorasan . Ed il 30 aprile ha voluto dire la sua niente meno che alla principale emittente a Stelle e strisce, la CNN: “War against the US will be continuing on all other fronts unless they are expelled from the rest of the Islamic world”.
La ricomparsa di al-Qaeda è di cattivo auspicio per il governo di Ashraf Ghani, dal prossimo settembre solo a fronteggiare le tante criticità del paese. È vero, il suo non è il primo esecutivo afghano a dover affrontare, con le sole proprie forze, una situazione difficile, ma i precedenti sono tutto fuorché di incoraggiamento. Dopo il ritiro della 40° Armata sovietica, infatti, la Repubblica Democratica d’Afghanistan è riuscita a sopravvivere fino al ’92 anno in cui è stata rovesciata dai talebani. Questi ultimi hanno costituito un esecutivo provvisorio, a sua volta collassato nel giro di pochissimi anni a causa delle violente divisioni fra i gruppi tribali che lo costituivano. Neanche i talebani ed il loro durissimo e spietato regime sono riusciti ad imporsi nelle aree montane, soprattutto in quelle controllate dall’Alleanza del Nord che, all’alba del 2000, teneva ancora il 30% circa del paese.
Il ruolo di Russia dopo il ritiro Usa
La difficile situazione dell’Afghanistan non è sfuggita alla Russia: malgrado la sconfitta militare dell’89, infatti, l’attenzione dei russi sul paese è rimasta sempre alta. Da lì passa il traffico di oppio, clandestini e anche di terroristi attraverso le deboli repubbliche uzbeka e tajika, ambedue “giardino” della Federazione nell’Asia centrale. Ma negli ultimi due anni l’interesse del Cremlino è stato sempre più forte: colloqui con i talebani paralleli a quelli dell’amministrazione Trump e strette relazioni diplomatiche con il governo di Kabul che, nonostante l’alleanza con la Nato, si è mostrato ben disposto a ricevere il sostegno russo: “Voglio ringraziarvi per l’aiuto che la Russia ha fornito all’Afghanistan in 15 anni per contribuire a ripristinare la pace e la stabilità nel nostro Paese”. Queste le parole che il chief executive officer del governo afghano Abdullah Abdullah rivolgeva al premier russo Dimitri Medvedev durante gli incontri di Mosca del 3 novembre 2018.
E, in tempi non sospetti, nel lontano 2012, il ministro plenipotenziario agli Esteri Lavrov ricordava l’importanza, per il suo paese, di monitorare la situazione afghana. Per Mosca, dunque, il ritiro della NATO rappresenta una duplice conquista: da un lato, la perdita di uno scomodo avversario in un’area geografica che rientra nel suo spazio di influenza. Dall’altro l’opportunità di poter screditare l’operato dell’Alleanza nel Paese degli Aquiloni. Vi è poi un ritorno di carattere storico-culturale. La guerra del 1979-1989 ha profondamente segnato l’Unione Sovietica prima e la Russia poi: la prima, sonora sconfitta del gigante russo dalla Prima Guerra Mondiale. Dunque, Putin cercherà di presentare al mondo il ritiro statunitense quale fallimento di Usa e Nato in Afghanistan, mostrando Mosca quale ponte (economico in primis, poi diplomatico e politico) per il rilancio e per la stabilità del paese centro-asiatico. Una vittoria per cancellare un passato costato 20 mila morti, accuse di crimini guerra e che ha contribuito al collasso dell’Urss.
Pakistan sempre vigile
Altro attore del delicato teatro afghano è il Pakistan, già in prima linea negli Anni Ottanta, con Stati Uniti ed Arabia Saudita, nell’ “Operazione Cyclone”. Una lotta contro l’invasore sovietico che si è articolata in accoglienza di milioni di profughi entro i propri confini, di denuncia della cupidigia del Cremlino in Afghanistan e di appoggio a formazioni anti-sovietiche di mujāhidīn alcune delle quali legate ad ambienti dell’Islam radicale. Uomo di punta di Islamabad nel Paese degli Aquiloni era il comandante Gulbuddīn Hekmatyār che fu anche capo del governo provvisorio, nonché protagonista della guerra civile che si concluse con l’arrivo dei talebani (1996). Gli stessi taliban erano legati al Pakistan che, dal 2001, offriva loro rifugio quando erano inseguiti e braccati dalle forze statunitensi. Lo Bin Laden venne ucciso proprio in Pakistan.
Per Islamabad il controllo del suo fianco settentrionale è sempre stato fondamentale. Il Pakistan è infatti “chiuso” fra l’India, con cui i rapporti sono notoriamente tesi e con l’Afghanistan arretrato, instabile, aspro ma anche confine e ponte fra le potenze locali e mondiali. La suddetta Russia, ad esempio, pronta a tornare per estendere la sua influenza non appena l’ultimo G.I. avrà abbandonato Kabul. Poi, l’Iran a nord e la Repubblica popolare cinese ad est (confine sino-afghano, 76 km) il cui peso economico e militare si riflette su tutto il continente asiatico.
Il ritiro entro l’11 settembre annunciato da Biden e le rassicurazioni di Ghani sulle capacità del suo governo di gestire la situazione interna sono, quindi, ben poco rassicuranti. Per la terza volta in poco più di un quarantennio, infatti, il Paese degli Aquiloni tornerà con ogni ad essere scacchiere degli interessi internazionali. Nessuna campagna militare stavolta (è ormai chiaro che l’Afghanistan è difficile da sottomettere in armi), ma un’influenza politica ed economica su un governo quanto mai bisognoso di risorse e di appoggi per riuscire, almeno in parte, nell’impresa riuscita neanche ai mujāhidīn: governare l’Afghanistan in pace.
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