di Giorgio Ursicino
Se n’è andato quando l’avventura a lui cara è in pieno svolgimento. Tante volte in questi giorni di inizio anno, aveva messo in gioco la sua vita affrontando, a tutta velocità, i deserti più infidi della Terra. Ieri è salito in cielo Hubert Auriol ribattezzato, non solo dagli amici, l’Africain. Il francese, da tempo malato, era da qualche giorno in terapia intensiva, una delle tante deboli vittime su cui si accanisce il subdolo covid. Nato ad Addis Abeba il 7 giugno del 1952, l’atletico ragazzone era diventato l’icona della Dakar. Uno dei profili che meglio simboleggiavano la corsa famosa per il coraggio e un pizzico di follia. Hubert era uno dei padri “fondatori” della corsa più dura del mondo.
Lui c’era il freddo fine anno del 1979 quando, al comando del condottiero Therry Sabine, un manipolo di eroi lasciava le mille luci in festa di Parigi per affrontare il gelido ignoto che separa dalle spiagge tropicali di Dakar. Fra i Champs-Élysées e le sponde del Lago Rosa sull’Atlantico c’era sua maestà il Sahara, il deserto dei deserti, l’immenso pronto ad inghiottire chi sbagliava. Una sfida che in poco più di 40 anni ha preteso il sacrificio di quasi cento persone. La prima volta vincere era arrivare, di 90 motociclisti solo 24 uscirono dalla sabbia delle dune. L’anno dopo ancora sfortuna per Auriol, bissò il successo la Yamaha di Neveu. Nel 1981, a 29 anni, il primo successo.
Hubert portò alla vittoria la poderosa Bmw GS 800 che sotto la sua mole sembrava una bicicletta aprendo una lunga sfilata vincente per la casa di Monaco. Dopo un’altra impresa di Neveu nell’82, l’Africain vinse ancora nell’83 (fra le auto dominò Jacky Ickx con la Mercedes). Senza saperlo, quello, fu il suo ultimo trionfo fra le due ruote. L’anno successivo arriva in squadra dal motocross il belga Gaston Rahier, più anziano di Hubert ma un tipo piccolo e tosto, che lo precede sul traguardo. Lo spirito libero di Auriol non si trova con le schermaglie e i giochi di squadra ed il francese accetta la corte della Cagiva che voleva far sventolare il tricolore. Due anni a sviluppare la moto, poi il 1987 la volta giusta.
Parte in testa all’ultima tappa, di solito una passeggiata, una formalità. Invece il destino beffardo si accanisce contro l’africano, uno fra i più esperti. Lascia la pista e incappa in una grossa radice che gli frattura entrambe le caviglie. Prigioniero del dolore rifiuta l’aiuto di Rahier con quale non correva buon sangue. Si fa rimettere in sella da un equipaggio di auto e chiude la frazione, ma il sogno del colpo grosso è volato via. Per la quinta volta trionfa Neveu, Vatanen è primo fra le auto, il mostruoso Daf di De Rooy vola fra i camion. A 35 anni Hubert dice basta con le moto.
Fra la auto sono gli anni di Ari Vatanen e della Peugeot che fa sue tre edizioni consecutive, dal 1989 al 1991. Nell’ultima, ormai passato seriamente alle quattro ruote, Auriol chiude quinto con la Lada. Passa allo squadrone Mitsubishi ed è l’apoteosi. Si aggiudica la prima Dakar che non si conclude a Dakar. Dopo aver attraversato tutta l’Africa, nell’affascinante Città del Capo s’impone davanti a due compagni di squadra per un podio tutto giapponese. Il team Citroen che aveva preso il testimone dalla Peugeot è piegato, Waldegard, Vatanen, Ickx e Lartigue, chiudono alla spalle delle Pajero.
Mai nessuno era riuscito ad aggiudicarsi la maratona africana in auto e moto, Hubert fu il primo, poi seguito da Stéphane Peterhansel e da Nani Roma. Il re dice basta anche fra le auto e l’Aso, la società che organizza l’evento gli dà lo scettro del comando, un ruolo che richiede grande carisma e l’ex campione lo tiene ben saldo dal ‘95 al 2004. La Dakar sta per emigrare in Sudamerica, l’Africain passa la mano e nel 2008 organizza un nuovo raid, l’Africa Race. Ma lo spirito di avventura di Hubert non si ferma al deserto.
Insieme all’altro mito dell’automobilismo francese Henry Pescarolo, vincitore 4 volte della 24 Ore di Le Mans e protagonista anche alla Dakar, tentò l’assalto ad un record dei cieli. Con un bimotore Lockheed L-18 Lodestar del 1940 riuscirono a battere il primato del mitico Howard Hughes che, con un aereo uguale, impiego 3 giorni 14 ore e 14 minuti per fare il giro del mondo. Partendo da Le Bourget, l’aeroporto dove atterrò Charles Lindbergh il primo trasvolatore dell’Atlantico no-stop, la squadra di Hubert e Henri impiegò circa 3 ore in meno a fare quasi 24 mila chilometri. Il primato è tuttora imbattuto.
https://www.leggo.it/blog/milleruote/la_dakar_perde_il_suo_simbolo_ci_ha_lasciati_hubert_auriol_l_africain_era_stato_il_primo_a_vincere_sia_in_moto_sia_in_auto-5694075.html
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