Messina, sgomberato il Teatro Pinelli Occupato
Domenica 19 gennaio alle 7.30 del mattino, la polizia ha fatto irruzione nell'ex Casa del Portuale, da qualche mese sede del Teatro Occupato Giuseppe Pinelli.
Uno dei ragazzi del collettivo, Claudio Risitano, ha spiegato ai microfoni di RadioStreet le vere ragioni dello sgombero, ordinato dalla Magistratura con la motivazione "spettacolo non autorizzato".
Uno dei ragazzi del collettivo, Claudio Risitano, ha spiegato ai microfoni di RadioStreet le vere ragioni dello sgombero, ordinato dalla Magistratura con la motivazione "spettacolo non autorizzato".
Qui il racconto del militante Marco Letizia, sul blog del giornalista Enrico Di Giacomo.
Di seguito il comunicato stampa redatto dal collettivo del Pinelli, che ha già iniziato una serie di iniziative di protesta (prima fra tutte, l'irruzione sul palco del Teatro Vittorio Emanuele).
Il teatro Pinelli di Messina è sotto sgombero dalle 7 di stamani. Nella “relata di notifica” si parla di reato di spettacoli non autorizzati, di invasione di una proprietà pubblica – (in evidente stato di degrado ed abbandono – n.d.r.): “I militari hanno in particolare notato un consistente afflusso nei locali di numerosi giovani intenti a dialogare (…) e lo svolgimento nei suddetti locali di concerti e spettacoli previamente pubblicizzati su socialnetwork, sul sitowww.teatropinellioccupato.it...;In sintesi al Teatro Pinelli viene imputato: reato di autocostruzione di un palco (di due..), reato di autoformazione gratuita, reato di antimilitarismo, reato di auto recupero, reato di incremento dell’attività culturale cittadina, reato di costruzione di un’identità collettiva in una città in terremoto permanente, reato di antirazzismo, reato di favoreggiamento sfrattati, reato di accoglienza, reato di ospitalità.L’autogoverno dei beni comuni fa paura a chi preferisce gli spazi abbandonati, dismessi, lasciati in mano alla malavita organizzata e alla speculazione edilizia.È un caso che proprio stamani nel corso dell’operazione militare sia stata consegnata a un attivista del teatro la denuncia per resistenza a pubblico ufficiale in occasione della manifestazione NO MUOS? Ed è un caso che tutto questo accada proprio in occasione dello sgombero della ex casa del portuale che sulla carta risulta essere di proprietà della Regione? Ed è ancora un caso che due degli attivisti a cui nei giorni scorsi è stata notificata la denuncia per occupazione delle antenne militari M.U.O.S. siano tra i quattro denunciati per l’occupazione della ex casa del portuale? 4 denuncie: un giornalista, un video maker e due attivisti No Muos; più le sei persone che la scorsa notte hanno dormito in teatro.La ex casa del portuale, nella zona della stazione marittima di Messina è stata protagonista del dibattito politico negli ultimi mesi: prima perché al centro di una area di beni dismessi del patrimonio comunale (ex mercato ittico, dogana, magazzini generali, ex silos) poi per il graffito di Blu, uno dei writers più famosi al mondo, opera di cui si è interessato anche l’assessorato alla cultura del comune di Messina e la soprintendenza, infine per le denuncie del commissario liquidatore della cooperativa, Placido Matasso, che gestiva fino al 2011 l’immobile, lasciato poi in totale stato di abbandono.Numerosi cittadini, il circolo Arci Thomas Ankara, il movimento Cambiamo Messina dal basso e gli assessori Mantineo e Ialacqua e Cucinotta della giunta Accorinti si sono precipitati in sostegno degli attivisti. Dopo una assemblea cittadina si deciderà come procedere.
Foto: Enrico Di Giacomo/Flickr
Autore
Harvey Vent
http://www.agoravox.it/Messina-sgomberato-il-Teatro.html
MESSINA, LO SGOMBERO DELL’EX CASA DEL PORTUALE: ‘SPETTACOLO NON AUTORIZZATO’ DI MARCO LETIZIA
da edigiac_giac
FOTO DI ENRICO DI GIACOMO “Erano le sette di un mattino freddo d’inverno, quando i caschi blu arrivarono. Ci hanno recapitato un foglio con delle denunce, mentre chiudevano lo stabile che, per mesi, è stato punto di riferimento di una generazione sconfitta dalla crisi, e gettata ai bordi della politica”. Il Teatro Pinelli è stato sgomberato, per la seconda volta. La legge dello stato non permette spettacoli che non passino i controlli di sicurezza. Siamo nell’era in cui si cerca di reprimere in ogni modo il dissenso, cercando di bloccare i processi di trasformazione dal basso, in nome di una legalità astratta e priva di giustizia. In nome della pulizia, della sicurezza e dell’ordine urbano si mette continuamente fine a tutte le esperienze che cercando, con tutte le loro contraddizioni, di tratteggiare a colpi di pennello un’altro immaginario, perché quello che abbiamo ereditato è stato risucchiato dal vuoto cosmico della crisi, con tutte le sue vittime. Il Teatro Pinelli, unico teatro attivo della città in cui la più grande istituzione culturale (il Teatro Vittorio Emanuele) si trova in uno stato catatonico, in questi mesi è stato attraversato da una molteplicità sterminata di individui producendo una quantità di contenuti culturali, artistici, formativi e politici da fare invidia a qualsiasi direttore artistico di questa città. Spettacoli che se fossero stati sottoposti alle leggi del mercato e alla “ingiusta giustizia” della legge in Italia non avrebbero mai avuto la possibilità di essere proposti, in quanto non suscettibili di profitti, ma egualmente importanti dal punto di vista culturale. Il Pinelli è stato un luogo vissuto da quelli per sempre dannati e condannati alla strada, fino a signori in giacca e cravatta. Un fenomeno strano, originale e sui generis, per una città melmosa come Messina. Mélanger l’ homme è stato il nostro motto, al netto dei conflitti interni e delle maldicenze: mescolare identità, forme di vita e pratiche di aggregazione, contro ogni idea di proprietà. Un luogo comune è ciò che permette a tutti di portare con sé il proprio volto senza doversene vergognare, senza per ciò stesso doversi porre a lato della scena pubblica alla quale si ha accesso solo se fai parte della società dello spettacolo. E il Pinelli lo è. Lo è stato e lo sarà. Siamo, badate bene, in una società che ha fatto dello spettacolo il suo strumento di consenso e, dunque, di dominio. Anche le dittature del primo novecento compresero che la propaganda, trasformata in spettacolo pubblico, adunate di massa e costruzione astratta di una identità collettiva, sarebbe stato lo strumento di potere del secolo. Come scriveva Guy Debord “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. Dalla megamacchina dell’industria culturale ogni giorno ci giungono notizie, ben orchestrate e manipolate da saccenti ed intellettuali chinatisi con devozione di fronte a sua maestà il Capitale: l’arte e la cultura hanno smesso da tempo di costituire un problema politico per il sistema neoliberale che anzi ha saputo sussumere l’estetico come uno dei suoi più potenti strumenti di condizionamento della società in grado di produrre immani ricchezze (pensiamo innanzitutto alla pubblicità). Vediamo una produzione quasi eccessiva di opere di intrattenimento, oppure di “cultura” (strana parola presentata come qualcosa di neutrale e di disincarnato): tra cinema, fiction, telefilm, musical, concerti, spettacoli ci si perde al giorno d’oggi. Opere e produzioni che hanno il principale compito di impiegare ogni brandello di tempo concessoci su questo pianeta, per monetizzare ogni istante della vita, trasformando il tempo stesso dell’esistenza in un bacino d’utenza, una riserva di materiale umano sempre pronta all’ascolto passivo e a farsi impartire contenuti senza vaglio critico. Ma non sono in sé l’iperproduttività e la riproducibilità illimitata delle opere dell’industria culturale a determinare la società dello spettacolo. Non è nemmeno il suo essere produttore di banalità a costituire un motivo di preoccupazione per chi oggi si sente alienato da se stesso e dalla società Il Punto è un altro. E’ la trasformazione di ogni esperienza vissuta in qualcosa di rappresentato mediaticamente. La società dello spettacolo ha risucchiato ogni vissuto individuale e collettivo, “la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo, e riproduce in se stessa l’ordine spettacolare portandogli un’adesione positiva [...]. La realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. Questa alienazione reciproca è l’essenza e il sostegno della società esistente” (Guy Debord, La società dello spettacolo). Ed è per ciò che mostra Debord che oggi nessuno più fa esperienza di se stesso autenticamente come soggetto relazionale, come soggetto politico e culturale, come essere umano dotato di attitudini creative. Ci definiamo e veniamo definiti solo attraverso codici propagandati dai sistemi di comunicazione. La nostra vita è codificata dagli strumenti della propaganda. Ne siamo dominati fino all’osso. Ci lasciamo dominare perché ci piace vivere come le Star, o almeno fingere di farlo. Ci hanno educato al godimento consumistico ed irresponsabile, all’egoismo e all’odio reciproco, ai sentimenti utilitaristici e all’assenza di valori relazionali. Ci hanno educato al buonismo e all’assenza di conflitto sociale, trasfigurando l’essenza stessa delle parole, delle forme e delle immagini che ci riguardano. Ci hanno impartito una quantità di spazzatura attraverso la televisione che ha obnubilato la coscienza collettiva. Soprattutto la politica si è identificata oggi con un grande spettacolo pubblico, durante il quale non contano i contenuti, la sincerità, la preparazione, le idee ma solo la forma accattivante, decisa e seducente con la quale l’oratore si presenta in pubblico. La base elettorale non è più contrafforte critico del potere ma solo base di rilevazione degli umori, al fine di trovare la migliore strategia di manipolazione per imporre e riprodurre la leadership e il comando dell’economia sul sociale, del capitale sul lavoro, del profitto sulla vita umana. Il berlusconismo non è stato altro che uno spettacolo orchestrato per venti lunghi anni durante i quali si è consumato lo stupro della nazione, la deculturazione collettiva, la distruzione del settore formativo, la consumazione totale di un modello sociale e la completa corporativizzazione oligarchica dell’economia, a danno dei diritti dei più. A questo spettacolo hanno partecipato tutti, comprese le opposizioni in buona fede. Mentre i processi di messa a valore capitalistica e di speculazione finanziaria di ogni brandello di spazio sociale andavano silenziosamente avanti, la politica derealizzava il dibattito attraverso lo spettacolo e l’utilizzo di armi non convenzionali (come l’intrattenimento o gli scandali sessuali) utilizzati come strumenti di distrazione/distruzione di massa. Nel frattempo la società si frantumava. L’alienazione dalla realtà vissuta è totale. Se c’è un modo per descrivere la crisi della politica della rappresentanza, quella della società dello spettacolo è sicuramente una delle chiavi di lettura più azzeccate. Per questo il Teatro Pinelli è uno spettacolo non autorizzato: perché ha riportato sulla scena della vita concreta della città di Messina un soggetto muto, disciplinato per anni anche nella sregolatezza. Perché ha aperto spazi che, se da un lato sopperivano alle mancanze dello Stato, svolgendo dunque un servizio alla collettività in campo culturale e informativo, dall’altro mostravano la nudità del potere. E il potere, quando viene spogliato della sua regalità perde la ragione. Non sopporta l’umiliazione di vedersi privato anche di uno solo dei suoi gioielli senza il suo consenso. L’abuso di spettacoli è il reato più grave. Portare sulla scena chi ne rimane fuori è un reato: “se sono rimasti fuori – si dirà – probabilmente non si meritavano di entrare”. “Ma adesso cosa ne facciamo? Dove li mettiamo? Se tornano fuori rischiano di fare altri danni!” “Questa volta, secondo me hanno capito la lezione”. Di questo passo la prossima rivolta sarà nelle carceri italiane, visto che hanno deciso di imprigionare ogni soggetto portatore di dissenso. Nessuno, di coloro i quali ha vissuto l’esperienza del Pinelli, potrà tornare a casa come se niente fosse. Ritrovare un’esperienza concreta cambia la vita, dopo aver vissuto solo a tratti sulla scena nemica del “consentito” sempre in posizione subalterna. Vivere concretamente nei processi di riappropriazione collettiva significa sdoganare i bisogni sociali e culturali dalla marginalità. Significa iniziare ad affermare cose che non esistono, che non hanno cittadinanza, né legalità, scrivendo carsicamente un copione collettivo che, nel momento in cui trovasse una sua corale esibizione, metterebbe davvero a rischio la tenuta dello spettacolo alienante della società neoliberale e tecnocrate. Il più grande bene comune che oggi abbiamo il dovere di tutelare in fondo è ciò che mano a mano si sta producendo tra le onde della crisi: la forza di chi non si arrende allo sguardo truce di una legge sempre più debole con i forti, ma sempre più forte e spietata con i deboli. La polizia è solo il terminale ultimo di un’ingiustizia presente ad ogni livello della vita sociale. E quando l’abuso della legge e il diverbio rabbioso divengono il solo oggetto comunicato dello sguardo mediatico che dimentica di illuminare gli occhi della collettività sul processo reale, è facile trovare consensi presso il popolo dei reazionari, difensori dell’onore delle divise italiane. Nessuno così vede l’altro lato della medaglia, quello oscurato sempre da ogni dibattito: l’emarginazione. Lo sgombero del Pinelli è, a Messina, non è solo il perpetuarsi di una ingiustizia nei confronti degli occupanti ma è principalmente ingiusto nei confronti di tutti quei soggetti che non hanno avuto e non avranno altro spazio di condivisione sociale oltre il Pinelli. Di tutti quei soggetti puntualmente esclusi dallo show della Tv, dai salotti degli affari, dai diritti umani, dai diritti di cittadinanza. Lo sgombero del Pinelli è un affronto nei confronti della povertà, una decisione che si inscrive all’interno della lunga storia della lotta tra classi dominanti e subalterne. Gente che veniva dalla strada, lasciata sempre ai bordi, oggetto di pietà e commiserazione da parte delle piccole coscienze imborghesite di questa società, al Pinelli ha trovato ospitalità, cura e accoglienza. I migranti del Palanebiolo sono solo gli ultimi di una lunga serie di “messinesi” che in qualsiasi altro posto della città sarebbero stati rifiutati, perché non sono possessori di denaro. Tutti questi attuali e potenziali esclusi della società hanno oggi la possibilità di riconoscersi in una collettività che non ha gettato su di loro la prima etichetta trovata in un dizionario da benpensati e ipocriti, ma che vuole salvarsi solo a patto che tutti i “dannati della terra” si salvino. Una collettività che vuole ripristinare i rapporti tra spettacolo e realtà: affinché la realtà sia solo interpretata e trasfigurata creativamente dalla produzione estetica al fine di essere migliorata, contro quella che Walter Benjamin chiamava “estetizzazione della politica”. Si siamo per la politicizzazione dell’arte, perché la cultura non è mai stata neutrale di fronte al reale. La cultura nasce nel momento stesso in cui la sua istanza di fondo confligge con la realtà oggettiva. Le trasformazioni culturali sono più importanti di una memoria imbalsamata e di un sapere mummificato. Chi si fa apologeta dell’esistente attraverso lo strumento della neutralità della cultura o non capisce cos’è una produzione culturale o ha l’interesse affinché la cultura non diventi mai uno strumento di emancipazione collettiva legandosi ai processi e agli eventi reali. Ma solo narcosi diffusa, idiozia dilagante e nozionismo asfittico. Per questo il Teatro Pinelli non si è limitato a se stesso, cioè a essere solo la riproduzione radical chic del Teatro borghese, ma è diventato un luogo in cui ogni giorno di più si percepiva la voglia di cultura e di spazi di aggregazione non infarciti da un’iconografia appartenente alle classi dominanti e con nessuna discriminazione in base al censo. Il Teatro Pinelli è accanto a chi è stato sfrattato ma che vuole comunque “abitare nella crisi” attraverso le lotte di riappropriazione dei diritti, senza arrendersi alla precarietà, alla disoccupazione e alla povertà programmate scientificamente dalle politiche di austerità portate avanti dai governi della società dello spettacolo. E’ questo “lo spettacolo non autorizzato” che ha determinato lo sgombero del Pinelli. Non una denuncia, non un’interrogazione, nessuno consigliere comunale indignato, nessun cittadino offeso dallo stato di degrado in cui Placido Matasso ha lasciato l’immobile della Casa del Portuale. Nessuna indagine, né dei Carabinieri né della Polizia sullo stato dell’immobile prima dell’occupazione. Nessuna esigenza di legalità, prima che quel luogo si trasformasse in ciò che è. Chiunque può scorrere negli archivi della stampa cittadina e osservare lo stato di abbandono nel quale era la struttura di via Alessio Valore. Li vorremo vedere ogni giorno per strada, noi, questi sedicenti politici che rampano sempre sulla sella del Potere, dalla parte di chi ha già tutto e contro chi prova a conquistare diritti e spazi. Oggi finalmente esulteranno per il ripristino della legalità. La casa del portuale ritornerà ad essere vuota. Come lo è stato in passato, e come lo è gran parte del patrimonio pubblico in disuso. Su questo, il Teatro Pinelli darà ancora battaglia, e tornerà presto in scena. L’unica autorizzazione di cui ha bisogno è quella di chi in questo lungo anno ha manifestato l’esigenza di spazi liberati per vincere la cultura della rassegnazione e dell’abbandono. Oggi è il momento di schierarsi. Non si può rimanere neutrali di fronte a questo scempio. Per Messina questa non sarà mai una “Domenica delle salme”: il giorno dopo non ci saranno “i segni di una pace terrificante”. Ci sarà piuttosto l’inizio del Terzo Atto, di un conflitto ormai irreversibile. E sarà tutto da riscrivere. “Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere”: Bertold Brecht di spettacoli non autorizzati se ne intendeva parecchio.
http://www.stampalibera.it/2014/01/messina-lo-sgomberto-dellex-casa-del-portuale-spettacolo-non-autorizzato-di-marco-letizia/#sthash.1jOPJcHL.dpuf
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