di
Gaetano Grasso
(..) È una fortuna aver letto quando si era ragazzi.
E doppia fortuna aver letto libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di
storia, libri di viaggi e le Mille e una
notte in special modo. Uno può ricordare anche quello che ha letto come se
lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha tutta la storia degli uomini e
tutto il mondo in sé, con la propria infanzia, Persia a sette anni, Australia a
otto, Canadà a nove, Messico a dieci, e gli ebrei della Bibbia con la torre di
Babilonia e Davide nell’inverno dei sei anni, califfi e sultane in un
febbraio o un settembre, d’estate le grandi guerre con Gustavo Adolfo eccetera
per la Sicilia-Europa, in una Terranova, una Siracusa, mentre ogni notte il
treno porta via soldati per una grande guerra che è tutte le guerre.
Elio Vittorini
Prima parte
Maria
riposava, Anna era uscita con le amiche, Giovanni s’era recato in piazza a
divertirsi ed io, prima di raggiungere la mia sposa nel letto, volevo indugiare
in cucina. Era domenica 31 maggio e avevamo festeggiato il mio compleanno – che
cade martedì 2 giugno - ed eravamo tutti felici. Anche Giovanni, tornato dalla
licenza un po’ smagrito, aveva mangiato molto e con allegria: la pasta al forno
era buona, le cotolette pure e anche il ‘tiramisù’, fatto apposta dalla
sorella, non sfigurava. Lui se n’era mangiate due porzioni, prima di scappar
via, giusto il tempo di cambiarsi. La sua divisa era stata stesa da mia moglie
sul balcone della cucina ed io potevo vederla, seduto ancora a tavola,
gocciolare un poco.
Ne avevo
compiuti cinquanta e, per la verità, non me li sentivo addosso che dopo
mangiato, come in quel momento; era per questo che, se non bevevo vino in
abbondanza, cosa per me rarissima, mi sentivo un po’ triste, benché
soddisfatto.
Maria, mia
moglie, aveva la mia stessa età, sosteneva di essere invecchiata tantissimo, ma
io sapevo che non era vero. Infatti era così ragazza ancora che metteva gli
stessi vestiti di Anna, nostra figlia diciottenne. Più giovane di così? E poi,
come dice quella canzone? “Io amo le sue
rughe, ma lei non lo capisce.” Ma lei davvero non lo capiva? Non credo che mi
avrebbe dato i baci che mi dava se fosse stato così. Voleva solo più
comprensione, un po’ d’aiuto in più, sentiva la fatica e desiderava qualche
complimento sincero, quanto basta, senza esagerare.
La sera
precedente guardavamo alla televisione alcuni genitori come noi, i cui figli
erano al confine con il Kosovo.
Tramite
telefono e telecamera potevano, aiutati dai giornalisti, parlare ai loro
ragazzi. Maria ed io guardavamo questa trasmissione quasi furtivamente. Nostra
figlia non voleva, diceva che stavamo facendo una malattia di questa guerra,
diceva che non era una guerra, che non ci dovevamo preoccupare per Gianni e
solo degli stupidi, come le sembrava che noi eravamo diventati, potevano
agitarsi tanto. Noi non la lasciavamo tanto dire, ma queste trasmissioni le
guardavamo ugualmente di nascosto. In fondo preferivamo così, che lei non si
spaventasse.
In
trasmissione c’erano madri come Maria che si commuovevano e genitori tipo me,
che sembravano di roccia, ma che faticavano a trovare parole per il figlio;
c’erano ragazzi con il fucile in spalla sotto la bandiera che avevano occhi di
chi dorme poco, male e in ansia, occhi di chi sa cosa l’aspetta se la
situazione precipita, ma che, o perché caporali, o perché truppe scelte, nascondeva
con un sorriso la stanchezza e la tensione.
“Come va? Hai
ricevuto il pacco?”
“Certo papà, e
non va malaccio.”
Ragazzi forse
capaci di scatenare una rissa in discoteca per le gambe d’una coetanea qualche
settimana prima, quand’erano in borghese; adesso, in divisa, al di là del mare,
parlavano da persone responsabili, come fossero stati a scuola a sostenere un
esame, con cravatta, giacca e camicia pulita, perfettamente pettinati.
Era un piacere
vederli così, ma era anche un piacere sapere che Giovanni si trovava invece in
Friuli, lontano, troppo lontano per essere coinvolto. L’esercitazione Nato in
Ungheria, a sentir lui, era stata sospesa, quindi tutti noi potevamo stare
tranquilli.
Lui se la
sarebbe cavata, ne ero sicuro, e non lo dicevo da padre, ma perché ero stato
capace di essergli amico e sapevo che mi assomigliava. Non avrebbe mai commesso
cattiverie e non avrebbe lasciato nessuno dei suoi commilitoni in difficoltà;
ciononostante non avrebbe fatto ‘l’eroe’, cioè non sarebbe stato temerario.
Ma perché non
risparmiargli quello che ai suoi nonni era toccato, mi chiedevo? Bombe,
proiettili, ospedali da campo, ordini che non arrivano, perdersi in un territorio
che non conosci? Non era successo ai tre soldati di ronda americani proprio
questo: perdersi, essere catturati e bastonati? Non era forse perché troppo
sicuri, o forse troppo temerari, o forse troppo coraggiosi? O persino
arroganti? Di qui non si può dire, ma sapevo che Gianni non si sarebbe fatto
prendere per arroganza. Se prendevano lui, era perché corso dietro all’amico a
dirgli: “Cretino, torna nei ranghi!” L’amico avrebbe riso e la cattura sarebbe
stata una disgrazia. Forse lo stesso aveva fatto il sottufficiale americano sul
confine macedone.
Lui, Gianni,
lo sapevo: non aveva paura. Era minuto com’ero stato io alla sua età, solo che
ai miei tempi quelli come me erano considerati giganti. Invece ora ci sono
ragazzi in divisa, professionisti o di leva, regolari o irregolari, che con un
pugno gli potrebbero fracassare la testa. Gente addestrata, che conosce la boxe
e tutti i trucchi, gente dalla quale Gianni era sempre stato alla larga come
gli avevo insegnato io e come aveva imparato da solo: usava la ragione, si
mostrava sicuro e faceva riflettere anche il toro, se ce l’aveva di fronte.
Ora non so
perché quella domenica mi perdevo dietro a questi ragionamenti: lui non aveva
niente da temere, in Ungheria non sarebbe andato. L’esercitazione Nato era
stata rinviata e forse avrebbe fatto le stesse manovre in Friuli. Così, se la
sera non si fosse sentito troppo stanco, sarebbe uscito con i camerati, i
compagni di branda, altri ragazzi come lui, amici, a mangiare tutti insieme una
pizza. Verso le nove avrebbe fatto risuonare il telefono di casa con il
cellulare e noi lo avremmo potuto chiamare.
“Come stai?”
“Uno schifo,
non vedo l’ora di andarmene da questo schifo!”
“Uno schifo è
la vita militare,” gli dirò, “ma anche fuori è dura, se si lavora onestamente.
E tu questo devi fare, quando finirai. Tieni duro e…goditi la vacanza!”
Avremmo riso
insieme, e lui avrebbe parlato alla mamma e soprattutto alla sorella. Era lei,
di noi tutti, quella che amava di più in questo periodo: lo capiva, gli teneva
i contatti, non aveva addosso la nostra paura e non faceva prediche.
Benedetti
ragazzi! Uno è bello, due è bellissimo, ma che fatica! Però siamo una famiglia
unita. E davvero, pensavo, questa guerra non ci voleva, alle porte di casa, con
un figlio in divisa!
A me era
toccata nel 1971. Avevo rimandato nel 1969, benché abile arruolato, per gli
studi universitari. Ero rimasto indietro con gli esami e così, invece di
presentarmi a Orvieto, mi presentai a Baggio, all’Ospedale Militare. Lì poterono
constatare che non litigavo con nessuno; che lasciavo mi tagliassero i capelli
cortissimi e non frequentavo brutte compagnie. Constatarono che me la cavavo a
dama, persino con il sergente; che tenevo in ordine la branda e non pregavo il
mattino, ma stavo alzato in piedi, con la testa abbassata, in segno di
rispetto.
Il Colonnello
mi chiese: “Francesco, dimmi un po’: tu lo vuoi fare o non lo vuoi fare il
militare?”
Io, preso alla
sprovvista, risposi, senza saperlo, come risponde il soldato:
“Se c’è da
farlo, lo faccio, signor Colonnello, ma se posso evitarlo…”
E così: “Vai
pure,” fu il suo commento.
E credo che
pensò: “Invece del Granatiere facciamo fare il Pompiere a questo Francesco,
nell’eventualità capiti una brutta alluvione.”
Per questo
feci il servizio militare da pompiere, a Milano, nella mia città, senza
bruciarmi mai.
Quando fu per
mio figlio Gianni non c’era posto e presentammo la domanda troppo tardi,
avevamo un reddito abbastanza elevato, e così per questo lui è Alpino, in
Friuli.
Ricordo che nel 1968, mentre mi trovavo in Piazza
Duomo per protestare a favore della libertà per la Cecoslovacchia, pensai che
se fossi nato moscovita, per età avrei potuto essere su uno di quei carri con
la stella rossa. Avrei potuto, pensavo, ma non sarei stato disposto: in guardina,
piuttosto, per insubordinazione o in qualche ‘manicomio’, perché invece di un
falso socialismo amavo la pace e la libertà. La Pace e la Libertà, l’una
condizione dell’altra, reciprocamente, come avrei capito davvero, sapendolo
anche sostenere correttamente, solo molto, molto più tardi, ormai insegnante.
Ripensare a
quegli anni non mi faceva bene, perché come tutti nel 1989 m’ero illuso che
sarebbe cominciata, finalmente, una nuova era: potevamo a Est e a Ovest tutti
appendere al chiodo il coltello e usarlo solo per sbucciare le mele.
E invece venne
il 1991 in Russia, le due guerre, prima d’Iraq e poi di Somalia, e ora
quest’altra, in piena Europa, lungo il Danubio, micidiale, perché si innesta su
una crisi civile dai contorni oscuri, che coinvolge popolazioni europee. Ma
l’aspetto più terribile non era nemmeno questo, bensì il fatto che potevo
essere coinvolto non solo come cittadino – in quanto cittadino lo ero già fino
al collo – ma come padre, direttamente.
I figli sono
altre persone, non la nostra copia, ma mi sembra che in essi investiamo così
tanto di noi, a loro diamo di noi ogni cosa in maniera così esagerata che non
riusciamo più a staccarci da loro, come fossero la nostra mano destra. E parlo
di padri, come me. Per le madri, poi, è ancora più forte l’attaccamento – per
natura – ma anche perché il ricordo della gestazione e del parto è sempre
presente, e quindi ‘sentire’ il proprio respiro come quello del figlio, quello
del figlio come il proprio, è per loro parte dell’Esperienza, non della Fantasia.
Quando è preoccupata per uno dei suoi figli, una madre sente accelerarsi il
battito del cuore, le mani cominciano a tremarle e gli occhi le si bagnano di
calde lacrime. Così è mia moglie, così, immagino, tutte le mogli che sono
madri. Paradossalmente, la mia credo che senta a questo modo anche quando si
preoccupa per me, ed è una ragione importante dell’amore che le porto. Ma anche
questo suppongo sia la regola, non l’eccezione.
Una volta,
ricordo ancora la conversazione, parlando con amici sostenevo che senza
l’agosto 1945 non saremmo forse ancora vivi. Paradossalmente alla Bomba
dovevamo, secondo me, la nostra esperienza, come cittadini italiani, priva di
guerra. E parlavo, naturalmente, della guerra in casa, dei bombardamenti e dei
combattimenti tra luoghi e strade conosciuti, di combattimenti accaniti,
feroci, senza tregua. Quasi tutto il resto del mondo, lo sapevo molto bene,
sanguinava terribilmente: feroci dittature, terrorismo, mercenari sanguinari e
morte ovunque. C’erano tra le potenze "bracci di ferro" che mettevano
a ferro e a fuoco paesi grandi come la Francia o l’Italia; ma c’era anche
spazio per noi, allora ragazzi, di batterci per la Pace, di essere solidali con
gli innocenti o coi deboli, solidali, spesso, con chi aveva ragione da vendere.
Ora, pensavo,
non era più così. Non solo era incerta la nostra ragione, non solo erano spesso
incomprensibili i motivi veri del contendere, perché, paradossalmente, l’enorme
quantità d’informazione di cui potevamo disporre si trasformava sempre più in
un rumore caotico e confuso, dal quale faticavamo a districare l’essenziale…
non solo per questo, ma anche per il peso dell’enorme responsabilità che ci
portavamo addosso.
Non avevamo
più diciotto o vent’anni come nel 1968, non potevamo chiamarci fuori,
protestare come se nulla di quanto avevamo fatto da allora non c’entrasse
nulla, come se potessimo ancora dire: “Questo mondo non ci piace!”
Era il nostro
mondo ed era quello che eravamo stati incapaci di migliorare insieme a tutti
quelli come noi sparsi in ogni luogo del pianeta. Tutti noi, ragazzi pacifisti
e rivoluzionari di allora, oggi genitori di questi altri ragazzi che si scannano.
Non il mio per
fortuna. Buono d’indole, intelligente e autonomo, stava ai margini. Ma quanta
violenza aveva sotto gli occhi? Quanto schifo era costretto a vedere? E quanto
di questo schifo lo contagiava? Poco, speravo, ma ero molto preoccupato.
Non fuma, non
beve, per esempio, e mi rimprovera continuamente per le micidiali sigarette che
mangio. Per fortuna vede che è l’unico veleno che assorbo con regolarità e,
purché non glielo butti in faccia, me lo perdona.
È di questo
mondo la bellezza e anche la bruttura. Come un cielo stellato e fresco è
diverso da uno grigio, cupo, troppo caldo e umido, così ogni cosa. Lo impariamo
tutti, ma non ci aiuta. Il vero aiuto l’abbiamo quando dalla bruttura sorge una
luce amica, magari frutto di nostro impegno; quando, per sopportare il freddo
ci abbracciamo con qualcuno e ci scaldiamo; quando per sopportare la fame,
dividiamo equamente il poco o tanto che abbiamo; quando calmiamo la sete allo
stesso modo, un sorso a testa; quando comprendiamo che sono queste esperienze a
fare della vita quello che è: un’avventura meravigliosa e in certo senso soprannaturale.
Ah, che anno
il 1999! Finisce un millennio, finisce un secolo terribile e fantastico, ma noi
siamo, come Einstein constatava, ancora primitivi. Ma non era Freud che poteva
dargli risposta, secondo me. E nemmeno Darwin, così mal compreso. Cristo,
forse. Ma se a Cristo togli la resurrezione, la speranza di una vita migliore
in un mondo migliore, se a Cristo togli la sua azione quotidiana, come fosse
oggi presente ogni momento, resta solo l’uomo giusto che soccombe.
Forse di
questo avrei voluto parlare a Gianni, senza presunzione, come fossi uno dei
suoi amici o il suo insegnante, ma sapevo già che non sarei mai stato capace di
farlo.
Francesco con questo peso addosso si coricò,
finalmente, ma non gli riuscì subito di addormentarsi. Non svegliò sua moglie,
nonostante sentisse questa pena addosso, di cui, forse, una carezza di lei e un
suo bacio assonnati sarebbero stati la giusta medicina. E quando la donna,
tempo dopo, si alzò, Francesco ancora indugiò. La sentì preparare il caffè in
cucina, recarsi sul balcone a controllare che la divisa di Gianni si fosse
asciugata e sedersi infine. L’immaginò con gli occhiali sfogliare una rivista
di annunci che usava per arrotondare il loro reddito: aveva amiche che
desideravano cambiar casa, e lei le aiutava volentieri, dietro un onesto
compenso per il tempo e la professionalità impiegate a trovare l’acquirente e a
combinare l’affare. Sentì, Francesco, il caffè bollire, ma quando vide la
moglie sulla soglia della loro camera, prima che lei lo chiamasse, chiuse gli
occhi e finse un sonno profondo. Lei non lo disturbò e tornò in cucina. Tenne
così, Francesco, gli occhi chiusi a lungo e respirò in modo regolare e riuscì
ad addormentarsi davvero, finalmente rappacificato.
Erano le sei del pomeriggio quando si svegliò
d’improvviso. Squillava il telefono: era Gianni. Dal parlare della moglie capì
che il ragazzo le comunicava che sarebbe restato fuori a mangiare e che anche
la sorella l’avrebbe raggiunto, perché i
ragazzi frequentavano ormai da tempo gli stessi amici. Ne fu contento. Era
domenica e lui e la moglie avrebbero potuto restare soli come due innamorati
appena conosciuti, cenare e poi guardare insieme un programma sulla salute, che
tanto piaceva ad ambedue. Come quello sulla vita degli animali, dove queste
creature televisive compensavano, coi loro modi e nel loro ambiente naturale,
l’artificiosità dell’ambiente urbano in cui erano costretti a vivere.
“Ehi, ti sei svegliato, finalmente! Ne avevi di
sonno. Vuoi un po’ di caffè?” disse Maria tutto d’un fiato, quando lo vide
alzato, preparandosi a scaldarlo.
E aggiunse: “Ma è naturale: non festeggiamo il tuo
compleanno, oggi?”
“Proprio così: cinquanta giusti giusti.”
“Però sembri ancora un ragazzo.”
“E già, per questo ho la barba bianca e se non la
taglio ogni mattina per tutto il giorno faccio pena.”
“La barba che c’entra? Parlo di tutto il resto.”
Maria scherzava, ma davvero i suoi complimenti erano
sinceri. Lei lo amava sempre più per come era lui stesso, compresi i suoi
difetti e le piaceva sempre più stare nella stessa casa con lui, non solo
perché era padre dei suoi figli.
“Pensa alla lucidità che sai esprimere a volte,
oppure a come sei capace di correre dietro al nostro cane. Pensa a come è
fresco il tuo viso dopo che ti sei rasato e…”
“Per te, amor mio. Per te taglio barba e baffi... e
mi profumo.”
Francesco l’abbracciò e, lieve, le regalò un bacio.
Sarebbero stati liberi, quella sera, di cenare a
lume di candela, liberi di abbracciarsi fingendo che l’indomani non sarebbe
stato un lunedì.
E così fecero. Ossia, presero due candele, cenarono
sobriamente, finendo il ‘tiramisù’ e dopo la televisione, solo due parole,
tanti baci e tanta passione. Quando i ragazzi rientrarono, finsero di non
essersi svegliati. Era tardi, ma non troppo. Sorrisero, loro due genitori, e
ripresero a dormire fino al mattino.
Quel lunedì, Giovanni doveva rientrare e aveva il
treno alle cinque del pomeriggio, come al solito. Francesco, con tutta la
famiglia, cane compreso, andò come sempre ad accompagnarlo alla stazione e la
sera gli poté parlare, come ogni sera, al telefono. Poi si coricò presto e non
volle nemmeno guardare la Tivù: fece un tentativo con un libro, ma spense la
luce quasi subito. Come un sasso riposò, perché il lunedì era sempre un po’
faticoso per lui: le ore di lezione lo stancavano di più, e l’inquietudine che
aveva addosso, ormai da settimane, gli faceva pesare ogni cosa. Per consolarsi
sosteneva di vederla anche negli altri, negli alunni nervosi, nelle colleghe
svagate e così mormorava tra sé: “Tutti siamo colpiti e tutti sentiamo di stare
muti.”
Certo, c’era qualche cartello appeso in bacheca o
qualche titolo di giornale affisso a un muro, ma nessuno si soffermava a
guardare troppo a lungo. Tutti si concentravano sul programma, sulle materie e
basta: insegnanti, personale e alunni. E Francesco costatava come questa
guerra, giorno dopo giorno, stava pervadendo ogni cosa, non solo i ‘media’.
I giornali, in particolare quello che comprava con
regolarità, ne parlavano ampiamente, con resoconti giornalieri di inviati e
dichiarazioni e interviste e fotografie terribili e racconti di protagonisti.
Il suo giornale preferito aveva assunto una posizione decisamente pacifista, ma
non solo per questo lo apprezzava. Il titolo di prima pagina, il giorno di
inizio della guerra, era stato: "Sangue d’Europa", ripreso da quello
di un libro scritto da un combattente, poi rimasto ucciso, dell’ultima Guerra
Mondiale.
Francesco condivideva appieno. E raccoglieva ogni
numero di questo e di ogni altro giornale gli sembrasse interessante, perché
voleva esaminare con attenzione ogni passaggio, perché voleva comprenderne bene
le dinamiche. Soprattutto se si stava rischiando, come temeva, di farsi
trascinare in una spirale nella quale tutti potevano anche perdere la testa. E
annotava ogni cosa gli sembrasse rilevante, cercando di unire i vari tasselli,
come si suol dire, in un quadro che rivelasse qualcosa di più della giustezza o
meno, dei torti e delle ragioni, dei protagonisti: voleva capire come s’era
potuta formare la catena di avvenimenti che stavano sconvolgendogli la vita e
oscurandogli il futuro.
Per questo non gli sfuggì la notizia che le
esercitazioni in Ungheria si sarebbero fatte ugualmente, come niente fosse, al
confine con la Serbia. E fu un colpo per lui. L’intervento di terra, di cui
tanto si parlava in quei giorni, con gli elicotteri da combattimento in piena
esercitazione sul confine albanese, poteva avvenire in maniera abbastanza
rapida e sicura non da lì, ma solo dal confine ungherese. Fu un collega che
conosceva la regione a dirglielo, parlandone.
Anche Giovanni, su richiesta, aveva ammesso che
erano stati tutti avvertiti, ma aveva aggiunto che il suo nome non si trovava
nell’elenco, anche se nessuno dei commilitoni di cui si fida aveva potuto
vedere questo famoso elenco. Addetto al magazzino delle armi, sembrava quindi
che il ragazzo l’avrebbero lasciato in Italia, in caserma.
Francesco era molto allarmato lo stesso per queste
manovre, Maria tremava all’idea. Temevano un sostegno russo diretto in caso di
intervento di terra, temevano che fossero coinvolti anche i soldati di leva
che, inizialmente occupati in esercitazioni, venissero alla fine impiegati, se
necessario, in operazioni di guerra guerreggiata. Un disastro!
Era sempre
così, pensai: mio padre non poté evitarlo, mio suocero neppure, e ora tocca al
loro nipote, l’unico maschio. Maledetta guerra, porco mondo! E io costretto a
non poter far niente. E cosa avrei potuto fare?
E che guerra,
poi! Delle peggiori immaginabili, con un odio smisurato lasciato libero
d’insanguinare e contagiare tutti i contendenti, quasi non fosse più possibile
un barlume di umanità, ma solo sete di potenza! E lui, mio figlio Giovanni,
ancora poco più d’un ragazzo, poteva essere spinto a forza a passare quest’inferno.
Sarà forte, mi
chiesi? Saprà restare umano, circondato dalla ferocia? E saprà sfuggire al
mostro orrendo che tutti ci aspetta, costretto da un ordine a cercarlo?
Accidenti a
me, mi dissi, che come lo struzzo non avevo voluto sentirne parlare nel ‘91,
quando tutto questo pasticcio era cominciato. Troppo occupato a crescere i miei
ragazzi, a portare avanti la mia famiglia, avevo lasciato alle spalle l’impegno
di un tempo e assistevo o indifferente o stupefatto a quanto avveniva intorno a
me. E così quando la situazione sembrò precipitare, io ne fui così sorpreso da
sentirmi un ingenuo.
“Mi sta bene!”
dissi a me stesso: “Ora mio figlio è coinvolto e io a far l’anima bella non ci
ho guadagnato nulla! Certo, sono un brav’uomo, ma che se ne fa Gianni di me,
ora che è solo con il suo destino?”
Però anche
l’amarezza che questo mio disinteresse di allora provocava in me, che senso
aveva, se non potevo fare niente per lui?
Giovanni
diceva che non lo avrebbero mandato, che io e la mamma stavamo esagerando, come
sempre, che gli sembrava che c’eravamo un po’ fissati, diceva che non era nell’elenco
e basta, non era nell’elenco e basta. Ma intanto non facevano tornare a casa
nessuno per quella settimana, e questo elenco non era pubblico in caserma. E
sul giornale leggevo che c’erano genitori come noi che facevano, nel modo
opportuno, richieste al ministero per sospendere le manovre in Ungheria. Ma al
governo furono sordi a ogni argomento, sostenendo che la decisione era stata
ormai presa da tempo e i nostri soldati di leva sarebbero partiti regolarmente,
perché la guerra in corso non li riguardava affatto, come se invece i loro
coetanei di mestiere non stessero combattendo in quel momento. Così dissero che
i soldati di leva sarebbero partiti alla data stabilita, per l’esercitazione
della NATO, proprio mentre si discuteva di intervento di terra.
Portai Maria e
Anna al cinema, una sera. Andammo a vedere: “Salvate il soldato Rayan”.
Curiosità mia e di Maria, ma per Anna, soprattutto, lo facevamo: perché capisse
meglio che cosa poteva essere la guerra.
Io e Maria ne
avevamo letto la recensione sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore. Era stata
la descrizione delle scene iniziali dello sbarco a convincere me, la vicenda a
convincere Maria. Io volli vedere queste famose riprese e, quando le vidi,
compresi meglio di quanto già non sapessi come fosse del tutto evidente che chi
riusciva ad arrivare illeso sulla spiaggia lo doveva quasi esclusivamente al
caso; e come fosse del tutto evidente che in un’azione di guerra di quel genere
- uno sbarco su una costa fortificata -
il valore di ciascuno c’entrava pochissimo con la sicurezza personale.
La confusione e il terrore regnavano sovrani in quei casi, e se ardore ci
voleva era soprattutto per il sacrificio. Si portava a casa la pelle con meno
difficoltà solo se si era inquadrati nella seconda ondata. E mi chiedevo: in
quale ondata metteranno Giovanni, nel caso venisse coinvolto, lui che colpisce
con disinvoltura il bersaglio, in esercitazione, con la bomba a mano? Non lo
metteranno forse in prima linea?
L’indomani Francesco fu nello studio del dott.
Gabrieli.
Gabrieli era un uomo minuto, aveva superato i
sessanta, portava un pizzo grigio e dei baffi dello stesso colore come fosse
ancora un moschettiere; i capelli corti, quasi a spazzola, erano quasi tutti
presenti sul capo, dello stesso colore del pizzo: grigio ferro. Per il resto
una figura minuta, ma solida, asciutta, abituata alla fatica. Se serrava la
mascella e taceva, se gli occhi neri ti fissavano poteva persino farti paura;
mentre, uomo buono e medico capace, stava studiandoti per capire meglio come
aiutarti. Ti ascoltava, ti visitava e quando finalmente parlava, non solo per
farti qualche domanda, potevi ascoltare la sua voce, calda e profonda e
sentirti già meglio.
Francesco invece aveva i capelli color del rame,
sporchi qua e là come di vernice bianca; gli occhi azzurri avevano la tonalità
un po’ stinta di un paio di vecchi jeans; la bocca piccola conteneva qualche
perla, ma ormai più opera del dentista che di sua madre; in compenso le mani
erano più espressive dei sopraccigli, o completamente fissi o perennemente
inquieti; infine un metro e ottanta di un corpo deforme sostituivano l’atleta
dei primi vent’anni. Ma il vero tracollo c’era stato a partire dai
trentacinque: lì aveva definitivamente acquisito il peso stabile di novanta
chili, malissimo distribuiti: il lavoro sedentario e un po’ di pigrizia gli
impedivano di sfruttare l’intatta agilità che era, nonostante tutto, riuscito a
conservare.
I due si davano del tu, uno insegnate elementare,
l’altro pediatra erano quasi colleghi, in campi diversi.
“Ciao, Gabrieli, scusa la quasi irruzione nel tuo
studio. Ho bisogno di dieci minuti solamente. Non si tratta di me e non di
visita. È che mi sento uno straccio, come poteva sentirsi mio padre nel 1940 o
mio nonno nel 1915, per dirla tutta.”
“In guerra? Non siamo in guerra.”
“Peggio, secondo me. Nel quaranta almeno si poteva
‘non belligerare’, nel quindici ‘non intervenire’. Qui ci tirano per la
criniera, manco fossimo ronzini riottosi, e ci mettono il morso in bocca, e
ci…”
“Calmati, Francesco, non esagerare!”
“Con migliaia di disgraziati perseguitati e
costretti a fuggire, scacciati e deportati, con le bombe a grappolo in
Adriatico… Ma l’hai vista la faccia del pescatore che s’è ferito, morso come da
una tarantola gialla e schifosa mentre si guadagnava il pane? Io l’ho vista
l’altra sera, assieme a quella della nonna albanese in carriola spinta da un
nipote lacero e affamato. Non le hai viste le donne serbe ballare sui resti
dell’aereo abbattuto, con le vesti disordinate, con gli occhi e le bocche di
chi non dorme da giorni? E gli altri, giovani soprattutto, con il loro ‘target’
dipinto sul viso o incollato sul cuore, manco fossero i colori con cui i
pellirosse si dipingevano prima della battaglia, i colori della morte? Non
sembrava anche a te…”
“Calmati. Cosa ti tormenta davvero?”
“Sono giorni che dormo da cani, sono inquieto e
provo un disgusto e una paura che non hai idea. Gianni è sotto leva in Friuli,
Alpino.”
“Ebbene? In Friuli, mica in Kosovo o in Albania.”
“Già, ma deve fare un’esercitazione. Alla Tivù non
ne dicono niente, ma su alcuni giornali se ne parla e proprio il suo
battaglione deve fare un’esercitazione Nato in Ungheria tra meno di una
settimana. È vero era prevista da tempo, ma mi hanno spiegato che se intervento
da terra ci sarà, tatticamente il territorio più adatto a farlo è proprio sul
confine serbo-ungherese, perché meno aspro, e potrebbe godere dell’appoggio
delle popolazioni ungheresi di confine e di quelle irredentiste in territorio
serbo. Insomma, chi mi assicura che il mio ragazzo non sia impiegato a fianco
dei professionisti e non vada a rischiare la vita per un servizio che…”
“Stai esagerando. Sono ripresi i negoziati, lo sai
bene, e questi sono quelli buoni, vedrai!”
“Dopo il ‘tragico errore’ dell’Ambasciata Cinese?”
“Proprio per quello, Francesco! Non possono andare
avanti così. La svolta ci sarà, e non sarà quella che vuole il generale Clark,
vedrai!”
Gabrieli scartò una caramella e se la mise in bocca.
Francesco se ne fece dare un’altra e lo imitò.
“Il tuo ragazzo non corre pericolo, stai
tranquillo.”
“Mi sono portato dei ritagli di giornali. Senti
questa: partiranno 60 ambulanze per l’esercitazione. Sono così pericolose
queste esercitazioni? Dieci treni trasporteranno i carri, dieci carri a treno
come minimo, quanti carri fanno? Questo solo dal Friuli, Gabrieli! Giovanni non
ci deve andare. Forse sarà solo per mostrare i muscoli e far pressione, ma si
credeva così anche a marzo. Io penso che stiano tutti perdendo un po’ la testa.
L’obiettivo dell’operazione, l’hai visto, è ormai apertamente rovesciare il
regime di Belgrado, ma quel maiale non se ne va, e…”
“Vuoi calmarti, accidenti! Come parli? E bada, io la
penso uguale su alcune delle cose che dici, ma…”
“Ma non hai un figlio in divisa d’Alpino con la
valigia pronta.”
“Sei sicuro che manderanno anche lui. Parte tutto il
suo plotone o…”
“Giovanni continua a dire che il suo nominativo non
c’è nell’elenco, ma l’elenco non è pubblico in caserma. Non ha avuto modo di
vederlo. Io temo fortemente che spediscano anche lui. Ma a parte questo, avrà
un’ultima licenza, prima dell’Ungheria: sarà qui venerdì. Possiamo fare in modo
che non sia costretto a rientrare? Che almeno partano senza di lui, perché
ammalato? Per questo sono qui, Gabrieli.”
Gabrieli aveva finalmente capito. Automaticamente guardò
il calendario. E disse: “Quando deve rientrare?”
“Dovrebbe fermarsi cinque giorni, quindi il martedì
successivo.”
“E lui cosa dice?”
“Che in Ungheria non lo manderanno e di non
preoccuparci, ma io per telefono non gli ho parlato di queste notizie che ho
raccolto e ho portato a te.”
Gabrieli tacque e fissò Francesco per quasi un
minuto. Poi, pacatamente, con la sua voce calda e rassicurante: “Tu sei troppo
sconvolto. Ora ti prescrivo qualcosa per dormire meglio. E Maria?”
“Uno straccio. Ma è Giovanni che…”
“Prendetele tutti e due! Sono calmanti ma fanno
anche dormire. Prima di coricarvi fatene uso e fra qualche giorno fatemi
sapere. Quanto a Giovanni, mandamelo lunedì mattina, parlo io con lui.”
Seconda parte
La Basilica di Santa Maria delle Grazie è troppo
famosa e ognuno sulla nostra Terra la conosce, anche per il Cenacolo Vinciano
che, nel Chiostro, è ancora conservato. Ma anche per la sua magnifica Cupola e
la sua forma armonica, come il corpo di una madre seduta, intenta ad allattare.
Se si arriva da Corso Magenta quest’aspetto può
sfuggire, perché sono il Sagrato e la Piazza, ottimamente conservati che
suggeriscono che della Chiesa della Madre si tratta.
Così, più fortunati di certi passanti distratti,
sono i turisti che giungono dalla Circonvallazione Interna parcheggiando i loro
pullman prima della piazza, offrendo ai loro occhi lo spettacolo della
facciata, del Sagrato e della Piazza.
La piazza è sempre piena di bambini e bambinaie,
nonne e nipoti che giocano con palle e palloncini colorati. Lì nessuno, nemmeno
i più grandicelli o quelli già giovanotti, gioca in modo rumoroso o chiassoso,
e persino i cani, scodinzolando, si rincorrono tra loro senza farsi male. Tutti
di fronte a tanta grazia architettonica stanno come in punta di piedi e sottovoce.
Certo, il tempo mostra soprattutto i suoi bei
mattoni rossi e bianchi, più dei marmi pregiati, come il Duomo. Quelli
scoloriti e scheggiati dalle intemperie furono presto e bene sostituiti con un
restauro intelligente: materiale struttura e composizione originale, usato per
cambiare quello logoro solo dov’era veramente necessario. Altrimenti, dove il
materiale d’origine s’era conservato ancora in buono stato, un paziente lavoro
con il cesello, centimetro per centimetro, lo riportava a vita nuova. Diverso
fu per l’Affresco Leonardesco. Occorse persino il calcolatore per misurare
attentamente e dosare giustamente i colori. Come molti sanno Leonardo usava
colori fini e tenui di sua fabbricazione, che avevano il solo difetto di essere
delicati; è così che il Maestro rendeva il pallore del viso o delle mani di
Gesù e degli Apostoli, tenue il colore
del vino e quasi grigio il pane.
Allo stesso modo Francesco e Maria avevano il viso e
le mani: pallide, scarne e i loro abiti, di tenui colori pastello, sottolineavano
non l’ancor bella presenza dei due genitori, abbastanza giovani e sani, ma il
tremore di quei loro corpi che li rappresentavano.
Però l’allegro carosello dei bambini, la vivacità
dei loro calzoncini o delle loro gonnelline, dei loro palloncini, la voce
sottile e acuta dell’estasi del divertimento che provavano, permetteva ai due
di avvicinarsi al Sagrato con labbra tremanti, guance esangui, ma con occhi
ridenti.
Insieme entrarono nella penombra e il silenzio
solenne della Basilica li avvolse. Ma questa volta non si sarebbero soffermati,
come in precedenza avevano sempre fatto, ad apprezzare le meraviglie artistiche
della Basilica, non si sarebbero diretti all’altare principale e non c’erano
funzioni in quel momento. Ad una piccola Cappella laterale preferirono
rivolgersi, per sentirsi come in una comune Chiesetta di campagna. Ma allora
perché si trovavano lì, e non in quella di quartiere? Noi che li conosciamo
bene sappiamo che volevano proprio recarsi nella Basilica Milanese di Maria,
Madre e Dispensatrice di Grazie e per questo avevano fatto tanta strada.
Maria, moglie di Francesco, voleva parlarle per il
suo Giovannino. Alla Madre di tutte le madri, alla Madonnina delle Grazie,
Gentile e Benedetta, da madre avrebbe parlato.
Entrando aveva lasciato il braccio del marito e in
punta di piedi s’era segnata con l’acqua benedetta, come se un’arsura terribile
provasse nel cuore. Senza il marito - che si teneva a una certa distanza, in
segno di rispetto - volle inginocchiarsi sola, là dove lunghe file di lumi
bianchi ardevano d’amore e di speranza. Si segnò di nuovo, e recitò, in segno
di saluto, muovendo appena le labbra, la poesia bella che fa del Figlio un
Frutto e della Madre la Madre di tutti i Peccatori. Poi le s’inumidirono gli
occhi e così coprì il volto con le mani tremanti e pallide.
Disse: “Sai, Madonnina mia, che è come se ti
vedessi? E che i tuoi occhi dolci di Madre li sento così vicini che per
parlarti bisbiglio?”
E: “Tu lo sai, non sempre ti cerco, come adesso, in
Chiesa. Ma ti penso sempre, credimi, e da te mi faccio ispirare. Ecco,
Madonnina mia, noi tutti siamo preoccupati. Ad agosto Giovannino finisce il suo
servizio. Potesse darmi un’altra nipotina, un giorno, come Paoletta, lui, che
somiglia tanto a me e al nonno. Lui, dei più giovani di noi, è l’unico maschio.
Io lo so che fa il suo dovere, lontano da casa, e anche tu lo devi sapere, se
lo vedi di lassù. E ricorderai com’era piccolo e vivace, e quanta fatica
abbiamo fatto per aiutarlo a diventare uomo. Un uomo buono, Madonnina mia.”
E: “Ora può correre grave pericolo, ma tu aiutalo!
Aiutalo, anche se qualche volta ho peccato, lo sai! Aiutalo se a volte l’avrà
fatto anche lui: sarà stato per leggerezza. Perdonalo, Madonnina mia e
proteggilo lo stesso, se lo puoi.”
Il sussurro della donna filtrava dalle dita tremanti
mentre ogni fiammella di tutti i mille lumi bianchi che si consumavano lì
accanto oscillava un poco.
Lì si trovava Francesco, immobile, con il capo
chino, silenzioso. In quel momento proprio non riusciva a sollevare il capo che
per guardare i lumi. Variamente consumati e di varia grandezza, tutti vivi di
fuoco, si consumavano d’amore. Li guardava tenendosi a rispettosa distanza.
Presso il candeliere c’era un’urna per l’offerta e un contenitore sempre
fornito di lumi d’ogni dimensione: piccoli, per i bambini, grandi per tutti gli
altri, infine grossi per chi troppo soffriva e molto aveva bisogno. L’offerta
richiesta era compensata dalla buona cera messa disposizione e comprendeva la
cura di un’apposita persona che badasse non si spegnessero accidentalmente.
L’offerta era l’amore pieno di speranza, non la speranza che attende amore.
Francesco non poté evitarsi di notare, infine, che di banconota minima e
facoltativa si trattava.
Pensò alla sventura di morire, che tocca a tutti e che
potrebbe ora toccare a suo figlio, e come sua moglie stesse piangendo pregando
a mani giunte per la stessa paura; pensò alla sventura di morire senza colpa e
alla morte di Cristo; e, quasi senza rendersene conto, si trovò a immaginare
come in quel momento entrambe le madri stessero, in maniera misteriosa,
scambiandosi davvero il cuore e trovassero ambedue conforto nel restare unite.
Lui, Francesco, non aveva dubbi sul destino che
tutti ci aspetta: sempre in agguato, sempre pronto a fare con le fibre di noi
persone un pasto orrendo; e se potesse dirlo senza trasalire, sosterrebbe che
l’anima che ci batte nel cuore si staccherà impaurita e per salvarsi fuggirà
smarrita da tanto orrore.
Quando sua moglie si alzò e Francesco le vide
prendere un cero e accenderlo, la imitò prontamente. Forse perché sapeva che
non nell’eventuale medaglia alla memoria l’anima di Giovanni, Alpino d’Italia,
si sarebbe sentita davvero bene e finalmente al sicuro, ma brillando in quelle
due deboli fiammelle.
Quando tornarono a casa, i due genitori erano ancora
molto preoccupati, ma meno tristi, e con un po’ d’aiuto riuscirono a riposare,
quella notte, meglio dei giorni precedenti. Più uniti fra loro, sentendo la
loro stessa famiglia, tutta intera, più unita ad altre analoghe.
Per questo Francesco il giorno dopo si recò
volentieri da Padre Anselmo, un sacerdote che conosceva da tanto tempo i suoi
ragazzi, e Giovanni tanto aveva imparato da lui. Francesco apprezzava nel
Sacerdote le molte qualità umane e amava il modo e lo spirito con il quale
diffondeva la parola dei Vangeli.
Anselmo possedeva una semplicità di modi che
rivelava grande esperienza e sentimenti elevatissimi. Francesco era sempre
stato felice che la sua famiglia se ne fosse, in più occasioni, arricchita.
“Caro Padre Anselmo,
ci conosciamo da tanti anni e abbiamo parlato di tante cose. Io le rivelai il
mio non credere, ma lei lo stesso, da buon amico, seppe accettare di parlarmi,
non tanto per aiutarmi a comprendere il mio eventuale errore, quanto per
portarmi le parole del Vangelo, nel bel modo che lei ha di porgerle a tutti.
Lei ricorderà
quanto io stimi l’insegnamento di Gesù Cristo, nonostante sia convinto di come
l’uomo e la specie umana in quanto tali siano una specie naturale tra le altre.
Ricorderà, anche, come la vera novità del suo insegnamento consista per me
nell’ampiezza che Lui dava al principio: Ama il prossimo tuo come te stesso.
Se voglio
riparlarne oggi, è perché in questi giorni mi sono provato a esaminare più in
dettaglio questo principio, come se non fosse soltanto un principio cristiano,
ma qualcosa di più ampio, che concerne il vivere stesso della nostra specie. Ho tentato di scomporre la frase che
lo contiene in tre parti, esaminandone ciascuna separatamente, in dettaglio,
per intenderla meglio. Se vuole glene posso parlare adesso. A me sarebbe di
grande aiuto farlo."
"Parla
pure, Francesco. Ti ascolterò volentieri,
come ho sempre fatto."
"La
ringrazio, Padre. E, vede, per cominciare ho preso in esame la prima parola:
Ama. Cosa significa amare, qui? In questa frase, intendo. E così constatavo che
provare un sentimento di amore, che sembra la cosa più naturale del mondo, è
stato forse sempre, o forse solo per alcuni, una cosa estremamente difficile. E
vedevo inoltre che bisogna intendersi.
Nel parlare di
ogni giorno si possono ‘amare’ i dolci, non solo le persone, si possono ‘amare’
i fiori o gli animali, non solo le persone. C’è allora un modo di amare che è
un ‘preferire’, un ‘gustare’, un modo di ‘amare’ che è ‘provare piacere a
guardare’ un fiore, a ‘odorare’ il suo profumo, un ‘amare’ che è ‘giocare’ con
un animale al quale si bada.
Amare una
persona sembra però essere un’altra cosa, più profonda, più ampia. E mi spiego
subito: nel caso dei dolci, dei fiori e degli animali, posso parlare di amore
come di una relazione con un ‘oggetto’, mentre nel caso di una persona, devo
pensare a un ‘soggetto’.
Credo che in
definitiva l’insegnamento di Cristo sia stato soprattutto quello di insegnarci
a vedere, sempre e chiunque esso sia relativamente a noi, l’altro uomo come un
‘soggetto’. Un Soggetto che per Gesù è ‘il prossimo tuo’, anche quando non
capisce la tua lingua.
Prima di Gesù
il prossimo era esclusivamente qualcuno che apparteneva alla nostra gente; dopo
Gesù è l’Altro, la creatura umana che non sono io.
Tutto
l’Anticristo di Nietzsche, che ho letto recentemente, è una critica feroce, e
anche un po’ squilibrata, proprio a questo principio. Nietzsche sostiene che
questo modo è un modo astratto di ragionare, quindi innaturale e quindi dannoso.
Per lui, credo di capire, posso amare solo chi appartiene alla mia gente,
quindi chi conosco, chi ho delle ragioni di amare, non posso amare l’Uomo,
perché se sono Tedesco amerò i Tedeschi, molto più degli altri e così via.
Questa critica di Nietzsche credo che abbia il suo fondamento in questo: lui
conosceva e apprezzava l’opera di Darwin e l’animale, appunto, ama, se così si
può dire, chi appartiene al branco e vive nello stesso territorio. Tutti
vediamo certi cani che non si conoscono che quando s’incontrano casualmente il
più delle volte ringhiano l’uno contro l’altro. L’uomo naturale non sembra
essere stato meno feroce, sia che avesse la pelle bianca o scura, gli occhi a
mandorla o il naso camuso, sia che vivesse in Europa o in Africa, nelle Americhe
o in Asia, ai Poli o in Australia.
Gesù, però,
sosteneva che anche l’Estraneo è uomo, sosteneva che anche lo Straniero è uomo.
E che il Dio che adoriamo, non è solo il nostro dio, ma è Dio per tutti gli uomini.
Questo è
allargare le prospettive, è avere vista lunga e immaginazione, è essere davvero
ispirati! È capire come, al di là delle differenze, ci sia un’identità più
forte. L’altro essere umano è quindi come te stesso, non solo perché a
guardarlo senza pregiudizi è del tutto evidente, ma perché così vuole Dio, che
lo ha creato esattamente come te, anche se coi lineamenti diversi.
Solo che,
Padre, lei sa bene come sembrerebbe la cosa più semplice del mondo sapere chi
si è, che cosa si è, mentre invece è spesso molto difficile. Io che a volte
sono preso da dubbi e contraddizioni, so che mi capita di smarrirmi e non
capirmi più. Perché faccio questo? Perché penso quell’altro, se tutto dovrei
fare tranne che comportarmi così? Oppure anche: perché sbaglio, non metto
attenzione quando costerebbe così poca fatica?
Io che mi
affido ai sensi e tendo a credere di essere solo un corpo biologico in mezzo ad
altri corpi biologici, che penso all’animo mio solo come ad un modo che ho di
esistere e di organizzare il mio corpo, che non credo di essere stato creato ma
procreato… io, a volte mi domando cosa sono, chi sono, qual è la mia natura?
Sentirsi
materia non significa sentirsi una pietra. Nemmeno il mio cane si sente così.
Lui, anzi, sa benissimo di essere un cane. Ma credo che nel sentirsi cane non
sia prevista alcuna relazione interna se non immediata, riferita a qualche cosa
di particolare, legata cioè alla soddisfazione di un bisogno per mantenersi
vivi e sani. Così mi sembra che lui sappia sempre come comportarsi con la
femmina, quando la trova, e riesca persino ad amarla, a modo suo. Sa
comportarsi con se stesso e si rispetta, a modo suo, cioè non ha comportamenti
autodistruttivi, e così via.
Io, invece,
che mi sento essere umano, che possiedo un cervello con una massa e una qualità
di gran lunga superiori a quelle di qualsiasi altro vivente, mi rappresento a
volte - non l’unico in questo - così: vivo dentro un corpo e vivo il mio corpo
come se fosse una cosa fuori di me.
Questo
complica enormemente ogni mio comportamento. Cosa significa amarmi, ovvero
rispettarmi, se mi sciupo senza criterio, facendomi mancare il sonno? Se non
bado alla salute, fumando mille sigarette; se ingrasso enormemente pur non
avendo necessità di cibo… insomma, ‘se mi amo così male’, da che dipende?
Eccoci
arrivati al punto: Ama il prossimo tuo come te stesso, non è affatto una cosa
semplice. E non ci si può facilmente intendere sul significato di queste
parole. Eppure secoli di tradizione cristiana ci fanno capire molto bene di che
cosa si tratta: avere relazioni interpersonali davvero umane. L’uomo è Uomo, e
non un animale qualsiasi, quando sa fare questo, quando questo gli viene naturale.
Già, ma il
cristiano chiede aiuto a Dio per riuscirci, ricorda le parole del suo unico
Figlio per ispirarsi; l’altro, che cristiano non è, che come me non ha alcun
dio a cui rivolgersi, dove può trovare consiglio?
Mi scusi,
Padre Anselmo, se parlo così, ma io sono troppo razionale per poter davvero
affidarmi in qualcosa di lontano ed
estraneo che agisce su di me purché io abbia Fede. Credo questa un’illusione,
che aiuta, non dico di no, anche persone degnissime, come poteva essere
Manzoni. Solo che io mi sento come si sentiva Leopardi. Lei che conosce
senz’altro entrambi, perché entrambi sono stati sommi poeti e scrittori del
nostro paese, capisce che cosa intendo dire.
Recentemente
ho letto anche vari testi di psicologia e uno, in particolare, mi ha colpito.
Uno scritto di Jean Paul Sartre sulle emozioni, uno scritto del 1939, che avevo
trovato anni fa in una bancarella, e che solo nei giorni scorsi ho letto molto
attentamente.
Ne voglio
parlare solo per un aspetto: nel mio sentirmi materia, pensavo di essere simile
a un meccanismo. Mi dicevo: perché un meccanismo puro non può essere anche un
meccanismo ragionevole? Ovvero, perfettamente equilibrato e capace di assolvere
tutte le sue funzioni?
Dal punto di
vista fisico, lo sono infatti. Ho avuto la fortuna di nascere sano e salvo che
per una brutta ernia, che forse era congenita, ma che non mi ha ucciso
quand’ero bambino, non ho alcun difetto fisico. Allora, perché, meccanismo
fisico perfetto, sono preda a volte della disperazione?
Parlando delle
emozioni, Sartre sostiene che la razionalità dell’essere umano, quando si trova
sottoposto a una forte emozione, viene meno e che c’è una regressione, come un
ritorno a un modo magico di vedere se stessi e il mondo. Come se la visione
magica del mondo non sia solamente una antica e primitiva maniera, ma al
contrario la visione razionale una fragilissima conquista moderna, come se la
natura umana non possa evitare di cedere periodicamente a quella sotto la
spinta d’un’emozione; una natura umana che non può evitare di precipitare in
situazioni e vissuti che spesso la tormentano, ma che non hanno alcuna realtà
fisica reale, che non può evitare di provare terrore e paure del tutto privi di
fondamento.
Faccio solo un
esempio, tratto da Sartre. Di notte vediamo un volto alla finestra illuminato
dalla Luna e ci coglie il terrore, come se la finestra non ci fosse e non fosse
ben chiusa, come se la vista di un volto umano, e non del muso di una bestia
feroce, non rivelasse che si tratta di una persona come noi, che forse sta solo
cercando di comunicarci qualcosa e non vuole farci del male.
Sartre
sostiene che a volte ci facciamo prendere dal terrore proprio come se la finestra
non fosse chiusa, come se non esistesse addirittura. E io sono convinto che
sarebbe lo stesso se la finestra, oltre a vetri spessi e serratura chiusa,
avesse molte sbarre di ferro a proteggerla e quel volto, quindi, non potrebbe
mai attraversarle.
Sartre dice
che quando si è profondamente emozionati, come in questo caso, si può urlare di
paura, senza rendersi conto che siamo al sicuro. Come avviene nei sogni, dove
il mondo non è un mondo regolato da leggi meccaniche, per lo più determinate in
maniera univoca e che ormai conosciamo bene: a tale causa, tale effetto.
Sartre dice
che è come se d’improvviso lo scordassimo e ad un mondo reale, ben conosciuto e
familiare, sostituissimo un ‘altro mondo’, una pseudorealtà in cui le sbarre
potrebbero dissolversi.
L’esempio che
ho appena riferito dimostra chiaramente che cosa succede: la finestra
perfettamente chiusa, le sbarre, che un minimo di razionalità ci permetterebbero
di ricordare come fatte di ferro e quindi strumento di nostra sicurezza,
diventano non l’ostacolo insormontabile per il volto umano, che forse solo la
luce della Luna rende minaccioso, ma si trasformano in noi nella spaventosa
cornice di quel volto e possono addirittura accentuarne l’aspetto sinistro.
Terribile!
Ecco, in preda
a una emozione, a me capita di avere paure simili. Ovvero, devo ammettere che
anch’io regredisco fino al punto da avere paure ingiustificate, sentendomi
indifeso anche quando sono al sicuro, come se i muri della mia casa non fossero
di pietra solida, ma d’aria. Sono costretto a constatare, con Sartre, che non
sono un meccanismo naturale così ‘puro e semplice’ e che una visione magica del
mondo, ritenuta primitiva, quella dove esistono pericoli irreali, come quelli
che il buio e il pallore della Luna possono suggerire senza che davvero
agiscano negativamente, è ben presente anche in me, uomo moderno. Quasi che sia
il biologico stesso in me a organizzarsi fin dall’inizio nel suo rapporto con
il mondo come se questi fosse magico e incomprensibile, oltre che imprevedibile.
Da bambini o
quando si sogna, il mondo ci domina e siamo dipendenti da esso totalmente. Nel
sogno, da un mondo fittizio che da soli ci creiamo; da bambini anche nella
veglia dipendiamo, soprattutto i primi anni, in tutto e per tutto dagli altri.
Crescendo, il nostro organismo diventa effettivamente un meccanismo fisico
autonomo e perfetto in tutte le sue parti, ma è come se il ricordo di
quell’impotenza ci trascini, anche da adulti, a regredire in balia
d’un’emozione di paura che può sempre catturarci all’improvviso. Così il mondo
non è più lo spazio e il tempo in cui agiamo, ma si trasforma, nell’animo
nostro, nell’assurdo e spaventoso paesaggio che ci avvolge nei nostri incubi,
come se la Natura che dominiamo tornasse quella terribile e ostile dell’epoca
delle palafitte.
È questa la
caduta? È qui che il ‘cogito’ cartesiano mostra la sua fallacia? Non perché
falso, anzi, ma perché una razionalità come quella del ‘cogito’ è possibile a
ciascuno solo in condizioni ottimali.
Nella nostra
vita siamo così frequentemente preda di stati d’animo confusi e di paure
irrazionali, che a stento riusciamo a scacciarle, quasi fossimo costruiti male,
difettosi o inadeguati, come se a destare meraviglia sia a volte proprio il
comportamento che si ispira all’amore cristiano. Per me, che forse cristiano
non sono, significa intendere l’altro come un soggetto, razionalmente e
sentimentalmente, e non come oggetto di
miei desideri o capricci, oppure di bramosia di possesso e di potere.
Caro Padre
Anselmo, mi scusi se sono passato da un argomento all’altro, magari in modo
confuso. In questi giorni sono molto turbato e credo di essere in quanto uomo
ben lungi dal possedere ragionevolezza per natura, come voleva Aristotele. Sono
uomo solo a patto di vigilare sempre sulla mia natura con l’insegnamento di
tutti gli uomini saggi e onesti del passato e del presente, compreso,
naturalmente, l’insegnamento di Gesù. Solo così riesco ad essere uomo davvero.
Quando guido la mia natura con la ragione, sapendo che orientare me stesso ed
essere pienamente adulto sono tutt’uno; sapendo come operare questa scelta sia
conquistare un’altra natura, più profonda, umana.
Lei direbbe
angelica. Non eravamo forse, all’origine, secondo la tradizione, angeli di
carne? Perché allora siamo caduti? Io credo che la conquista della razionalità
sia come la conquista della salute o della forma fisica: per essere vera
dev’essere mantenuta.
In questi
giorni, compiuti cinquant’anni, sono forse arrivato alla maturità. Per troppo
tempo pregi che ho - essere buono e affettuoso o intelligente - sono stati
troppo fragili. Non potendo contare sull’aiuto di Dio, per mancanza di Fede,
non potendo contare su una forza che mi trascende, ma solo su me stesso e sulle
persone che mi vogliono bene, ho cercato nella cultura. Solo così riesco, a
volte, ad essere razionale, di una razionalità buona come quella di Cartesio,
per esempio, senza scivolare nel pessimismo e nello sconforto come capitava a
Leopardi; così posso riuscire ad amare e rispettare la donna che mi sta a
fianco, i nostri figli e vedere in essi persone libere e belle; e infine tutti
gli altri esseri umani della nostra Terra, secondo il principio di cui parliamo
e che tutti dobbiamo a Gesù.
Amare gli
altri come se stessi, è credo saper viversi davvero come una Persona e vedere
negli altri altrettante Persone.
Rispettarsi e
rispettare sono tutt’uno, ma per farlo devo evitare, per esempio, che
l’emozione che il sentimento d’amore mi suscita si trasformi in una passione
sfrenata e travolgente, capace di farmi vivere momenti di straordinaria
intensità, ma che può anche degradarmi e degradare l’altra persona, che smette
di essere una persona, per essere solo un oggetto di desiderio.
Non si può
amare la propria compagna come si amano i dolci, con fame e appetito; nemmeno
come si amano i fiori, per deliziarsi gli occhi o il naso con il loro profumo;
tanto meno come si amano gli animali più cari, per giocare con loro. Piuttosto
come bisogna amare se stessi, appunto, ricordando sempre di essere una Persona
ricca e bella, perché creatura sublime, piena di qualità, unica,
insostituibile. In fondo, è quello che si pensa tutti di se stessi, quando
siamo sereni: si vedono le proprie qualità come elevate, la propria esistenza
nel mondo come un miracolo della Natura, il proprio corpo come la propria
raffigurazione e non come involucro, tanto che persino la sorte di un’unghia
che ci appartiene ci sta a cuore e se la perdessimo ci sentiremmo mutilati."
Io avevo
finito di parlare e come sempre in questi casi avrei desiderato una sigaretta.
Ero però nella camera di Padre Anselmo, che tra le altre virtù possiede anche
quella di non fumare; eravamo nel Convitto dell’Ospedale in cui altri padri
come lui riposavano poco, lavoravano molto e avevano bisogno d’aria sana e
pura; infine, se costretto dalle buone ragioni, io posso rinunciare a
qualsivoglia dei miei vizi.
Ero
felicemente riuscito ad esprimere il mio pensiero, così mi sentivo interiormente
sereno, orgoglioso e sereno come dopo una conquista. Fin da ragazzo sapevo
molto bene che nulla inventavo e tutto scoprivo, tutto trovavo, e se mi
sembrava qualcosa d’importante subito correvo, se potevo, a dirlo a qualcuno.
Come me gli altri analogamente facevano. Infatti, soprattutto questo avveniva
con i miei coetanei: loro dicevano con le loro parole o mi consigliavano di
leggere; io allo stesso modo lo rivestivo di parole mie, come meglio ne ero
capace, di personale gli davo solo l’abito che porto.
Ho corso più
volte il rischio che vorrei chiamare della Lucciola che si crede più della Luna
solo perché la luce è sua. Certo, come una Lucciola non sopporto una Luna che
m’umili della mia fioca, debole, intermittente luce, lei che può solo
riflettere quella del nostro Sole, certe sere così bene che possiamo vederla
chiara e grande all’orizzonte. Allo stesso modo soffrivo a volte ad ascoltare
chi si limita a riportare la luce che trova e non cerca di rivestirla dei suoi
propri colori, arricchendola di sé. Ciò che riporta può essere splendido e
bello, frutto di qualche uomo ispirato del passato o di uno che cammina come
noi in questo istante sulla nostra Terra. Un uomo ispirato, magari un uomo
antico, che voleva illuminare altri simili a lui, non perché loro fossero
ciechi, ma perché c’era veramente troppo buio. Quell’uomo riusciva miracolosamente
in sé trovare e fuori di sé scoprire proprio quello di cui parlo: magari una
fioca, debole luce, che aiutava tutti a non smarrirsi, a ritrovarsi nell’unione
con il Mondo, a trovare l’armonia di stare bene insieme, anche se immersi in
una Natura a volte terribile e ostile. Le sue parole sapevano restituire un senso
alla vita, anche quando si era immersi nella paura e nella sofferenza.
Il sacerdote
aveva nascosto il viso con le mani giunte e per tutto il tempo aveva ascoltato,
ascoltato, ascoltato. Lui s’ispirava a Dio, e forse così riusciva a richiamarlo
su di sé perché l’aiutasse a trovare le parole. Io non so proprio come Dio
l’aiuti, ma penso che lui faccia sempre a questo modo per accoglierlo dentro di
sé e donarne la buona novella a chi lo interroga. Non ho mai avuto occasione di
vederlo parlare con altri, né ho la più pallida idea di quali argomenti le
altre persone abbiano voglia di discutere con lui, per sbrogliarli meglio, se è
il caso. Quello che posso dire, per esperienza mia, è che Padre Anselmo, sempre
delicato nel parlare, se può cerca nelle Scritture una similitudine adatta, una
vicenda che s’accosti, perché sa bene, per studio e formazione, per lunga e
faticosa vita e per vocazione, che questi sono argomenti antichi come l’uomo e
come l’uomo sempre nuovi e attuali.
“Francesco io
ti ringrazio d’essere venuto e credo ti ringrazi anche Dio, attraverso me,
perché se dubbi fastidiosi e angosce come queste, gravi e persistenti, ti
spingono persino a consumar la vita per liberartene, se dedichi tempo ed
energia e scavi nel tuo cuore e nei libri con tanto impegno, se vieni a dirlo a
me, come per scusarti d’averlo fatto… Non
voglio deluderti, non voglio che un rifiuto mio ti sembri quello di Dio.
Ricordati, però, che questa voce è la mia e se in essa vi parla Dio non è merito
mio. Ricordati anche, più delle mie parole, l’affetto che ti porto come
Sacerdote e come uomo, prossimo tuo.”
Padre Anselmo
disse le sue parole a mani giunte, tenendo ben chiusi gli occhi e ben ferma la
voce. Solo quando ebbe fatto questo li aprì su di me, dolci e stanchi, e per un
lungo istante li pose delicatamente grandi e brillanti sui miei, divenuti
svagati e incerti.
Io non reggo a
lungo lo sguardo di nessuno. Ho perso l’innocenza di quand’ero bambino e oggi
m’imbarazza uno sguardo altrui che insiste o afferma o che mi chiede assenso.
Per tatto evito agli altri quello che sento come un peso per me e per la mia
storia mi sono inselvatichito, comportandomi, sotto lo sguardo insistente di
qualcuno, come una preda quando si sente sorpresa. Così, se mi trovo immerso,
come allora sentivo d’essere con Padre Anselmo, in un tale frangente, quasi me
ne vergogno, anche quando di nulla devo, e chiedo scusa. Distolgo i miei
pallidi e incerti occhi da quelli del mio interlocutore e li concentro su
qualcos’altro: le sue mani, la sua bocca, i suoi capelli, l’abito suo. E se il
silenzio persiste, al mio gesto di scusa aggiungo parole.
“Caro Padre
Anselmo, io certe volte sinceramente temo di parlare a lei di queste cose.
Davvero temo di contagiarla e non vorrei.”
“Tu sei
gentile, Francesco, ma non puoi. Per quanto io sia solamente un debole
Sacerdote, Dio mi ha fatto dono della Fede generosamente e mi protegge.”
“Ecco,” gli
dicevo ancora, “non vorrei proprio. Lei ogni giorno fa tanto bene. Io so per
esperienza che le sue buone qualità, l’umanità che sgorga dal suo cuore, la
Fede moltiplica e rende durature. Ma non voglio che lei mi fraintenda: a me
sembra di scoprire, non d’inventare; io valuto con la ragione cose e fatti, non
abbraccio idee e concetti; e senza Fede riesco solamente a sentirmi più solo
nel mondo e forse più infelice; non depresso, o annichilito, né tanto meno più
alto o più pesante di quello che sono per Natura. Tendo forse a divenire
triste, distratto e scemo, indifferente, oppure m’arrabbio inutilmente.”
“Perché il
Mondo, Francesco, tu lo vedi solo fuori di te, non nel tuo cuore. Non capisci
che il Mondo non è grande, grande è Dio. Non capisci che il tuo stesso cuore
non sarebbe il Cuore senza questo Mondo di Dio che lo pervade. Il tuo cuore è
ricco perché ti permette la vita, ma senza tutto il Mondo di Dio al suo interno
non batterebbe più; senza l’acqua di questo Mondo di Dio sarebbe un deserto;
senza la Parola di Dio sarebbe come un cratere della Luna, silenzioso; senza lo
sguardo di Dio non avrebbe luce. E la tua ragione non avrebbe sentimento:
arida, avara, asettica e asimmetrica spaccherebbe il capello in quattro, come
fosse una cosa importante. Nulla apprezzerebbe della sua lucentezza, nulla del
suo colore. E così avresti la ciocca di capelli conservata in un libro di
poesie d’amore, non l’amore della donna, che quei capelli porta; l’ombra degli
uomini che ti passano attorno riflessa sulla parete della caverna dove ti sei
nascosto, non le persone che questi uomini sono insieme a te. Non allontanarti,
Francesco! Non allontanare il tuo Cuore, intendo. Non essere così umano da
poter fare a meno del divino. E bada, non ti esorto, ti consiglio.”
Ascoltavo io,
silenzioso. Ascoltavo le parole del Sacerdote, soavi come musica, e mi
acquietavo. E in quella piccola camera, seduti uno di fronte all’altro come per
dividerci il pane o un bicchiere di vino, c’era davvero questo Mondo di Dio,
tutto intero: una sfera straordinaria priva d’incrinature, meravigliosamente
sospesa, stupendamente illuminata, ricca di calore, colore e profumi.
Certo, a
illuminare la camera del Sacerdote era un paralume di comune fattura, ma ardeva
di mille candele per illuminare non pareti e mobili, ma l’animo nostro di
creature semplici, uomini comuni. La semplicità, pensavo, era nel clima: né
troppo caldo, né freddo, né troppo secco, né inzuppato di pioggia amara. Per
questo due come noi, pensavo, potevano, parlando umanamente, trovarsi tra le
labbra le parole giuste.
Padre Anselmo
aveva finito, mi aveva risposto, ma per essere sicuro che avessi compreso bene
e per aiutarmi aggiunse questo: “Dio non è morto, Dio non può morire. Dio è
nell’Uomo e fuori dell’Uomo; Dio è nel Mondo, è il Mondo, ma anche più del
Mondo; Dio è l’origine di tutto quello che c’è, ma anche la ragione del suo esistere
così come esso è. Dio desidera che tu abbia Fede per poterti aiutare meglio, ma
se tu non ne senti il bisogno, ti aiuta lo stesso: Lui sa trovare il modo. La
tua difficoltà non è che non Lo riesci a vedere, è che gli dai un altro nome:
lo chiami Natura, o Universo, o che so io. Ma così facendo, gli togli gli occhi
che vigilano su di te, la parola che ti parla all’orecchio, il calore e la
serenità che ti regala nel sonno. La Natura non ha orecchie per ascoltarti, Dio
sì; la Natura non ha volto in cui specchiarti, Dio sì; la Natura non si occupa
di te e alla fine t’uccide, Dio ti mantiene vivo e ti salva. Ora, tu puoi
essere così forte, ma spero anche così buono, da credere di poter fare a meno
di Lui, senza capire che Dio ti ama tanto che è Lui che non può fare a meno
d’aiutarti. E siccome la tua ragione s’è fatta un po’ presuntuosa troverà altre
vie.”
Terza parte
Tornato a casa
mi pentii di non essermi confidato con Padre Anselmo anche delle mie angosce.
Lui conosce tutta la mia famiglia e avrebbe potuto consigliarmi su come aiutare
mio figlio. Pensai che parlargli in privato delle mie riflessioni di prima
della guerra fosse stato utile, sì, ma solo a me stesso. Non io, però,
rischiavo di trovarmi anzitempo di fronte... insomma, non io stavo per attraversare
un fiume sotto il fuoco nemico quasi certo d’annegare; non io avrei visto in
faccia la falce orrenda della matrigna crudele, quella che, non mossa a pietà,
ma per errore, m’avrebbe amputato un braccio o una gamba, mi avrebbe sfigurato
il viso. Ed io questo pensavo, nonostante l’ottimismo di Gabrieli.
Lui non aveva
torto: le trattative erano questa volta davvero cominciate, ma eravamo quasi a
luglio e gli elicotteri da combattimento erano già da qualche tempo arrivati
sul campo. Non erano ancora entrati in azione, per la verità. Avevano solo
attraversato lo Stivale e ora, minacciosi, mostravano alle milizie armate
serbe, che sparavano addirittura al confine albanese addosso ai profughi,
quello che le aspettava.
Dubbi sulla
manovra congiunta in Ungheria non ce n’erano più, sarebbero partiti forse
lunedì o martedì prossimi, quando Gianni sarebbe dovuto rientrare in caserma.
Lui per telefono non aveva voluto parlarne più. A me aveva semplicemente detto:
“Ciao, papà,
tutto bene. Vorrei parlare alla mamma e poi ad Anna. Mi passi una di loro?”
“Sì, caro. Ti
passo subito la mamma, ciao.”
Nient’altro.
Con Maria
eravamo d’accordo di non preoccuparlo, per farlo venire a casa venerdì e
parlarne quando sarebbe arrivato. Anche Anna, che noi tenevamo al corrente -
prudentemente, per non spaventarla – sapeva che non doveva mettere ansia al
fratello. La licenza c’era, ma fino al mattino di venerdì poteva essere
revocata se il ragazzo si innervosiva e per caso reagiva male o trascurava il
suo dovere...
Primo – tutti c’eravamo
detti – farlo tornare questi cinque giorni a casa. Era quasi un mese che
mancava, lo volevamo con noi. Venerdì all’ora di pranzo saremmo stati tutti
insieme, avremmo mangiato le cose buone che facciamo a lui e solo quando
sarebbe stato nella sua stanza, con il nostro cane tra le gambe, a godersi una
canzone che gli piaceva... solo allora, prima Anna, poi Maria, infine io
avremmo fatto un tentativo nei suoi confronti.
Il ragazzo
arrivò all’una del pomeriggio, come al solito, sorridente e felice di essere a
casa. La mamma, la sorella e il cane s’erano recati alla stazione ad aspettarlo,
per tornare insieme allegramente a casa.
Avevo
apparecchiato io la tavola, appena tornato da scuola. Tutto era già pronto
dalla sera prima, così si trattava solo di riscaldare il sugo e cuocere la
pasta, aggiungere mozzarella e metterla in forno, assieme a cotolette e patatine,
già cotte anche loro, solo da riscaldare.
Lui era
abituato a vedermi trafficare in cucina e sapeva che non facevo meno bene della
mamma e così, con la televisione rigorosamente spenta o a sua completa
disposizione, avremmo mangiato senza parlare d’altro di com’era bello essere di
nuovo insieme.
Così fu. Il
cibo si riscaldava mentre Gianni si lavava in bagno e quando ne uscì ancora con
il vapore addosso, noi dicemmo:
“Gianni,
guarda! É come piace a te, né troppo caldo, né freddo. Vieni così come sei, che
altrimenti si fredda troppo!”
Lui allacciò bene l’accappatoio e cominciò a mangiare. Poi prese il
telecomando e accese la Tivù, ma quando capitò il Telegiornale subito cambiò.
C’erano altri Telegiornali e lui cambiava. Il fatto che nessuno di noi facesse
commenti dovette sembrargli strano. Evitò di guardarci e scelse il canale dove
le canzoni della sua generazione facevano un gran fracasso allegro e vivace.
Tenne il telecomando vicino a sé per poter cambiare di nuovo, se era il caso.
Così fece quando la canzone fu troppo melodica e troppo insipida per i suoi
gusti, posizionandosi prontamente altrove. Trovò una commedia per ragazzi con
attori americani suoi coetanei che s’incontravano, parlavano, andavano in giro,
qualche volta ballando, a volte scherzando. C’era un ragazzo dalla pelle scura
che sotto braccio aveva una tavola per correre e saltare simile alla sua e che
si preparava a mostrare la sua abilità. Gianni alzò il volume, ci guardò e si
stupì che tutti seguissimo il programma. Cosparse di maionese le patatine e
affondò la forchetta guardando la commedia solo se per lui ne valeva la pena,
se lo sportivo collega americano diceva o faceva qualcosa che gli piaceva
veramente. Io,
volevo vederlo mangiare sereno, smagrito
com’era, ed ero contento che si
divertisse a quel modo. Sua madre gli porgeva ogni momento una specialità
preparata apposta per lui e Anna, l’unica che parlava di noi tre, faceva commenti
sulla trasmissione legandoli – solo lei sapeva come – a notizie sugli amici che
non vedevano l’ora d’incontrarlo.
Giovanni teneva ancora sua
madre sotto braccio. Gabrieli li vide in sala d’attesa, l’uno accanto
all’altra, come fossero due ragazzi. Maria aveva un leggero vestito di cotone,
semplice e coloratissimo. Le segnava le forme in maniera deliziosa, il busto da
ragazza e i fianchi rotondi sulle gambe robuste, accavallate senza timore.
Giovanni, per il gran caldo, aveva messo una maglietta colorata, ma non aveva
rinunciato ai suoi jeans e alle sue scarpe. Dinoccolato gli si fece incontro,
mentre sua madre con un sorriso dolce e amaro seguiva suo figlio come se stesse
allontanandosi, con passo svelto, agile e armonioso. Nello studio si sedettero
di fronte al medico che disse semplicemente: “Ciao Maria, ciao Giovanni, tutto
bene?”
“Tutto bene, grazie,” disse
Maria.
“Bene, sì,” aggiunse
Giovanni.
“Dormi bene, Maria?”
“Sì, grazie Gabrieli.”
“E tu Giovanni?”
Giovanni sorrise: “Quando dormo non sento nemmeno i
cannoni. A casa dormo come prima, un sonno lungo e felice. In caserma, quello
che posso.”
“Fai molte guardie?”
“Parecchie.”
“Ti vedo un po’ smagrito.”
Maria intervenne: “Visitalo Gabrieli, vedi se è
tutto a posto.”
“Tra poco lo farò. Francesco come sta?”
“Il solito.”
“E Anna?”
“Anna, lo sai, ha compiuto diciott’anni, studia,
balla e salta tutti i giorni. Benissimo.”
Gabrieli s’intese con Maria e lei tornò in
anticamera per permettergli di visitare il ragazzo.
Per prima cosa il medico fece togliere la maglietta
a Gianni e gli ascoltò cuore e polmoni.
“Come va?” chiese Gianni.
“Bene. Dormi troppo poco e basta.”
“Presto finisco.”
“Lo so. Fammi sentire lo stomaco. Sdraiati.”
Gabrieli lo palpò, lo fece risuonare con le dita,
poi chiese:
“Ti fa male qui?”
“Solo quando premi forte, Gabrieli.”
“Sei davvero un po’ troppo smagrito, e qui non dovresti sentire dolore.”
“Sarà perché ho appena finito di mangiare.”
“Fai un po’ fatica a digerire. Com’è il rancio?”
“Quasi non lo mangio. Fuori della caserma mangio panini
o pizza.”
“E da bere?”
“Al solito, coca-cola o gassosa.”
“Nient’altro?”
“Ogni tanto un liquore o una birra con gli amici.
Poca roba solo per far loro compagnia.”
“Mangi troppo poco e dovresti integrare la dieta con
frutta fresca o spremute.”
“Mangio spesso banane.”
“Cerca di bere anche molte spremute, Gianni. Ti
servono, adesso che fa caldo.”
“Anche la mamma lo dice, ma mi prepara un bricco
enorme e mi ci vuole una montagna di zucchero. Non voglio rovinarmi i denti.”
“E tu metti meno zucchero.”
“Non mi piacciono senza zucchero.”
“Non dico senza. Mettine meno! Riesci a berne di
più. Ascoltami!”
Poi chiese: “E la gola? Fammi vedere!”
Gabrieli guardò con la
lampada e disse: “La gola bene. E il naso?”
“Quest’anno, meglio.”
“Davvero? E qui sulla fronte
dimmi se ti fa male se premo.”
“Un poco.”
“Bene. Quest’anno va meglio,
vedrai che tra qualche tempo non ti darà più fastidio. Soffrirai una settimana,
poi basta più per tutta la primavera e l’estate.”
Gianni fu contento.
Esclamò: “Davvero?”
“Certo! Non sudare troppo i
primi giorni, fai le cure e lascia che il tuo corpo e il tuo naso si abituino
pian piano. Non affannarti troppo all’inizio. Poi non avrai problemi, stai
tranquillo.”
“Allora non è grave.”
“Ma sai quanti?”
“E si rimedia?”
“E cosa ho detto? Certo!”
Il medico tornò a sedersi
mentre il ragazzo si rivestiva. Ma quando stava per andarsene, il dottore lo
richiamò e lo trattenne: “Giovanni, siedi ancora un momento.”
Giovanni tornò a sedersi.
“Quando rientri?”
“Martedì prossimo.”
“Troppo presto, hai bisogno
di riposo e di una cura che adesso ti prescrivo.”
“Non posso.”
“E perché?”
“Non posso restare a Milano,
devo rientrare in caserma. Gli altri partono, io resto e devo essere presente.
La cura la farò in Friuli.”
“Chi parte?”
“Tutto il reggimento.”
“E dove va?”
“Andiamo in Ungheria per
l’esercitazione, ma io non sono nell’elenco.”
“Come lo sai?”
“Il sergente l’ha detto:
Giovanni, tu no.”
“E perché tu no?”
“Perché devo restare in
caserma al magazzino.”
“Il fatto è che ti vorrei
vedere lunedì e poi ancora giovedì prossimo.”
“Lunedì mattina posso, non
giovedì.”
“Giovanni rischi un
peggioramento e devo visitarti di nuovo. Vuoi guarire di questa cosa, o no?”
“Certo! Ma ormai sono
abituato.”
“Vuoi che si cronicizzi?”
“Che c’entra? C’è il medico
della caserma.”
“Non parte anche lui?”
“Lui parte, ma resta
l’assistente.”
“E non preferisci che ti
curi io invece dell’assistente?”
“Certo! Ma non è possibile.
Se faccio malattie, poi non torno a casa al tempo stabilito, devo fare tutta
l’estate in caserma, mentre io voglio andare al mare con gli amici. Mi
aspettano apposta!”
“E quando finiresti?”
“Entro il dieci di agosto.”
“Io ti prescrivo solo una
settimana, non tanto tempo. Per le analisi e tutto.”
“Ma così mi congedano dopo
il quindici o anche più tardi. Gli amici non possono più aspettarmi e partono
senza di me. Come faccio?”
Gabrieli a questo punto
disse: “É stato qui tuo padre, settimana scorsa.”
“E perché?”
“Era molto preoccupato per
te e non stava tanto bene. E anche tua madre è in ansia e non si sente tanto
bene.”
“Lo so, sono in pensiero per
questa guerra. É da Marzo che non fanno altro che guardare Telegiornali.”
“Anch’io, Giovanni, da Marzo
non faccio altro.”
“Ah, ma allora vi siete
fissati tutti! Noi non c’entriamo, è una faccenda che non ci riguarda come
italiani. Stiamo solo aiutando della povera gente.”
“Infatti, ma la situazione
ha preso una brutta piega, ti pare?”
“Questo sì, ma che c’entro
io, che c’entriamo noi del Friuli? Mio padre le ha detto delle esercitazioni,
del pericolo e così, vero?”
“Sì, me ne ha parlato.”
“Ma lui è fissato! Dottore,
io gli voglio bene, ma lui è fissato. Io non sono nell’elenco.”
“Questo me l’ha detto.”
“E allora? Mica il sergente
dice una cosa per un’altra! Lo conosco, è corretto.”
“L’elenco l’hai potuto
vedere?”
“Nessuno può, ma credo che
sia per non creare invidie, finti malati, ecc. Noi siamo delle pesti, mi creda,
dottore.”
Gabrieli sorrise: “É la
vostra età!”
“Appunto. Quindi se il
sergente dice questo, questo è.”
Gabrieli riprese a parlare
con molta calma:
“I sergenti contano, ma
contano più i capitani e i generali. Se decidono, in un secondo momento,
di mandare anche te, può dipendere da
ragioni che non sappiamo. Tuo padre m’ha detto che sai fare bene il tuo
mestiere di soldato e se hanno bisogno di buoni soldati sta tranquillo che
manderanno anche te, mentre pulire le armi in magazzino può restare un altro.
Io sono stato congedato capitano medico, ai miei tempi. La situazione forse
potrebbe farsi grave e quindi è meglio evitare perché temo che soffriresti
tanto con i tuoi problemi respiratori in esercitazioni lunghe e complesse, in
un luogo dove non parlano la tua lingua, insomma...”
“Ma non sono nell’elenco, le
ho detto! Sono esercitazioni, non intervento come in Albania. E poi c’è il
capitano medico del battaglione.”
“Certo, ma tu sai bene come
in queste situazioni, come all’addestramento, curano chi si fa male davvero,
non chi ha i calli ai piedi, capito?”
“Lo so, dottore. Anche
quando ho mostrato le lastre e tutto, hanno dato un’occhiata e non mi hanno
risposto. Ma io, lo volete capire, non sono nell’elenco!”
Gabrieli comprese che il
ragazzo poteva essere convinto in un solo modo: “Fallo per tua madre, fallo per
tuo padre, fallo per chi ti vuole bene, come tua sorella. Fallo anche per te.”
E aggiunse: “Hai tutta la
vita davanti. Congedato troverai lavoro e il prossimo anno potrai fare tutte le
vacanze che vuoi, libero di respirare bene e senza problemi.”
Giovanni chiese: “Quanti
giorni hai detto, Gabrieli?”
“Una settimana.”
“E a chi devo spedire il
certificato?”
“Prima in caserma, poi ti
chiameranno a Baggio, all’Ospedale Militare.”
“All’ospedale?”
“Fanno così con tutti i
soldati del distretto. Lì troverai un
capitano medico come me, che cura tutti i militari di Milano, non solo quelli
del tuo battaglione. Parlerai con lui.”
Per
tutto il fine settimana Giovanni non mi ha quasi rivolto la parola. Con Anna e
sua madre conversava, io quasi non esistevo. Non voleva sedersi a tavola e
andava apposta a mangiare in camera sua e appena poteva usciva con gli amici.
Il tempo era bello e lui si divertiva con loro, tornava sudato e felice, si
lavava e beveva litri di gassosa e coca-cola, cercando in frigo quello che gli
piaceva, preparandosi a uscire di sera con la sorella. Anna, finiti i compiti,
gli dedicava tutto il tempo disponibile e insieme si recavano in qualche locale
con amici. Rientrarono tardi sabato e rientrarono tardi domenica.
Il tempo era caldo e si stava bene fuori, ma io e Maria, a parte la
passeggiata con il nostro cane, che amava giardini ed erba fresca, eravamo restati
in casa i due giorni interi, muti per lo più.
Giovanni aveva accettato i consigli di Gabrieli, aveva il suo
certificato tra le mani, il tesserino militare. Era lunedì, il giorno del
rientro in caserma, ma noi non stavamo dirigendoci alla stazione tutti insieme,
allegramente. Io guidavo, ma eravamo noi due soli, io e Giovanni, e stavamo
recandoci all’Ospedale Militare del distretto di Milano.
Giovanni seduto accanto a me guardava la pioggia cadere sulla città.
Aveva voluto che l’accompagnassi, nonostante avesse ben compreso dove si
trovava e quale fermata della metropolitana doveva usare per raggiungerlo.
Voleva che l’accompagnassi perché intendeva dirmi:
“É per te che lo faccio e per la mamma, fissato!”
Per questo non mi guardava mai, ed io evitavo di fumare e che lui fosse
costretto ad aprire il finestrino. Attraversammo tutta la città a questo modo.
In quei giorni erano iniziati i colloqui decisivi, ma c’erano
difficoltà. L’indomani gli alpini del Friuli sarebbero partiti per
l’esercitazione, mentre sul confine macedone truppe Nato si incontravano quasi
ogni giorno con truppe serbe. Io lo sapevo dal giornale perché le televisioni
erano a completa disposizione dei ragazzi e la nostra rigorosamente spenta. I
giornali li nascondevo e li leggevo solo quando lui era fuori casa. Maria aveva
sempre qualcosa da fare e io evitavo di riassumere quanto leggevo, anche
perché a volte ero felice che si stesse
arrivando ad un accordo a volte mi deprimevo e volevo risparmiare a mia moglie
questi alti e bassi.
Giungemmo al portone e io trovai parcheggio proprio lungo il
marciapiede lì vicino. Giovanni mi seguiva senza partecipazione. Fui io a
suonare e la serratura scattò. Il militare di guardia ci ricevette, ma non
volle parlare molto con me. Voleva che Giovanni mostrasse i suoi documenti. Era
gentile, ma chiedeva sempre a Giovanni, non a me. Dopo aver telefonato e
avvertito chi di dovere, indicò a Giovanni la strada, mentre a me disse: “Lei
deve aspettare in sala d’aspetto.”
Una piccola stanza, vuota di mobili e ricca solamente di sedie, con
qualche immagine alle pareti che non guardavo nemmeno, mi accolse con il suo
silenzio e io mi sentii solo, solo e spaesato, solo e imbarazzato, come fossi
stato sorpreso a rubare. Nella stanza non si poteva fumare e così, non riuscendo
a stare senza poterlo fare, socchiusi la porta, mi guardai attorno, e accesi
timidamente una sigaretta, restando sull’uscio. Riuscii a fare qualche boccata,
ma poco dopo il piantone mi vide e mi chiese, sempre cortesemente, di restare
in sala d’aspetto. Io ubbidii e, spenta la sigaretta a metà, la conservai in tasca.
Poco dopo fu Giovanni a chiamarmi entrando: “Devo tornare domattina.”
“Domattina non posso accompagnarti,” fu tutto quello che seppi dire.
“Domani prendo la metropolitana,” fu il suo commento.
Risalimmo in macchina e muti come all’andata tornammo a casa. In quel
momento partiva dalla Stazione Centrale il suo treno per il Friuli.
Giovanni uscì dalla stazione
della metropolitana e trovò subito la direzione. Il viale era lo stesso, ma suo
padre non c’era. E nemmeno la pioggia c’era, ma un sole caldo. Il portone
metallico aveva lo stesso citofono, ma erano le sue dita che suonavano. Il sole
gli illuminava gli occhi chiari e i corti capelli rossi, troppo corti per
essere quelli che lui avrebbe voluto portare. Brillavano di luce. La maglietta
aderente mostrava gli scattanti muscoli di un ragazzo che sapeva afferrare
saldamente un fucile e lanciare lontano una bomba. Braccia che sapevano
abbracciare sua madre o la sorella e sollevarle per aria facendole ridere di
una paura buona e dolce. Mani magre e nervose che sapevano manipolare qualsiasi
cosa: un manubrio, una matita o un compasso, che sapevano danzare sopra una
tastiera, che dolci e morbide sapevano accarezzare un gatto o un cane senza
fare altro che lisciarne il pelo. Spalle di chi può sollevare pesi o tenere una
ragazza addosso per farle meglio guardare il mare. La sua pelle rosa, ricca di
piccole lentiggini e il pelo delle braccia ramato era ciò che si vedeva,
scoperto, e si riscaldava al sole. Una bocca e un naso regolari e lineamenti
ben definiti erano il suo viso, ma gli occhi parlavano, ancora non abituati a
simulare, e mostravano un animo pulito. Al suo viso di ragazzo faceva contrasto
una voce capace di farsi sentire a distanza come un tuono e capace di mormorare
calda e sottile ad un orecchio attento. I pantaloni erano jeans ampi che se
cadevano da ogni parte era perché stringevano gambe magre e dure come il ferro;
ampi, permettevano anche salti e corsa, sulle scarpe adatte. Era un ragazzo di
anni ventuno, che poteva essere già tipografo, grafico o meccanico, e invece
era un alpino. Gli toccava, era dura e gli toccava, non era questo il problema.
Un pari suo, un fante come lui, gli aprì la porta, come lui quasi in tutto
uguale, in una divisa marrone, con mostrine colorate. Giovanni se portava la
divisa la portava solo in Friuli, ma chiedeva a sua madre che gliela ricucisse
se per caso s’era strappata. Il ragazzo che lo accolse faceva lo stesso. La
divisa per ambedue era un vestito come un altro, niente di speciale. Indica
solo che il servizio che si svolge fa parte del tuo dovere di cittadino. Insomma,
che si deve e basta. Giovanni di fronte al commilitone sentì imbarazzo e mostrò
la tessera che diceva la sua matricola. Il fante piantone telefonò allo studio
medico e mentre Giovanni aspettava in giardino un’ambulanza passò, verde e
marrone, con una croce rossa e la bandiera. Lui la vide senza niente poter
dire, senza niente parlare, tutto guardare. Si sentì nel sole e nel tepore di
giugno pieno di salute e vivo come una
cosa viva che cammina. Ma non sapeva dire perché il commilitone in divisa gli
sembrava più vivo, gli sembrava che meglio potesse camminare. Un altro fante
gli indicò la strada e l’accompagnò quanto bastava perché lui trovasse la porta
da solo.
Il capitano era stato
avvertito del suo arrivo e l’aspettava
sulla soglia. L’accolse e lo fece sedere. Poi, girò intorno al suo
tavolo e si sedette a sua volta davanti al ragazzo.
La stanza era bianca, la
scrivania era ingombra di strumenti medici e in un angolo c’erano un armadietto
pieno di farmaci e un lettino da visita coperto da un lenzuolo bianco.
Il capitano non indossava
però il suo camice, ma la divisa con i gradi e le mostrine colorate. Al centro
della scrivania, Giovanni poté leggerne il nome: Cap. Davide Lombardi. I due si guardarono un momento negli occhi e
Giovanni s’accorse come il capitano avesse circa l’età di suo padre. Lo udì chiedere:
“Come va, oggi, Giovanni?”
“Bene.”
Il capitano portava capelli
corti e li perdeva sulla fronte: le tempie grigie facevano contrasto con lo
scuro di quelli rimasti sulla nuca. Non aveva né baffi né barba, piuttosto gli occhi
penetranti da dottore, lineamenti da soldato e nessun gonfiore addosso. La sua
voce era calma e netta, il suo sguardo buono e sereno.
Giovanni sentì molto
imbarazzo. Ora forse avrebbe voluto addosso le sue mostrine di soldato. Invece
la sua maglietta bianca, profumata di bucato, le sue braccia scoperte da
ragazzo, aumentavano il suo disagio.
Il capitano abbassò gli
occhi e lui Giovanni poté respirare meglio. Il capitano lesse, o meglio finse
di leggere, un certificato che conosceva a memoria e chiese, senza sollevare lo
sguardo: “Conosci da molto il dottor Gabrieli?”
“È il mio medico.”
“Da quanto tempo?”
“Da bambino.”
Il capitano fissò il ragazzo
nuovamente negli occhi, con il suo sguardo dolce, e sorrise; ma Giovanni, dopo
un istante in cui riuscì a ricambiare, distolse lo sguardo, guardò i gradi,
abbassò la testa e studiò le proprie scarpe.
“Dice che hai bisogno di una
settimana di riposo. Non stai bene?”
Sempre studiando le scarpe
Giovanni rispose: “Così così.”
“Cosa ti tormenta?”
“Non so. Mio padre e mia
madre stanno male. Solo mia sorella mi capisce. Il dottor Gabrieli mi ha detto
che rischio di deprimermi parecchio, oltre ai problemi di respirazione.”
“Non ti piace la vita
militare?”
“Ci sto. Non è che mi piace
o no.”
“Vuoi fermarti qui da noi,
questi sette giorni?”
“Qui?”
“Sì, qui. Questo è
l’ospedale di tutti i soldati come te. Vuoi fermarti qui?”
“Se bisogna… non so.”
“Qual è il problema?”
“Il mio reggimento parte
domani.”
“Ah sì? E tu?”
“Il sergente dice che non
sono nell’elenco.”
“Non vuoi partire?”
“Io non so. È
un’esercitazione che sapevamo già. Ora però c’è questa specie di guerra. Mio
padre ha paura, mia madre si dispera e anche mia sorella comincia a preoccuparsi.”
“E tu? Hai paura tu?”
“Io non sono nell’elenco.”
“Quale elenco?”
“Non l’ho visto. Il sergente
ha detto che il mio nome non c’è.”
“Quando l’ha detto?”
“Prima della licenza.”
“Hai amici in camerata?”
“Certo, qualcuno.”
“E loro sono nell’elenco?”
“Mi pare di sì.”
“Tu però no.”
“Così ha detto il sergente.
Ma l’elenco mica l’ho visto, signor Capitano.”
“Questo ti preoccupa?”
“Signor Capitano mi
preoccupa e non mi preoccupa. Sarà come il periodo dell’addestramento. Saremo
tanti, saremo in Ungheria. Sarà come l’addestramento.”
“Non t’era piaciuto quello
fatto in Friuli?”
“Era dura.”
“E be’? Come doveva essere?”
“Signor Capitano, lei ha
ragione, lo so. Io non sono nell’elenco perché qualcuno in caserma deve
restare. Il sergente l’ha detto: qualcuno deve restare.”
“Allora perché ti
preoccupi?”
“I miei si preoccupano!
Parlano di intervento di terra e temono che anche noi… Ma io non ci credo, noi
non andremo. E poi, non sono nell’elenco.”
“Ma loro pensano che se non
ti mostrano che il tuo nome manca, spediscono anche te. È così?”
“È così.”
“Cosa faresti in caserma?”
“Tengo in ordine le armi.”
“Ti piace?”
“Bisogna stare attenti.”
“Hai paura d’un fucile?”
“Paura no, signor Capitano.
È un fucile. Ma un conto è portarlo in spalla, un conto pulirlo e maneggiarlo.”
“Hai spalle grosse. Quanto
pesi?”
“Settanta chili.”
“E allora? Non hai già
sparato?"
“Certo.”
“E come andava?”
“Bene.”
“E le bombe le hai
lanciate?”
“Signorsì.”
“E come?”
“Bene.”
“E in Ungheria non sarà come
all’addestramento? Cosa temi?”
“Non so… I miei temono. Non
potrò telefonare facilmente, per un mese staremo senza notizie o quasi.”
“Temi per loro?”
“Temo si preoccupino.
Guardano la televisione continuamente. Io dico: ‘Spegnete!’ e loro ‘Lasciaci vedere!’
Signor Capitano loro hanno paura per me.”
“E tu?”
“Io? Io non sono
nell’elenco.”
“Ma se fossi, diciamo,
nell’elenco… avresti paura?”
Giovanni fissò il capitano.
Gli occhi dell’ufficiale erano comprensivi, ma l’espressione del suo viso,
scolpito sulla sua divisa di soldato, esprimeva fermezza.
“Ci sono i miei amici. Loro
non hanno paura.”
“E tu?”
“Io sono come loro.”
Il capitano sorrise, guardò
il certificato che conosceva a memoria, poi concluse: “Oggi stai qui da noi,
mangi con noi e questa sera vediamo. D’accordo?”
“Signorsì.”
La guerra finì e Gianni concluse il suo servizio in Friuli, senza
partire per l’Ungheria. Alla Stazione Centrale di Milano sabato 21 agosto 1999
c’era molta gente che partiva e che arrivava. Noi tutti, con il cane che scodinzolava,
aspettavamo vicino alla fontana. Anna aveva sentito il fratello con il telefono
cellulare, il treno stava per arrivare, al solito binario. Gli altri genitori
lì si trovavano ad aspettare i soldati del suo battaglione che abitavano a Milano.
Gianni, invece, per ragioni che solo Anna conosceva, le aveva detto:
“Al solito posto.”
Lì dov’eravamo.
Il nostro cane sentiva gli odori e si divertiva: la sua coda sembrava
una bandiera al vento e con i denti rideva a tutti. Gianni, il suo beniamino,
stava arrivando e lui era felice e contagiava ogni altro essere vivente: pari
suoi, dall’aria severa o mite; ragazzi e
ragazze che partivano per le vacanze o che
tornavano; donne e bambini, anziani e signore sottobraccio che passavano e si
fermavano a guardare.
Io evitai di fumare: non riuscivo, nella folla, a vedere dove avrei
potuto buttare la cicca. La stazione ora è sempre così pulita che è diventata
bella ed era davvero un peccato sporcarla, anche solo con un mozzicone.
Inoltre non volevo allontanarmi da nessuno dei miei cari. Anna era
stata promossa e la vidi procurarsi un fumetto che le piaceva all’edicola, per
portarselo in vacanza con gli amici; Maria, abbronzata
per una settimana appena trascorsa al mare con una famiglia di amici – io ero
con Anna a casa – tra poco ripartirà con la nostra ragazza per una seconda
settimana in riviera; Gianni sarebbe partito l’indomani con i molti amici
avevano deciso di aspettarlo. Io
solo, stanco come uno straccio appena strizzato, ma finalmente sereno, non
avrei fatto vere vacanze. Mancavano dieci giorni alla riapertura del nuovo anno
scolastico e avrei avuto l’ultimo anno di corso. I ragazzi erano in gamba e li
avevo tutti recuperati, volevo però preparare meglio qualche lezione, in
collina, lontano dal rumore e dalla confusione, in compagnia di cari amici in
Toscana. Sotto la quercia posta dinanzi alla magione avrei trovato fresco al
mattino, ma dopo pranzo avrei potuto prendere il sole in costume su un’ottima
sedia-sdraio, e ai miei cari avrei telefonato almeno una volta al giorno, per
sentire se tutto procedeva bene…
Ma
eccolo: all’improvviso arrivò alle mie spalle, il cane abbaiò felice e mi fece
voltare. Gianni fece cadere la sua borsa a terra e abbracciò prima sua madre,
sollevandola da terra, quindi la sorella, allo stesso modo.
Poi
si chinò sul cane, che prese a saltargli attorno al viso.
Infine
mi guardò, alto come me, fisso negli occhi.
“Gianni!”
dissi io.
“Papà!”
disse lui.
Ci
abbracciammo e ci stringemmo forte.
Poi,
mentre gli stavo portando la valigia per permettergli di giocare con il cane al
guinzaglio, gli chiesi: "Ma che diavolo di maglietta hai addosso?”
E
lui: “La maglietta del congedo. Vedi questa? É la bandiera...”
FINE
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