martedì 11 settembre 2012

La grande depressione di Maurice Crouzet




La crisi che scoppia nel 1929 è molto differente da quelle che l’hanno preceduta nel secolo XIX e al principio del XX: essa è così violenta, così profonda e così universale, che provoca uno sconvolgimento generale del sistema e rovine gigantesche in un mondo già gravemente scosso, e infine pone il regime capitalistico di fronte a tali problemi, che esso può sopravvivere solo a prezzo di una sua profonda trasformazione.
1.   La crisi scoppia e investe tutto il mondo
Nel corso del secolo XIX, le crisi non erano sconosciute, ma erano considerate come malattia di crescenza nel corso delle quali la guarigione sopravveniva automaticamente grazie all’eliminazione delle imprese meno solide, dopo di che l’espansione ricominciava rapidamente. A questa concezione ottimistica delle crisi inevitabili e in definitiva salutari, i marxisti opponevano che le crisi, sempre più ravvicinate e violente, acceleravano il processo di concentrazione delle imprese e la tendenza al monopolio, e che le trasformazioni di struttura che ne risultavano le condannavano ad essere ancora più frequenti e più dannose non soltanto agli interessi dei salariati, ma anche al bene comune.
Gli economisti avevano rilevato l’esistenza di cicli con alternanza di fasi di prosperità – nel corso delle quali i prezzi salgono, la disoccupazione diminuisce, i profitti aumentano – e fasi di depressione, che presentano caratteri inversi. Pur senza essere d’accordo né sulla durata dei cicli né sulle loro cause (monetarie per gli uni, economiche o politiche per gli altri) essi ammettevano che a movimenti di breve durata (da 4 a 8 anni) si sovrapponevano movimenti di lunga durata varianti in media da 40 a 70 anni. La crisi che scoppia nel 1929 sarebbe dunque la fine “normale” di un periodo di lunga durata, e la sua eccezionale virulenza, la sua complessità, la sua durata si spiegherebbero col fatto che essa avrebbe cumulato con questa causa quelle che provocano le crisi di breve durata. In ogni caso, essa supera per gravità tutte le crisi “mondiali” precedenti, anche quella del 1857, considerata a suo tempo “senza precedenti nella storia”, che era nata anch’essa negli Stati Uniti e aveva seminato rovine in Inghilterra, ad Amburgo e in tutti i paesi dell’Europa settentrionale e occidentale.
La nuova crisi si distingue da quelle che l’hanno preceduta sotto vari aspetti. All’indomani della crisi del 1920-1921, la ricostruzione e il rinnovamento delle strutture mondiali si erano effettuati a prezzo delle più grandi difficoltà, e la produzione mondiale non aveva potuto superare il livello del 1913. La crisi del 1929 non è dunque stata preceduta come quelle del passato da un’ascesa dei prezzi, dei profitti e dell’occupazione, ma esplode invece durante un periodo di discesa dei prezzi e in un mondo nel quale l’agricoltura presenta gravi sintomi di stagnazione e di depressione, nel quale esiste un numero considerevole di disoccupati – forse 10 milioni – e i principali paesi d’Europa sono incapaci di raggiungere il livello prebellico del loro commercio estero.
D’altra parte, la crisi si distingue da quelle del secolo XIX per il suo carattere universale, e questa universalità si spiega perché il settore capitalistico, l’unico che le crisi avessero colpito fino allora, è adesso dominante nei grandi paesi industriali, sicché con esso viene scosso profondamente tutto l’intero sistema economico. Mentre nel secolo XIX l’agricoltura era stata relativamente poco toccata, e la grande depressione dell’ultimo quarto di secolo era stata soprattutto una crisi europea e aveva interessato principalmente la produzione di cereali, quella del 1929 è nello stesso tempo industriale e agricola, e nessun paese, nessun settore dell’economia sfugge ai suoi colpi: essa si abbatte sugli Stati Uniti, sull’Europa, sui paesi semicoloniali e coloniali; e interessa tutti i settori sociali.
Le crisi precedenti, in generale, avevano investito soltanto gli operai e i loro datori di lavoro, mentre contadini, funzionari, rentiers, conservavano intatti i loro redditi o anche li aumentavano in conseguenza della discesa dei prezzi, e il fatto che costoro ne fossero risparmiati facilitava la rapida liquidazione della crisi; ma nel 1929 tutte le categorie sociali ne sono investite, i redditi di tutte le classi sono colpiti direttamente o indirettamente dalla svalutazione, perché tutte le monete sono scosse, nonché dalle amputazioni delle rendite e degli stipendi. Gli operai non sono le sole vittime della disoccupazione, ma ad essi si aggiungono impiegati, i piccoli industriali e commercianti, gli artigiani che debbono chiudere bottega e cercarsi un impiego.

La crisi scoppia il giovedì 24 ottobre 1929, il “giovedì nero”, nel modo più inatteso e più imprevisto, e incomincia con una crisi borsistica. Certo, sin dal mese di maggio, i prezzi del rame, della ghisa e dell’acciaio erano diminuiti; i profitti dell’industria automobilistica, in ribasso sin dal secondo trimestre, erano discesi notevolmente nel corso del terzo, sebbene le vendite fossero aumentate; i proventi netti delle ferrovie americane, anch’essi, erano in regresso. A queste indicazioni conosciute dal pubblico, si aggiunge la notizia del fallimento dello speculatore inglese Hatry, che sfruttava brevetti Photomaton, fallimento che provoca un rialzo del tasso di sconto a Londra, il richiamo in patria di una parte dei capitali britannici e la vendita di valori americani da parte degli speculatori inglesi. Bruscamente, il lunedì 21 ottobre 1929 si effettuano numerose realizzazioni, e il giovedì sopravviene una valanga di ordini di vendita massicci a qualsiasi prezzo, che investono circa 13 milioni di titoli. L’intervento delle sei maggiori banche, che procedono ad acquisti per frenare il ribasso, non è sufficiente ad arrestare il panico: il 29 ottobre più di 16 milioni di titoli sono venduti; il ribasso si accentua sempre più; a metà novembre l’indice delle azioni industriali è caduto da 469 a 220.
La crisi industriale, già preannunciata, sarà aggravata dal crac finanziario e dal panico che rende impossibile ogni tentativo di frenarlo o di contenerlo. Tanto più che quegli elementi essenziali di “sovraconsumo” che erano i plusvalori borsistici sono brutalmente scomparsi, e molti detentori di titoli che li avevano pagati solo in parte si trovano improvvisamente indebitati; molti commercianti e industriali, che avevano ottenuto crediti garantiti dai loro averi in titoli, ne vedono sparire la base; le vendite a rate si arrestano automaticamente, le ordinazioni vengono sospese, le scorte si accumulano. E’ il rude awakening che colpisce l’America stupefatta.
La crisi della produzione industriale che tiene dietro al crollo dei valori in borsa si avvicina a gran passi, gli indici di produzione cadono, più o meno rapidamente secondo le industrie, al di sotto di quelli dell’anno precedente. Nell’industria automobilistica la caduta comincia fin dall’ottobre, e nei tre mesi seguenti la produzione si riduce della metà. La crisi si sviluppa con dei soprassalti: nel secondo semestre del 1930 ha ormai investito tutta l’industria. In questo momento, la produzione della ghisa è diminuita della metà. Ford, che nella primavera del 1930 ha dovuto adottare la settimana di cinque giorni, nell’agosto la riduce a tre giorni. I proventi delle ferrovie diminuiscono e il commercio estero, nonostante l’entrata in vigore della tariffa ultraprotezionistica Hawley-Smoot, si contrae. La disoccupazione provoca un ribasso considerevole del reddito globale della classe operaia; nella primavera del 1931 cominciano ad applicarsi riduzioni salariali dal 10 al 30%, alle quali ne seguono ancora maggiori nel corso dell’estate e dell’autunno.
Il crac finanziario di New York rende impossibile la continuazione dei crediti all’Europa: le uscite di dollari, che dal 1922 si dirigevano verso investimenti all’estero, sono immediatamente bloccate. Ora, l’economia dell’Europa centrale e orientale, e in particolare quella tedesca, si regge proprio su questi crediti. Nell’ottobre del 1929 si ha il fallimento della Boden Creditanstalt di Vienna, che il governo austriaco fa salvare dall’ Osterreichische Creditanstalt, ma le elezioni tedesche del 14 settembre 1930, che segnano i primi progressi notevoli dei nazisti, e l’ooposizione dei governi francese ed italiano all’unione doganale progettata fra l’Austria e la Germania, preoccupano gli ambienti finanziari, che ritirano i loro fondi. Nel maggio 1931 la Osterreichische Creditanstalt sospende a sua volta i pagamenti, e le sue azioni cadono a 2/100 del loro valore. In tutta l’Europa centrale si ha la corsa agli sportelli delle banche, che provoca una serie di fallimenti a catena. Le banche svizzere, olandesi, americane, che avevano investito grossi capitali a breve termine in Germania (più di 12 miliardi di marchi) cercano di richiamarli in patria. Di fronte all’intensificarsi di questi richiami, il 20 giugno 1931 il governo tedesco ottiene dal presidente Hoover una moratoria di un anno per tutti i pagamenti relativi a riparazioni e debiti di guerra; ma questa decisione non migliora la situazione della Germania, dove continua il ritiro dei capitali stranieri e nazionali. Il crac di 200 milioni di marchi del Nordwolle Konzern, cartello laniero di Brema, che provoca il fallimento di Danat, compie il disastro. Il cancelliere Bruning decide la chiusura di tutte le banche, casse di risparmio ed altre istituzioni di credito. Quando esse si riaprono, in agosto, tutti i crediti stranieri in Germania restano congelati, sottoposti ad una moratoria di fatto.
Dappertutto crollano le banche: a Riga, in Austria, in Romania, in Iugoslavia, in Francia (la banca Oustric , il gruppo Octave Homberg). Talvolta i governi le riorganizzano: così in Cecoslovacchia, in Francia. Il 24 settembre 1931 soltanto le borse di New York, di Parigi e di Praga sono ancora aperte. L’ondata di fallimenti delle banche finisce soltanto nella primavera del 1932.
Ma la catastrofe non si ferma lì. In Inghilterra le perdite considerevoli derivanti dal crac della Creditanstalt  e il congelamento dei capitali investiti in Germania e nell’Europa centrale, che le banche britanniche non hanno richiamato in tempo (73 milioni di sterline a lungo termine e 90 milioni a breve termine), scuotono seriamente la valuta. Molti stranieri preoccupati convertono le loro sterline in oro, in franchi, in fiorini, in dollari, in modo che la Banca d’Inghilterra si trova a non disporre più di sufficiente numerario aureo. I ritiri diventano preoccupanti, nonostante i crediti di 50 milioni di sterline accordati dalla Banca di Francia e dalla Federal Reserve Bank di New York: il 21 settembre, il governo abbandona la parità aurea. Questo abbandono della parità-oro della sterlina, per la quale l’Inghilterra aveva fatto tanti sacrifici, aggrava la crisi e provoca un vero e proprio crollo della struttura dell’economia monetaria mondiale. In pochi giorno la sterlina scende del 30%rispetto al suo antico valore-oro e in questa caduta si porta dietro una trentina di monete satelliti: quelle dei Paesi scandinavi, dei Dominions (ad eccezione del Sudafrica e del Canada), del Portogallo, del Siam, dell’Egitto, della Bolivia e, nel dicembre 1931, del Giappone.
Numerosi privati e società che possedevano sterline, le case di commercio di tutto il mondo, i cui contratti erano stipulati in questa moneta, le banche d’emissione , che avevano collocato una parte importante delle loro riserve di divisa in sterline conformemente al Gold Exchange Standard, subiscono perdite considerevoli: la Banca di Francia, 2 miliardi di franchi; la Banca d’Olanda, 30 milioni di fiorini; la Banca del Belgio, 650 milioni di franchi belgi…
Così, ad eccezione della Francia che è raggiunta dalla crisi solo nel 1931, tutti gli Stati sono stati colpiti fin dal 1930.
I paesi nuovi hanno ricevuto la crisi dal di fuori e sono stati colpiti nello stesso tempo dalla caduta brutale delle esportazioni e dall’interruzione degli arrivi  di capitali stranieri. Nel Canada, la discesa del prezzo del grano da 124 cents nel 1929 a meno di 60 nel 1931 si congiunge col disastroso raccolto del 1931 nell’Ovest, che riduce quasi a niente il provento di 2 milioni di ettari: gli agricoltori licenziano i braccianti, rinunciano ai trattori perché la benzina è troppo cara, e ritornano ai cavalli. Il reddito lordo degli agricoltori canadesi, che era 1800 milioni di dollari oro nel 1927 e nel 1928, cade a meno di 800 milioni di dollari svalutati nel 1932-1934, e il reddito netto da 1500 milioni di dollari a meno di 500; l’indice dei prezzi agricoli è diminuito di quasi 2/3, mentre l’indice generale dei prezzi e sceso soltanto di poco più di un terzo. Il potere d’acquisto degli agricoltori è ridotto a zero, e quando, dopo il 1932, i prezzi cominciano a risalire, essi restano tuttavia ridicolmente bassi in confronto alle spese di trasporto, magazzinaggio e senserie, che non si possono comprimere. Il valore delle terre, che nella prateria aveva raggiunto i 250 dollari per ettaro nel 1928, cade a 12,5 ammesso che in qualche caso si possa ancora vendere. La produzione boschiva diminuisce di 2/3; quella delle miniere passa da 311 milioni di dollari a 183 nel 1932 e risale a 273 nel 1934.
In Australia e nella Nuova Zelanda i prezzi della lana cominciano a calare nell’agosto del 1929 e il movimento discendente continua fino al principio del 1933. Sebbene le esportazioni di lana, grano, carni ovine e bovine, e zucchero siano considerevolmente aumentate in volume, talvolta raddoppiate o triplicate, il loro valore non rappresenta tuttavia nel 1931-1932 che il 55% del valore delle esportazioni del 1928-1929. Nel Sudafrica la depressione coincide con la più lunga siccità che si ricordi dal 1860 in poi e con l’epizoozia degli ovini. Ne deriva una caduta vertiginosa dei prezzi del mais, della lana e di molti altri prodotti, e l’estrazione del diamante cade a 506.000 carati (1/9 di quella del 1927); la miniera di Premier, vicino a Pretoria, è chiusa, e l’Unione Sudafricana è salvata soltanto dalla sua produzione di oro.
L’India è colpita ancor più duramente degli altri paesi, perché i 4/5 della sua popolazione dipendono strettamente dall’esportazione di prodotti grezzi, il cui valore si riduce di metà. Tra il 1928-1929 e il 1932-1933, le esportazioni cadono da 3.390 milioni di rupie a 1.350, e le importazioni calano della metà, mentre gli interessi dei prestiti e le spese pubbliche restano pesanti come prima.
Il Brasile attraversa una nuova crisi di sovrapproduzione del caffè, molto più brutale di quella del principio del secolo; venuto a mancare il sostegno delle grandi banche straniere, i prezzi sulla piazza di New York precipitano da 23 cents a 8, e la sterlina inglese trascina nella sua caduta il fallimento dei piantatori e l’espropriazione di coloro che avevano ipotecato le loro terre. Nelle isole dell’America centrale, produttrici di zucchero, si ha la stessa caduta dei prezzi e la stessa espropriazione dei piantatori ad opera delle banche. In Argentina, paese la cui prosperità dipende dall’esportazione di pochi prodotti agricoli, grano e carne si accumulano nei depositi, il peso si svaluta e il valore della terra si avvilisce costringendo molti proprietari a ipotecare le loro proprietà, e poi, quando non possono più pagare gli interessi dei debiti, a reclamare una moratoria.

2.   Le manifestazioni della crisi
Se si paragonano gli indici della produzione agricola e industriale del mondo, si constata che dal 1929 al 1933 la produzione agricola ha subito lievissime variazioni e, nel complesso, soltanto una leggera diminuzione, mentre la produzione industriale ha regredito nell’insieme più del 15%.
La manifestazione più impressionante della crisi è stata, dunque, la contrazione violenta e molto più notevole che nelle crisi precedenti (in Germania del 39%, contro il 6%) della produzione industriale, che raggiunge il punto più basso nel luglio 1932: il 38% al di sotto della media del giugno 1929. Poi, a partire dall’autunno, l’ascesa, contrassegnata da numerose oscillazioni, riprende. La contrazione è stata più brutale nei paesi industriali (Europa industrializzata e Stati Uniti), che nei paesi agricoli d’Europa e nel Giappone. In tal modo il grosso delle perdite si è concentrato su di uno spazio relativamente ristretto, poiché nel 1928 i ¾ della produzione industriale mondiale erano concentrati in quattro potenze: Stati Uniti (44,8%), Germania (11,5%), Gran Bretagna (9,26%), Francia (7%), se si aggiungono il Belgio, l’Olanda, la Svizzera, l’Austria e il Canada, questi nove paesi ne rappresentano l’80% e il resto si suddivide tra U.R.S.S., Italia, Giappone, India, Spagna, Svezia, Polonia, Argentina, paesi tutti prevalentemente agricoli. Più della metà delle perdite provocate dalla crisi, cioè il 90% del totale delle perdite dei nove paesi industrializzati, sono state subite dagli Stati Uniti. E’ un precipizio che non si era mai veduto, neanche durante il periodo bellico, quando le perdite erano state del 30% per i belligeranti europei.
Poiché la produzione agricola, e in particolare quella delle derrate alimentari, subisce scarse variazioni, la crisi è in questo campo meno generale e meno uniforme che nell’industria. Essa prende la forma di una crisi violenta dei prezzi (il loro livello medio scende negli Stati Uniti del 57% dal giugno 1929 al dicembre 1932), risultato della contrazione del potere d’acquisto delle città, che provoca a sua volta una riduzione del potere d’acquisto delle campagne e, di conseguenza, esse ritornano all’ “economia di sostentamento” e vivono dei prodotti della fattoria senza scambiarli con manufatti industriali. I paesi che avevano orientato la loro agricoltura verso colture specializzate destinate al mercato mondiale, ora che i paesi stranieri hanno cessato di acquistare l’eccedenza dei loro prodotti, si trovano nella situazione più sfavorevole. Nei paesi che hanno una forte esportazione agricola, gli agricoltori sono stati dunque colpiti dalla crisi più gravemente di qualsiasi altro gruppo sociale. Ciò è particolarmente visibile negli Stati Uniti, in Giappone, in Polonia, Ungheria, Romania, Iugoslavia, Argentina e Canada.
In tutti questi paesi gli agricoltori hanno ridotto i loro acquisti di macchine, di concimi, di attrezzi e anche di beni di consumo, aggravando, così, la disoccupazione degli operai dell’industria (negli Stati Uniti più di 2 milioni di operai e di impiegati). E, d’altra parte, l’impossibilità di rinnovare le attrezzature e di riparare i fabbricati ha avuto come conseguenza il deprezzamento delle fattorie. Infine la crisi, interrompendo l’esodo abituale della popolazione delle campagne verso le città, ha provocato un aumento dell’offerta di manodopera agricola e quindi una diminuzione dei salari, tanto più grave perché il passaggio ad un’economia di sostentamento spinge i contadini a congedare gli operai salariati ed a sostituirli con i membri della loro famiglia. La disoccupazione nelle città ha, quindi, provocato la disoccupazione nelle campagne. La crisi è stata particolarmente penosa per le aziende indebitate, come quelle della Svizzera (il 51,8% del loro capitale circolante) e soprattutto per le piccole aziende nei paesi che avevano realizzato la riforma agraria. L’impossibilità di pagare gli interessi dei debiti costringe i contadini a contrarre nuovi prestiti, e così gli oneri ipotecari aumentano in Polonia, in Ungheria (del 40%), in Bulgaria (più del 50%), in Germania. Negli Stati Uniti le fattorie a migliaia diventano proprietà delle banche creditrici. Le espropriazioni nel corso della grande depressione hanno fatto passare nelle mani della Metropolitan Life Insurance  Cy più di 7300 fattorie; nel Montana, le società anonime possiedono nel 1937 il 15,6% delle fattorie in seguito ad espropriazione; nel Yowa l’11,9%.
E’ il dramma descritto in Furore di quei piccoli contadini Oklahoma espropriati dalle banche creditrici, che diventano mezzadri sulle loro terre e poi ne vengono scacciati quando le banche fondono le loro piccole aziende. Nulla di straordinario, dunque, se nel 1939 circa il 29% degli agricoltori sono obbligati a completare i proventi insufficienti delle loro aziende andando a lavorare fuori come salariati. Ancor peggiore la situazione degli sharecroppers, mezzadri del Sud-Est, nonché quella degli operai agricoli, soprattutto di quelli stagionali e migranti.
La crisi provoca in tutti i paesi un’intensa disoccupazione, che colpisce tutte le categorie di salariati dell’industria, e di là si estende a tutti gli altri settori. La disoccupazione non colpisce allo stesso modo le diverse categorie: le miniere, le industrie di trasformazione e l’edilizia sono le più colpite, mentre nell’agricoltura e nei trasporti (ad eccezione degli Stati Uniti, dove si è avuta una contrazione improvvisa) e nel commercio il fenomeno è meno grave.
Soltanto l’Inghilterra ha conservato salari relativamente elevati. Negli Stati Uniti i “codici” permettevano di rialzarli; e in Francia l’avvento al potere del Fronte Popolare ne ha favorito la rivalutazione, presto compromessa dalla crisi monetaria. Ma in Italia, fra il 1928 e il 1934, i salari degli operai agricoli sono scesi del 30% in Emilia, del 34 e persino del 50% in Lombardia. A partire dal 1935, con lo sviluppo delle industrie di guerra e con l’autarchia, lo stato è diventato il più importante datore di lavoro del paese; il salario orario risale nel 1937 e raggiunge il livello del 1928, ma, di fatto, la paga è diminuita, perché la durata dell’occupazione  di ciascun operaio è nettamente inferiore a quella del 1928. Anche in Germania i salari sono aumentati del 14% tra il 1933 e il 1939, ma l’ascesa del costo della vita e i molteplici prelevamenti ai quali essi sono sottoposti compensano largamente gli aumenti. Nonostante gli aumenti salariali e l’aumento dell’occupazione, infatti, la massa dei salari e degli stipendi distribuiti nel 1938 in Germania è tuttora inferiore a quella del 1929.
Nel 1929, quando la produzione industriale era ancora in piena espansione, i disoccupati di tutto il mondo si calcolavano intorno ad una decina di milioni; tra il 1929 e il 1932 questo numero si è triplicato, avvicinandosi, tenuto conto dei disoccupati parziali e della disoccupazione invisibile, ai 40 milioni circa. Poche cifre sono sufficienti a misurare l’ampiezza del fenomeno: negli Stati Uniti la massa dei disoccupati, stimata nel 1929 tra 1.500.000 e 2.500.000, passa nel 1932 ad una cifra che si valuta tra gli 11.400.000 e i 14.700.000, e fino al 1940 non scenderà mai al di sotto dei 7 milioni; soltanto la seconda guerra mondiale metterà fine al fenomeno. In Germania la disoccupazione colpisce 3.800.000 individui nel dicembre del 1930, 5.000.000 due mesi dopo, 5.200.000 nel 1932. In Cecoslovacchia si hanno 41.600 disoccupati nel 1929, 105.000 nel 1930, 554.000 nel 1932. In Austria, 192.000 nel 1929, 300.000 nel 1931, 378.000 nel 1932. In questi tre paesi, che contano complessivamente 87 milioni di abitanti, con una popolazione attiva di 62.500.000 di individui, la disoccupazione colpisce 6.500.000 operai e loro famiglie. In Italia  nel 1932 si contano 700.000 disoccupati ufficiali, ma in realtà la metà degli operai sono disoccupati completi o parziali. L’Inghilterra passa da 1.142.000 disoccupati (pari al 9,7%) nel 1929 a 2.663.000 (21,5%) nel gennaio 1931, al 22% nel 1932, dei quali il 31,7% nel settore metallurgico. In Francia il numero dei disoccupati, che erano 10.000 nel 1929, sale a 30.800 nel 1932, ma bisogna tenere conto dei numerosissimi lavoratori stranieri che hanno dovuto ritornare nel loro paese per mancanza di lavoro: 487.364 nel 1935, 426.000 nel 1937, e ancora 412.386 nel febbraio 1938. Alla disoccupazione industriale bisogna aggiungere la disoccupazione agricola, che è impossibile tradurre in cifre.
D’altra parte, nel corso della crisi, nuovi fattori sfavorevoli sono sopravvenuti. Nella prima fase esiste una corrispondenza assoluta tra movimento della produzione industriale e sviluppo della disoccupazione: ogni diminuzione dell’1%  nel totale della produzione significa mezzo milione di disoccupati in più. Nella fase successiva questa corrispondenza non è più valida: la disoccupazione non scompare in funzione della ripresa della produzione industriale, perché milioni di nuovi lavoratori  sono comparsi sul mercato del lavoro, mentre i pro0gressi tecnici permettono all’industria di aumentare il volume della produzione pur impiegando meno mano d’opera. Nell’insieme, le cifre più alte vengono raggiunte nel 1932 o nel 1933, ma in alcuni paesi solo nel 1934 (Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo), e l’intensità della disoccupazione varia molto secondo i paesi: la Germania, nel 1932, ha il 43,7% di disoccupati totali tra gli operai iscritti ai sindacati, il 22,5% che lavora a orario ridotto, e solo il 33,7 % occupato regolarmente con orario pieno. Una professione nella quale una metà degli operai sia occupata costituisce un’eccezione. Le percentuali sono invece più basse in Giappone (meno del 10%), in Polonia e in Cecoslovacchia (dal 10 al 15%), in Gran Bretagna e in Belgio (dal 15 al 20%), nel Canada, nella Svezia e negli Stati Uniti (dal 20 al 25%); mentre si avvicinano di più a quella tedesca in Austria, in Olanda (dal 25 al 30%), in Norvegia e in Danimarca (dal 30 al 35%). L’ineguaglianza fra i vari paesi è dunque notevole: altrettanto notevole quella tra le razze: negli Stati Uniti la disoccupazione colpisce molto più gravemente i Negri che i Bianchi; i Negri, infatti, sono gli ultimi ad essere assunti e i primi ad essere licenziati.
Per calcolare l’incidenza esatta della disoccupazione bisognerebbe , d’altronde, tener conto non soltanto dei casi individuali, ma delle situazioni familiari, che variano a seconda che tutti i membri della famiglia o soltanto alcuni di loro trovino lavoro, ma “nessuna statistica può misurare la distribuzione delle sofferenze materiali tra il padre di famiglia, sua moglie e i loro figli”.
La crisi ha provocato dappertutto la liquidazione in massa degli investimenti a breve termine e, nello stesso tempo, ha disorganizzato tutto il sistema dei pagamenti internazionali.
La restrizione catastrofica degli sbocchi commerciali e la discesa mondiale dei prezzi mettono gli stati debitori nell’impossibilità di assicurare il pagamento delle annualità e persino degli interessi dei loro debiti: la Germania, i paesi dell’Europa centrale e balcanica, l’America Latina devono ricorrere alla moratoria dei pagamenti e alla svalutazione monetaria, facendo così perdere dei miliardi ai creditori. Di fronte a questi provvedimenti, che si prolungano con l’istituzione del controllo sui cambi e sui movimenti delle divise, i creditori esitano a riprendere le loro operazioni. I capitali che finora venivano investiti nei paesi economicamente arretrati, ora vengono tesaurizzati e rimangono sterili, oppure si impiegano in investimenti a breve termine e in speculazioni monetarie. La paura del fisco, delle svalutazioni e delle conversioni di rendite provoca la migrazione disordinata dei capitali: aumenta, come non mai, la massa dei capitali erranti.
Infine, lo scoppio della crisi ha come effetto immediato una discesa progressiva dei prezzi, che viene frenata soltanto con i provvedimenti di deprezzamento delle monete fra il 1931 e il 1933, mentre, nei paesi rimasti fedeli al regime aureo, la discesa continua fino al 1935, raggiungendo un livello che non ha precedenti nella storia economica mondiale: fino al 36% per i prezzi all’ingrosso in Inghilterra, al 37% negli Stati Uniti, al 34% in Germania, al 50% in Olanda, al 49% in Francia (luglio 1935).
Le perturbazioni dei sistemi monetari provocano0 di conseguenza il crollo di tutto il sistema commerciale mondiale. Dal 1929 al 1934 i valori scambiati diminuiscono considerevolmente, i prezzi-oro scendono del 56% e il volume degli scambi cala del 25,5%, raggiungendo il minimo nel 1932.
E’ impossibile, infatti, applicare i rimedi che erano stati impiegati nelle crisi precedenti: la ricerca di sbocchi capaci di assorbire nuovi capitali e merci è molto più difficile che un tempo, a causa dell’industrializzazione dei paesi d’oltremare (Stati Uniti, Giappone) e della Russia, a causa anche della guerra civile in Cina. Qualche economista suggerisce, sì, un’espansione verso l’Africa o verso l’Europa orientale, ma senza successo: il risultato è un tentativo di espansione caotica, un “si-salvi-chi-può-economico”, poiché ciascuno cerca di tirarsi fuori dai guai secondo i suoi mezzi e le sue possibilità. Questa lotta di ciascuno contro tutti per accaparrarsi dei mercati mondiali sempre meno penetrabili, si traduce nell’abbandono universale del libero scambio, nel raddoppiamento del protezionismo, nella generalizzazione delle misure di difesa e di isolamento contro le merci, contro gli uomini, contro le monete degli altri paesi, infine nell’esasperazione delle rivalità commerciali. Ma questa politica del ciascuno per sé si rivela inoperante per il fatto che tutti prendono contemporaneamente gli stessi provvedimenti, e che, tuttavia, sussiste inevitabilmente un’interdipendenza tra i grandi mercati finanziari e i mercati delle materie prime. Così, l’economia mondiale si disgrega in frammenti nazionali ed imperiali, che sempre più si chiudono l’uno all’altro. L’Inghilterra ripiega sulle sue colonie e sui Dominions , la Francia sul suo Impero; la Germania e gli stati dell’Europa orientale cercano salvezza nell’autarchia e nel protezionismo; gli Stati Uniti, con il New Deal, si orientano essenzialmente verso il mercato interno. Contrariamente a quello che era avvenuto nelle crisi precedenti, la ripresa avviene, essenzialmente, attraverso lo sviluppo dei rispettivi mercati nazionali e non per estensione degli sbocchi all’estero: sono i mercati nazionali che assorbono, per la maggior parte, l’aumento della produzione.
Nel 1936 il volume del commercio mondiale raggiunge l’85% del livello del 1929, ma il suo valore-oro è soltanto il 37,3% del totale raggiunto allora, e il commercio americano risulta diminuito in misura maggiore di quello europeo. La parte americana nel commercio mondiale regredisce, infatti, in seguito all’enorme aumento delle tariffe doganali, e l’Europa può così colmare il distacco che gli Stati Uniti avevano guadagnato nel periodo precedente. Non c’è, tuttavia, rovesciamento di tendenza: quest’accrescimento delle esportazioni europee è il risultato degli accordi preferenziali della Gran Bretagna con i Dominions e delle esportazioni verso gli Imperi coloniali inglese e francese, degli accordi bilaterali conclusi dalla Germania con i paesi sudamericani ed europei dell’Est. Questo miglioramento non arresta dunque il declino dell’Europa, poiché il volume delle esportazioni dei tre più grandi paesi non ha più potuto ritornare al livello del 1929.
I paesi sottosviluppati, poi, come i paesi d’oltremare e i paesi agricoli dell’Europa orientale, essendo stati gravemente colpiti dal crollo dei prezzi dei prodotti primari, sono ancora più di prima spinti ad accelerare la loro industrializzazione e a ridurre le importazioni di prodotti industriali.
La ripresa, quando comincia, rimane modesta, ostacolata dall’autarchia e dall’economia di guerra, dalla crescente discordanza tra prezzi interni e prezzi di esportazione, praticata tanto dalle nazioni del blocco-oro quanto da quelle che (come la Germania, per esempio) si sforzano di conservare artificialmente la stabilità della loro moneta. Tutte, più o meno, praticano il dumping, sia nella sua forma classica, come fa la Germania, sia nella forma di dumping monetario all’interno dell’area del dollaro, dell’area della sterlina, dell’area del franco o dell’area dello yen. Il mercato mondiale è distrutto: “ha fatto il suo tempo, e quel che ne resta non è più altro che una fiera dove ciascuno agguanta quello che può”. (L. Laurat)

 Gaetano  Grasso

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