La crisi
che scoppia nel 1929 è molto differente da quelle che l’hanno preceduta nel
secolo XIX e al principio del XX: essa è così violenta, così profonda e così
universale, che provoca uno sconvolgimento generale del sistema e rovine
gigantesche in un mondo già gravemente scosso, e infine pone il regime
capitalistico di fronte a tali problemi, che esso può sopravvivere solo a
prezzo di una sua profonda trasformazione.
1. La crisi scoppia e
investe tutto il mondo
Nel corso
del secolo XIX, le crisi non erano sconosciute, ma erano considerate come
malattia di crescenza nel corso delle quali la guarigione sopravveniva
automaticamente grazie all’eliminazione delle imprese meno solide, dopo di che
l’espansione ricominciava rapidamente. A questa concezione ottimistica delle
crisi inevitabili e in definitiva salutari, i marxisti opponevano che le crisi,
sempre più ravvicinate e violente, acceleravano il processo di concentrazione
delle imprese e la tendenza al monopolio, e che le trasformazioni di struttura
che ne risultavano le condannavano ad essere ancora più frequenti e più dannose
non soltanto agli interessi dei salariati, ma anche al bene comune.
Gli
economisti avevano rilevato l’esistenza di cicli con alternanza di fasi di
prosperità – nel corso delle quali i prezzi salgono, la disoccupazione
diminuisce, i profitti aumentano – e fasi di depressione, che presentano
caratteri inversi. Pur senza essere d’accordo né sulla durata dei cicli né
sulle loro cause (monetarie per gli uni, economiche o politiche per gli altri)
essi ammettevano che a movimenti di breve durata (da 4 a 8 anni) si
sovrapponevano movimenti di lunga durata varianti in media da 40 a 70 anni. La
crisi che scoppia nel 1929 sarebbe dunque la fine “normale” di un periodo di
lunga durata, e la sua eccezionale virulenza, la sua complessità, la sua durata
si spiegherebbero col fatto che essa avrebbe cumulato con questa causa quelle
che provocano le crisi di breve durata. In ogni caso, essa supera per gravità
tutte le crisi “mondiali” precedenti, anche quella del 1857, considerata a suo
tempo “senza precedenti nella storia”, che era nata anch’essa negli Stati Uniti
e aveva seminato rovine in Inghilterra, ad Amburgo e in tutti i paesi
dell’Europa settentrionale e occidentale.
La nuova
crisi si distingue da quelle che l’hanno preceduta sotto vari aspetti.
All’indomani della crisi del 1920-1921, la ricostruzione e il rinnovamento
delle strutture mondiali si erano effettuati a prezzo delle più grandi
difficoltà, e la produzione mondiale non aveva potuto superare il livello del
1913. La crisi del 1929 non è dunque stata preceduta come quelle del passato da
un’ascesa dei prezzi, dei profitti e dell’occupazione, ma esplode invece
durante un periodo di discesa dei prezzi e in un mondo nel quale l’agricoltura
presenta gravi sintomi di stagnazione e di depressione, nel quale esiste un
numero considerevole di disoccupati – forse 10 milioni – e i principali paesi
d’Europa sono incapaci di raggiungere il livello prebellico del loro commercio
estero.
D’altra
parte, la crisi si distingue da quelle del secolo XIX per il suo carattere
universale, e questa universalità si spiega perché il settore capitalistico,
l’unico che le crisi avessero colpito fino allora, è adesso dominante nei grandi
paesi industriali, sicché con esso viene scosso profondamente tutto l’intero
sistema economico. Mentre nel secolo XIX l’agricoltura era stata relativamente
poco toccata, e la grande depressione dell’ultimo quarto di secolo era stata
soprattutto una crisi europea e aveva interessato principalmente la produzione
di cereali, quella del 1929 è nello stesso tempo industriale e agricola, e
nessun paese, nessun settore dell’economia sfugge ai suoi colpi: essa si
abbatte sugli Stati Uniti, sull’Europa, sui paesi semicoloniali e coloniali; e
interessa tutti i settori sociali.
Le crisi
precedenti, in generale, avevano investito soltanto gli operai e i loro datori
di lavoro, mentre contadini, funzionari, rentiers,
conservavano intatti i loro redditi o anche li aumentavano in conseguenza della
discesa dei prezzi, e il fatto che costoro ne fossero risparmiati facilitava la
rapida liquidazione della crisi; ma nel 1929 tutte le categorie sociali ne sono
investite, i redditi di tutte le classi sono colpiti direttamente o
indirettamente dalla svalutazione, perché tutte le monete sono scosse, nonché
dalle amputazioni delle rendite e degli stipendi. Gli operai non sono le sole
vittime della disoccupazione, ma ad essi si aggiungono impiegati, i piccoli
industriali e commercianti, gli artigiani che debbono chiudere bottega e
cercarsi un impiego.
La crisi
scoppia il giovedì 24 ottobre 1929, il “giovedì nero”, nel modo più inatteso e
più imprevisto, e incomincia con una crisi borsistica. Certo, sin dal mese di
maggio, i prezzi del rame, della ghisa e dell’acciaio erano diminuiti; i
profitti dell’industria automobilistica, in ribasso sin dal secondo trimestre,
erano discesi notevolmente nel corso del terzo, sebbene le vendite fossero
aumentate; i proventi netti delle ferrovie americane, anch’essi, erano in
regresso. A queste indicazioni conosciute dal pubblico, si aggiunge la notizia
del fallimento dello speculatore inglese Hatry, che sfruttava brevetti
Photomaton, fallimento che provoca un rialzo del tasso di sconto a Londra, il
richiamo in patria di una parte dei capitali britannici e la vendita di valori
americani da parte degli speculatori inglesi. Bruscamente, il lunedì 21 ottobre
1929 si effettuano numerose realizzazioni, e il giovedì sopravviene una valanga
di ordini di vendita massicci a qualsiasi prezzo, che investono circa 13
milioni di titoli. L’intervento delle sei maggiori banche, che procedono ad
acquisti per frenare il ribasso, non è sufficiente ad arrestare il panico: il
29 ottobre più di 16 milioni di titoli sono venduti; il ribasso si accentua
sempre più; a metà novembre l’indice delle azioni industriali è caduto da 469 a
220.
La crisi
industriale, già preannunciata, sarà aggravata dal crac finanziario e dal
panico che rende impossibile ogni tentativo di frenarlo o di contenerlo. Tanto
più che quegli elementi essenziali di “sovraconsumo” che erano i plusvalori
borsistici sono brutalmente scomparsi, e molti detentori di titoli che li
avevano pagati solo in parte si trovano improvvisamente indebitati; molti
commercianti e industriali, che avevano ottenuto crediti garantiti dai loro
averi in titoli, ne vedono sparire la base; le vendite a rate si arrestano
automaticamente, le ordinazioni vengono sospese, le scorte si accumulano. E’ il
rude awakening che colpisce l’America stupefatta.
La crisi
della produzione industriale che tiene dietro al crollo dei valori in borsa si
avvicina a gran passi, gli indici di produzione cadono, più o meno rapidamente
secondo le industrie, al di sotto di quelli dell’anno precedente. Nell’industria
automobilistica la caduta comincia fin dall’ottobre, e nei tre mesi seguenti la
produzione si riduce della metà. La crisi si sviluppa con dei soprassalti: nel
secondo semestre del 1930 ha ormai investito tutta l’industria. In questo
momento, la produzione della ghisa è diminuita della metà. Ford, che nella
primavera del 1930 ha dovuto adottare la settimana di cinque giorni,
nell’agosto la riduce a tre giorni. I proventi delle ferrovie diminuiscono e il
commercio estero, nonostante l’entrata in vigore della tariffa
ultraprotezionistica Hawley-Smoot, si contrae. La disoccupazione provoca un
ribasso considerevole del reddito globale della classe operaia; nella primavera
del 1931 cominciano ad applicarsi riduzioni salariali dal 10 al 30%, alle quali
ne seguono ancora maggiori nel corso dell’estate e dell’autunno.
Il crac
finanziario di New York rende impossibile la continuazione dei crediti
all’Europa: le uscite di dollari, che dal 1922 si dirigevano verso investimenti
all’estero, sono immediatamente bloccate. Ora, l’economia dell’Europa centrale
e orientale, e in particolare quella tedesca, si regge proprio su questi
crediti. Nell’ottobre del 1929 si ha il fallimento della Boden Creditanstalt di
Vienna, che il governo austriaco fa salvare dall’ Osterreichische Creditanstalt,
ma le elezioni tedesche del 14 settembre 1930, che segnano i primi progressi
notevoli dei nazisti, e l’ooposizione dei governi francese ed italiano
all’unione doganale progettata fra l’Austria e la Germania, preoccupano gli
ambienti finanziari, che ritirano i loro fondi. Nel maggio 1931 la Osterreichische Creditanstalt sospende a sua volta i pagamenti, e le sue azioni
cadono a 2/100 del loro valore. In tutta l’Europa centrale si ha la corsa agli
sportelli delle banche, che provoca una serie di fallimenti a catena. Le banche
svizzere, olandesi, americane, che avevano investito grossi capitali a breve
termine in Germania (più di 12 miliardi di marchi) cercano di richiamarli in
patria. Di fronte all’intensificarsi di questi richiami, il 20 giugno 1931 il
governo tedesco ottiene dal presidente Hoover una moratoria di un anno per
tutti i pagamenti relativi a riparazioni e debiti di guerra; ma questa
decisione non migliora la situazione della Germania, dove continua il ritiro
dei capitali stranieri e nazionali. Il crac di 200 milioni di marchi del Nordwolle Konzern, cartello laniero di Brema, che provoca il fallimento di Danat, compie il disastro. Il
cancelliere Bruning decide la chiusura di tutte le banche, casse di risparmio
ed altre istituzioni di credito. Quando esse si riaprono, in agosto, tutti i
crediti stranieri in Germania restano congelati, sottoposti ad una moratoria di
fatto.
Dappertutto
crollano le banche: a Riga, in Austria, in Romania, in Iugoslavia, in Francia
(la banca Oustric , il gruppo Octave Homberg). Talvolta i governi le
riorganizzano: così in Cecoslovacchia, in Francia. Il 24 settembre 1931
soltanto le borse di New York, di Parigi e di Praga sono ancora aperte.
L’ondata di fallimenti delle banche finisce soltanto nella primavera del 1932.
Ma la
catastrofe non si ferma lì. In Inghilterra le perdite considerevoli derivanti
dal crac della Creditanstalt e
il congelamento dei capitali investiti in Germania e nell’Europa centrale, che
le banche britanniche non hanno richiamato in tempo (73 milioni di sterline a
lungo termine e 90 milioni a breve termine), scuotono seriamente la valuta.
Molti stranieri preoccupati convertono le loro sterline in oro, in franchi, in
fiorini, in dollari, in modo che la Banca d’Inghilterra si trova a non disporre
più di sufficiente numerario aureo. I ritiri diventano preoccupanti, nonostante
i crediti di 50 milioni di sterline accordati dalla Banca di Francia e dalla Federal Reserve Bank di New York:
il 21 settembre, il governo abbandona la parità aurea. Questo abbandono della
parità-oro della sterlina, per la quale l’Inghilterra aveva fatto tanti
sacrifici, aggrava la crisi e provoca un vero e proprio crollo della struttura
dell’economia monetaria mondiale. In pochi giorno la sterlina scende del 30%rispetto
al suo antico valore-oro e in questa caduta si porta dietro una trentina di
monete satelliti: quelle dei Paesi scandinavi, dei Dominions (ad eccezione del Sudafrica e del Canada), del
Portogallo, del Siam, dell’Egitto, della Bolivia e, nel dicembre 1931, del
Giappone.
Numerosi
privati e società che possedevano sterline, le case di commercio di tutto il
mondo, i cui contratti erano stipulati in questa moneta, le banche d’emissione
, che avevano collocato una parte importante delle loro riserve di divisa in
sterline conformemente al Gold Exchange Standard, subiscono perdite considerevoli: la Banca di Francia, 2
miliardi di franchi; la Banca d’Olanda, 30 milioni di fiorini; la Banca del
Belgio, 650 milioni di franchi belgi…
Così, ad
eccezione della Francia che è raggiunta dalla crisi solo nel 1931, tutti gli
Stati sono stati colpiti fin dal 1930.
I paesi
nuovi hanno ricevuto la crisi dal di fuori e sono stati colpiti nello stesso
tempo dalla caduta brutale delle esportazioni e dall’interruzione degli arrivi
di capitali stranieri. Nel Canada, la discesa del prezzo del grano da 124
cents nel 1929 a meno di 60 nel 1931 si congiunge col disastroso raccolto del
1931 nell’Ovest, che riduce quasi a niente il provento di 2 milioni di ettari:
gli agricoltori licenziano i braccianti, rinunciano ai trattori perché la
benzina è troppo cara, e ritornano ai cavalli. Il reddito lordo degli
agricoltori canadesi, che era 1800 milioni di dollari oro nel 1927 e nel 1928,
cade a meno di 800 milioni di dollari svalutati nel 1932-1934, e il reddito
netto da 1500 milioni di dollari a meno di 500; l’indice dei prezzi agricoli è
diminuito di quasi 2/3, mentre l’indice generale dei prezzi e sceso soltanto di
poco più di un terzo. Il potere d’acquisto degli agricoltori è ridotto a zero,
e quando, dopo il 1932, i prezzi cominciano a risalire, essi restano tuttavia
ridicolmente bassi in confronto alle spese di trasporto, magazzinaggio e
senserie, che non si possono comprimere. Il valore delle terre, che nella
prateria aveva raggiunto i 250 dollari per ettaro nel 1928, cade a 12,5 ammesso
che in qualche caso si possa ancora vendere. La produzione boschiva diminuisce
di 2/3; quella delle miniere passa da 311 milioni di dollari a 183 nel 1932 e
risale a 273 nel 1934.
In
Australia e nella Nuova Zelanda i prezzi della lana cominciano a calare
nell’agosto del 1929 e il movimento discendente continua fino al principio del
1933. Sebbene le esportazioni di lana, grano, carni ovine e bovine, e zucchero
siano considerevolmente aumentate in volume, talvolta raddoppiate o triplicate,
il loro valore non rappresenta tuttavia nel 1931-1932 che il 55% del valore
delle esportazioni del 1928-1929. Nel Sudafrica la depressione coincide con la
più lunga siccità che si ricordi dal 1860 in poi e con l’epizoozia degli ovini.
Ne deriva una caduta vertiginosa dei prezzi del mais, della lana e di molti
altri prodotti, e l’estrazione del diamante cade a 506.000 carati (1/9 di
quella del 1927); la miniera di Premier, vicino a Pretoria, è chiusa, e
l’Unione Sudafricana è salvata soltanto dalla sua produzione di oro.
L’India è
colpita ancor più duramente degli altri paesi, perché i 4/5 della sua
popolazione dipendono strettamente dall’esportazione di prodotti grezzi, il cui
valore si riduce di metà. Tra il 1928-1929 e il 1932-1933, le esportazioni
cadono da 3.390 milioni di rupie a 1.350, e le importazioni calano della metà,
mentre gli interessi dei prestiti e le spese pubbliche restano pesanti come
prima.
Il Brasile
attraversa una nuova crisi di sovrapproduzione del caffè, molto più brutale di
quella del principio del secolo; venuto a mancare il sostegno delle grandi
banche straniere, i prezzi sulla piazza di New York precipitano da 23 cents a
8, e la sterlina inglese trascina nella sua caduta il fallimento dei piantatori
e l’espropriazione di coloro che avevano ipotecato le loro terre. Nelle isole
dell’America centrale, produttrici di zucchero, si ha la stessa caduta dei
prezzi e la stessa espropriazione dei piantatori ad opera delle banche. In
Argentina, paese la cui prosperità dipende dall’esportazione di pochi prodotti
agricoli, grano e carne si accumulano nei depositi, il peso si svaluta e il
valore della terra si avvilisce costringendo molti proprietari a ipotecare le
loro proprietà, e poi, quando non possono più pagare gli interessi dei debiti,
a reclamare una moratoria.
2.
Le manifestazioni della crisi
Se si
paragonano gli indici della produzione agricola e industriale del mondo, si
constata che dal 1929 al 1933 la produzione agricola ha subito lievissime
variazioni e, nel complesso, soltanto una leggera diminuzione, mentre la
produzione industriale ha regredito nell’insieme più del 15%.
La
manifestazione più impressionante della crisi è stata, dunque, la contrazione
violenta e molto più notevole che nelle crisi precedenti (in Germania del 39%,
contro il 6%) della produzione industriale, che raggiunge il punto più basso
nel luglio 1932: il 38% al di sotto della media del giugno 1929. Poi, a partire
dall’autunno, l’ascesa, contrassegnata da numerose oscillazioni, riprende. La
contrazione è stata più brutale nei paesi industriali (Europa industrializzata
e Stati Uniti), che nei paesi agricoli d’Europa e nel Giappone. In tal modo il
grosso delle perdite si è concentrato su di uno spazio relativamente ristretto,
poiché nel 1928 i ¾ della produzione industriale mondiale erano concentrati in
quattro potenze: Stati Uniti (44,8%), Germania (11,5%), Gran Bretagna (9,26%),
Francia (7%), se si aggiungono il Belgio, l’Olanda, la Svizzera, l’Austria e il
Canada, questi nove paesi ne rappresentano l’80% e il resto si suddivide tra
U.R.S.S., Italia, Giappone, India, Spagna, Svezia, Polonia, Argentina, paesi
tutti prevalentemente agricoli. Più della metà delle perdite provocate dalla
crisi, cioè il 90% del totale delle perdite dei nove paesi industrializzati,
sono state subite dagli Stati Uniti. E’ un precipizio che non si era mai
veduto, neanche durante il periodo bellico, quando le perdite erano state del
30% per i belligeranti europei.
Poiché la
produzione agricola, e in particolare quella delle derrate alimentari, subisce
scarse variazioni, la crisi è in questo campo meno generale e meno uniforme che
nell’industria. Essa prende la forma di una crisi violenta dei prezzi (il loro
livello medio scende negli Stati Uniti del 57% dal giugno 1929 al dicembre
1932), risultato della contrazione del potere d’acquisto delle città, che
provoca a sua volta una riduzione del potere d’acquisto delle campagne e, di
conseguenza, esse ritornano all’ “economia di sostentamento” e vivono dei
prodotti della fattoria senza scambiarli con manufatti industriali. I paesi che
avevano orientato la loro agricoltura verso colture specializzate destinate al
mercato mondiale, ora che i paesi stranieri hanno cessato di acquistare
l’eccedenza dei loro prodotti, si trovano nella situazione più sfavorevole. Nei
paesi che hanno una forte esportazione agricola, gli agricoltori sono stati
dunque colpiti dalla crisi più gravemente di qualsiasi altro gruppo sociale.
Ciò è particolarmente visibile negli Stati Uniti, in Giappone, in Polonia,
Ungheria, Romania, Iugoslavia, Argentina e Canada.
In tutti
questi paesi gli agricoltori hanno ridotto i loro acquisti di macchine, di
concimi, di attrezzi e anche di beni di consumo, aggravando, così, la
disoccupazione degli operai dell’industria (negli Stati Uniti più di 2 milioni
di operai e di impiegati). E, d’altra parte, l’impossibilità di rinnovare le
attrezzature e di riparare i fabbricati ha avuto come conseguenza il
deprezzamento delle fattorie. Infine la crisi, interrompendo l’esodo abituale
della popolazione delle campagne verso le città, ha provocato un aumento
dell’offerta di manodopera agricola e quindi una diminuzione dei salari, tanto
più grave perché il passaggio ad un’economia di sostentamento spinge i
contadini a congedare gli operai salariati ed a sostituirli con i membri della
loro famiglia. La disoccupazione nelle città ha, quindi, provocato la
disoccupazione nelle campagne. La crisi è stata particolarmente penosa per le
aziende indebitate, come quelle della Svizzera (il 51,8% del loro capitale
circolante) e soprattutto per le piccole aziende nei paesi che avevano
realizzato la riforma agraria. L’impossibilità di pagare gli interessi dei
debiti costringe i contadini a contrarre nuovi prestiti, e così gli oneri
ipotecari aumentano in Polonia, in Ungheria (del 40%), in Bulgaria (più del
50%), in Germania. Negli Stati Uniti le fattorie a migliaia diventano proprietà
delle banche creditrici. Le espropriazioni nel corso della grande depressione
hanno fatto passare nelle mani della Metropolitan
Life Insurance Cy più di 7300 fattorie; nel Montana, le società
anonime possiedono nel 1937 il 15,6% delle fattorie in seguito ad
espropriazione; nel Yowa l’11,9%.
E’ il
dramma descritto in Furore di quei
piccoli contadini Oklahoma espropriati dalle banche creditrici, che diventano
mezzadri sulle loro terre e poi ne vengono scacciati quando le banche fondono
le loro piccole aziende. Nulla di straordinario, dunque, se nel 1939 circa il
29% degli agricoltori sono obbligati a completare i proventi insufficienti
delle loro aziende andando a lavorare fuori come salariati. Ancor peggiore la
situazione degli sharecroppers,
mezzadri del Sud-Est, nonché quella degli operai agricoli, soprattutto di
quelli stagionali e migranti.
La crisi
provoca in tutti i paesi un’intensa disoccupazione, che colpisce tutte le
categorie di salariati dell’industria, e di là si estende a tutti gli altri
settori. La disoccupazione non colpisce allo stesso modo le diverse categorie:
le miniere, le industrie di trasformazione e l’edilizia sono le più colpite,
mentre nell’agricoltura e nei trasporti (ad eccezione degli Stati Uniti, dove
si è avuta una contrazione improvvisa) e nel commercio il fenomeno è meno
grave.
Soltanto
l’Inghilterra ha conservato salari relativamente elevati. Negli Stati Uniti i
“codici” permettevano di rialzarli; e in Francia l’avvento al potere del Fronte
Popolare ne ha favorito la rivalutazione, presto compromessa dalla crisi
monetaria. Ma in Italia, fra il 1928 e il 1934, i salari degli operai agricoli
sono scesi del 30% in Emilia, del 34 e persino del 50% in Lombardia. A partire
dal 1935, con lo sviluppo delle industrie di guerra e con l’autarchia, lo stato
è diventato il più importante datore di lavoro del paese; il salario orario
risale nel 1937 e raggiunge il livello del 1928, ma, di fatto, la paga è
diminuita, perché la durata dell’occupazione di ciascun operaio è
nettamente inferiore a quella del 1928. Anche in Germania i salari sono
aumentati del 14% tra il 1933 e il 1939, ma l’ascesa del costo della vita e i
molteplici prelevamenti ai quali essi sono sottoposti compensano largamente gli
aumenti. Nonostante gli aumenti salariali e l’aumento dell’occupazione,
infatti, la massa dei salari e degli stipendi distribuiti nel 1938 in Germania
è tuttora inferiore a quella del 1929.
Nel 1929,
quando la produzione industriale era ancora in piena espansione, i disoccupati
di tutto il mondo si calcolavano intorno ad una decina di milioni; tra il 1929
e il 1932 questo numero si è triplicato, avvicinandosi, tenuto conto dei
disoccupati parziali e della disoccupazione invisibile, ai 40 milioni circa.
Poche cifre sono sufficienti a misurare l’ampiezza del fenomeno: negli Stati
Uniti la massa dei disoccupati, stimata nel 1929 tra 1.500.000 e 2.500.000,
passa nel 1932 ad una cifra che si valuta tra gli 11.400.000 e i 14.700.000, e
fino al 1940 non scenderà mai al di sotto dei 7 milioni; soltanto la seconda
guerra mondiale metterà fine al fenomeno. In Germania la disoccupazione
colpisce 3.800.000 individui nel dicembre del 1930, 5.000.000 due mesi dopo,
5.200.000 nel 1932. In Cecoslovacchia si hanno 41.600 disoccupati nel 1929,
105.000 nel 1930, 554.000 nel 1932. In Austria, 192.000 nel 1929, 300.000 nel
1931, 378.000 nel 1932. In questi tre paesi, che contano complessivamente 87
milioni di abitanti, con una popolazione attiva di 62.500.000 di individui, la
disoccupazione colpisce 6.500.000 operai e loro famiglie. In Italia nel
1932 si contano 700.000 disoccupati ufficiali, ma in realtà la metà degli
operai sono disoccupati completi o parziali. L’Inghilterra passa da 1.142.000
disoccupati (pari al 9,7%) nel 1929 a 2.663.000 (21,5%) nel gennaio 1931, al
22% nel 1932, dei quali il 31,7% nel settore metallurgico. In Francia il numero
dei disoccupati, che erano 10.000 nel 1929, sale a 30.800 nel 1932, ma bisogna
tenere conto dei numerosissimi lavoratori stranieri che hanno dovuto ritornare
nel loro paese per mancanza di lavoro: 487.364 nel 1935, 426.000 nel 1937, e
ancora 412.386 nel febbraio 1938. Alla disoccupazione industriale bisogna
aggiungere la disoccupazione agricola, che è impossibile tradurre in cifre.
D’altra
parte, nel corso della crisi, nuovi fattori sfavorevoli sono sopravvenuti.
Nella prima fase esiste una corrispondenza assoluta tra movimento della
produzione industriale e sviluppo della disoccupazione: ogni diminuzione
dell’1% nel totale della produzione significa mezzo milione di
disoccupati in più. Nella fase successiva questa corrispondenza non è più
valida: la disoccupazione non scompare in funzione della ripresa della
produzione industriale, perché milioni di nuovi lavoratori sono comparsi
sul mercato del lavoro, mentre i pro0gressi tecnici permettono all’industria di
aumentare il volume della produzione pur impiegando meno mano d’opera. Nell’insieme,
le cifre più alte vengono raggiunte nel 1932 o nel 1933, ma in alcuni paesi
solo nel 1934 (Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo), e l’intensità della
disoccupazione varia molto secondo i paesi: la Germania, nel 1932, ha il 43,7%
di disoccupati totali tra gli operai iscritti ai sindacati, il 22,5% che lavora
a orario ridotto, e solo il 33,7 % occupato regolarmente con orario pieno. Una
professione nella quale una metà degli operai sia occupata costituisce
un’eccezione. Le percentuali sono invece più basse in Giappone (meno del 10%),
in Polonia e in Cecoslovacchia (dal 10 al 15%), in Gran Bretagna e in Belgio
(dal 15 al 20%), nel Canada, nella Svezia e negli Stati Uniti (dal 20 al 25%);
mentre si avvicinano di più a quella tedesca in Austria, in Olanda (dal 25 al
30%), in Norvegia e in Danimarca (dal 30 al 35%). L’ineguaglianza fra i vari
paesi è dunque notevole: altrettanto notevole quella tra le razze: negli Stati
Uniti la disoccupazione colpisce molto più gravemente i Negri che i Bianchi; i
Negri, infatti, sono gli ultimi ad essere assunti e i primi ad essere
licenziati.
Per
calcolare l’incidenza esatta della disoccupazione bisognerebbe , d’altronde,
tener conto non soltanto dei casi individuali, ma delle situazioni familiari,
che variano a seconda che tutti i membri della famiglia o soltanto alcuni di
loro trovino lavoro, ma “nessuna statistica può misurare la distribuzione delle
sofferenze materiali tra il padre di famiglia, sua moglie e i loro figli”.
La crisi ha
provocato dappertutto la liquidazione in massa degli investimenti a breve
termine e, nello stesso tempo, ha disorganizzato tutto il sistema dei pagamenti
internazionali.
La
restrizione catastrofica degli sbocchi commerciali e la discesa mondiale dei
prezzi mettono gli stati debitori nell’impossibilità di assicurare il pagamento
delle annualità e persino degli interessi dei loro debiti: la Germania, i paesi
dell’Europa centrale e balcanica, l’America Latina devono ricorrere alla
moratoria dei pagamenti e alla svalutazione monetaria, facendo così perdere dei
miliardi ai creditori. Di fronte a questi provvedimenti, che si prolungano con
l’istituzione del controllo sui cambi e sui movimenti delle divise, i creditori
esitano a riprendere le loro operazioni. I capitali che finora venivano
investiti nei paesi economicamente arretrati, ora vengono tesaurizzati e
rimangono sterili, oppure si impiegano in investimenti a breve termine e in
speculazioni monetarie. La paura del fisco, delle svalutazioni e delle
conversioni di rendite provoca la migrazione disordinata dei capitali: aumenta,
come non mai, la massa dei capitali erranti.
Infine, lo
scoppio della crisi ha come effetto immediato una discesa progressiva dei
prezzi, che viene frenata soltanto con i provvedimenti di deprezzamento delle
monete fra il 1931 e il 1933, mentre, nei paesi rimasti fedeli al regime aureo,
la discesa continua fino al 1935, raggiungendo un livello che non ha precedenti
nella storia economica mondiale: fino al 36% per i prezzi all’ingrosso in
Inghilterra, al 37% negli Stati Uniti, al 34% in Germania, al 50% in Olanda, al
49% in Francia (luglio 1935).
Le
perturbazioni dei sistemi monetari provocano0 di conseguenza il crollo di tutto
il sistema commerciale mondiale. Dal 1929 al 1934 i valori scambiati
diminuiscono considerevolmente, i prezzi-oro scendono del 56% e il volume degli
scambi cala del 25,5%, raggiungendo il minimo nel 1932.
E’
impossibile, infatti, applicare i rimedi che erano stati impiegati nelle crisi
precedenti: la ricerca di sbocchi capaci di assorbire nuovi capitali e merci è
molto più difficile che un tempo, a causa dell’industrializzazione dei paesi
d’oltremare (Stati Uniti, Giappone) e della Russia, a causa anche della guerra
civile in Cina. Qualche economista suggerisce, sì, un’espansione verso l’Africa
o verso l’Europa orientale, ma senza successo: il risultato è un tentativo di
espansione caotica, un “si-salvi-chi-può-economico”, poiché ciascuno cerca di
tirarsi fuori dai guai secondo i suoi mezzi e le sue possibilità. Questa lotta
di ciascuno contro tutti per accaparrarsi dei mercati mondiali sempre meno
penetrabili, si traduce nell’abbandono universale del libero scambio, nel
raddoppiamento del protezionismo, nella generalizzazione delle misure di difesa
e di isolamento contro le merci, contro gli uomini, contro le monete degli
altri paesi, infine nell’esasperazione delle rivalità commerciali. Ma questa
politica del ciascuno per sé si rivela inoperante per il fatto che tutti
prendono contemporaneamente gli stessi provvedimenti, e che, tuttavia, sussiste
inevitabilmente un’interdipendenza tra i grandi mercati finanziari e i mercati
delle materie prime. Così, l’economia mondiale si disgrega in frammenti
nazionali ed imperiali, che sempre più si chiudono l’uno all’altro.
L’Inghilterra ripiega sulle sue colonie e sui Dominions , la Francia sul suo Impero; la Germania e gli stati
dell’Europa orientale cercano salvezza nell’autarchia e nel protezionismo; gli
Stati Uniti, con il New Deal, si orientano essenzialmente verso
il mercato interno. Contrariamente a quello che era avvenuto nelle crisi
precedenti, la ripresa avviene, essenzialmente, attraverso lo sviluppo dei
rispettivi mercati nazionali e non per estensione degli sbocchi all’estero:
sono i mercati nazionali che assorbono, per la maggior parte, l’aumento della
produzione.
Nel 1936 il
volume del commercio mondiale raggiunge l’85% del livello del 1929, ma il suo
valore-oro è soltanto il 37,3% del totale raggiunto allora, e il commercio
americano risulta diminuito in misura maggiore di quello europeo. La parte
americana nel commercio mondiale regredisce, infatti, in seguito all’enorme
aumento delle tariffe doganali, e l’Europa può così colmare il distacco che gli
Stati Uniti avevano guadagnato nel periodo precedente. Non c’è, tuttavia,
rovesciamento di tendenza: quest’accrescimento delle esportazioni europee è il
risultato degli accordi preferenziali della Gran Bretagna con i Dominions e delle esportazioni verso gli
Imperi coloniali inglese e francese, degli accordi bilaterali conclusi dalla
Germania con i paesi sudamericani ed europei dell’Est. Questo miglioramento non
arresta dunque il declino dell’Europa, poiché il volume delle esportazioni dei
tre più grandi paesi non ha più potuto ritornare al livello del 1929.
I paesi
sottosviluppati, poi, come i paesi d’oltremare e i paesi agricoli dell’Europa
orientale, essendo stati gravemente colpiti dal crollo dei prezzi dei prodotti
primari, sono ancora più di prima spinti ad accelerare la loro
industrializzazione e a ridurre le importazioni di prodotti industriali.
La ripresa,
quando comincia, rimane modesta, ostacolata dall’autarchia e dall’economia di
guerra, dalla crescente discordanza tra prezzi interni e prezzi di
esportazione, praticata tanto dalle nazioni del blocco-oro quanto da quelle che
(come la Germania, per esempio) si sforzano di conservare artificialmente la
stabilità della loro moneta. Tutte, più o meno, praticano il dumping, sia nella sua forma classica,
come fa la Germania, sia nella forma di dumping
monetario all’interno dell’area del dollaro, dell’area della sterlina,
dell’area del franco o dell’area dello yen. Il mercato mondiale è distrutto:
“ha fatto il suo tempo, e quel che ne resta non è più altro che una fiera dove
ciascuno agguanta quello che può”. (L. Laurat)
Gaetano Grasso
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