Città e decrescita, qualche idea
Il coraggio di sognare una città socialmente ed ecologicamente giusta. Il coraggio di costruire una città nella quale siamo in grado di vivere bene ed essere felici entro i limiti ecologici del pianeta e in un contesto di democrazia profonda e di solidarietà. Quali misure bisognerebbe applicare, qui e ora, per realizzare questi sogni? Alcune linee guida sperimentate dai movimenti nei territori cominciano a essere note: ridurre l’impronta ecologica e l’espansione urbana, riciclare gli edifici non utilizzati, ri-localizzare le attività e favorire una mobilità diversa (cioè che mette al centro pedoni e ciclisti), ri-equilibrare la relazione tra città e campagna (con gli orti urbani e con la riconversione delle terre abbandonate o dedicate a monocolture), condividere beni (i mezzi di trasporto privati, alcuni elettrodomestici) e servizi
di Florent Marcellesi*
Il coraggio di sognare una città socialmente ed ecologicamente giusta. Il coraggio di costruire una città nella quale siamo in grado di vivere bene ed essere felici entro i limiti ecologici del pianeta e in una società davvero democratica e solidale. Ma questo sogno corrisponde con l’evoluzione storica e la realtà della città moderna in generale (e Bilbao, in particolare)? Quali misure bisognerebbe applicare, qui e ora, per realizzare questi sogni?
Città e modernità industriale
La rivoluzione industriale ha ri-configurato profondamente la struttura territoriale e sociale delle denominate società moderne. Mentre durante il 1800, (principalmente) in Europa occidentale circa 30 milioni di persone occupavano le areee ubane, rispetto al miliardo che popolava il pianeta, oggi, e per la prima volta nella storia, la popolazione urbana supera, a livelllo mondiale, quella rurale.
Il 50 per cento della popolazione del pianeta, circa 3.500 milioni di persone, risiedono in zone urbane, con un trend che —seguendo la tendenza attuale— porterebbe ai 5 mila milioni nel 2030 ed oltre all’80 per cento nel 2050. Tale fenomeno, provocato da una rapida crescita demografica e il continuo, ed in gran parte forzato, esodo urbano della popolazione rurale (campesinado) per alimentare la richiesta di mano d’opera dell’industria, hanno convertito le città nell’elemento fondamentale della globalizzazione liberale e produttivista.
Nel 2007, le città che ricoprono il 2 per cento dell’intera superficie mondiale, contribuivano a generare l’80 per cento del Pil, mentre le 600 città più importanti, integrando appena un quinto della popolzazione globale, concentravano il 60 per cento del Prodotto interno lordo (McKinsey Global Institute, 2011).
Ovviamente, questa struttura, che fa delle città il suo autentico polmone socio-economico, costituita da una rete globale con molteplici connessioni e in costante competizione, genera un prezzo ecologico. L’Agenzia internazionale dell’energía (Aie – 2008) ha stimato che (già) nel 2006 le città consumavano circa il 67 per cento dell’energia primaria mondiale, generando il 71 per cento delle emissioni di gas efetto serra (Ges d’ora in avanti), legate all’uso dei combustibili fossili. Se il proceso di urbanizzazione continuasse a questi ritmi, la Aie avverte che sarà inevitabile un aumento del consumo energetico e il (conseguente) aumento delle emissioni di Ges (oltre il 70 per cento per il 2030, in entrambi i casi). Di fatto, però, questa tendenza è semplicemente incompatibile con la realtà energetica e climatica.
Si è giunti ormai al tetto del petrolio, superando la capacità di assorbimento di Ges da parte dell’atmosfera. Per poter garantire la sopravvivenza civilizzata dell’umnaità è (più che mai) urgente cambiare il modello globale e, data l’importanza strategica, cambiare alla radice la concezione della urbe, posto che questa è riflesso dell’attuale modello socio-economico e, al tempo stesso, soggetto attivo del cambio globale.
Impronta ecologica urbana, limiti del pianeta e sviluppo umano
L’impronta ecologica permette di valutare l’impatto di una società, un paese, una regione o di una persona sull’ambiente e viene definita come “la capacità degeli ecosistemi di produrre materiali biologici utili e di assorbire i residui generati dagli esseri umani” (Ewing et al, 2008).
A partire da questa definizione otteniamo due scenari possibili:
- un “déficit ecologico” (quando l’impronta è superiore alla capacità di carico),
- o l’“autosufficienza” (quando l’impronta è inferiore alla capacità di carico).
Secondo l’Osservatorio della Sostenibilità in Spagna (Ose, 2010), l’impronta ecologica di Bilbao è, in media, di 6,27 ettari globali per abitante, mentre la sua biocapacità è pari a 1,80 ettari (globali per abitante). Pertanto, Bilbao registra un deficit ecologico di 4,47 ettari per abitante. In altre parole, la città utilizza risorse equivalenti a oltre 100 volte la propria superficie!
[...] In Spagna, l’impronta media delle città è di 5.1 ettari per abitante, suddivisa in un 67,3 per cento per l’assorbimento di CO2, un 32,1 per cento per le coltivazioni, pascoli, boschi e pesca, oltre ad un 0,6% per terreno edificato. Inoltre, l’analisi integrato degli indicatori, realizzato dall’Ose, indica che le capitali di provincia si caratterizzano per la presenza di livelli di sviluppo umano acettabili (con un HDI superiore allo 0,8) e per un’impronta ecologica di gran lunga superiore all’1.8, catalogandole come territori con un deficit ambientale significativo.
Infine, Barcellona, Bilbao, Madrid, Malaga, Murcia, Siviglia, Valencia e Saragozza sono le città che registrano una maggior impronta ecologica, il che mostra la relazione diretta tra le città con maggior impronta ecologica e due fattori centrali in questo senso: la popolazione residente ed il livello di ricchezza (tanto materiale quanto economico).
Questo sentiero è totalmente “insolidale” ed insostenibile. Basandosi nelle cifre del Report Globale Spagna 2020/50 (2009), se si continua seguendo queste tendenze strutturali e culturali, imperanti in questi ultimi anni, l’impronta ecologica urbana crecerà un 47 per cento nel 2020 e un 117 per cento nel 2050… Anche applicando uno scenario includente milgioramenti urbanistici, che però non consentono di influire drasticamente sui modelli di consumo, nel 2020 si registrerebbe un’impronta ecologica del 7 per cento superiore ai valori del 2005, raggiungendo un 19 per cento nel 2050.
Verso una città del “buon vivere”
Di fronte a questo panorama inquietante e sempre partendo da una visione della giustizia sociale ed ambientale, a livello locale e globale, non resta altro rimedio che iniziare la transizione “dalla città con espansione illimitata alla città adattara ai limiti della biocapacità glocale” (Report Globale Spagna 2020/2050, 2009: p.30). Tale transizione dovrebbe consentire, allo stesso tempo, di raggiungere una decrescita “del 45 per cento dell’impronta media delle città, calcolata per l’anno 2005” e di mantenere un HDI superiore allo 0.8. Per costruire questa città dove si possa vivere bene, essere felici ed autonomi, rispettando i limiti ecologici del Pianeta, secondo forme democratiche e solidali, è anzitutto necessario fissare una serie di principi di base.
Principio di (auto)sufficienza: si tratta di rispondere e definire democraticamente questioni elementari e interrelazionate con la (buona) vita di una comunità e le risorse naturali disponibili: quanto è sufficiente per coprire le necessità primarie, tanto colettive quanto personali, garantendo l’autonomia individuale e la solidarietà? Quanto in relazione alla biocapacità reale del territorio?
Principio di “biomemesi”: significa che una città, come un campo, e l’insieme delle sue componenti dovrebbero svillupparsi imitando la natura. Seguendo Jorge Riechmann, l’economia della natura è “ciclica, totalmente rinnovabile ed auto-riproduttiva, senza residui, la sua fonte di energía è inesauribile in termini umani: l’energia solare con le sue differenti manifestazioni. (…) Ogni residuo di un processo si trasforma nella materia prima di un altro processo: i cicli si chiudono”.
Principio di eco-efficienza: espone la necessità di utilizzare meno risorse e generare meno impatto per unità di prodotto. In ogni caso, e principalmente attraverso il principio di (auto)limitazione, bisognerà considerare e combattere l’“efetto rimbalzo”, per cui si suppone che per quanto diminuisca l’impatto ambientale per unità prodotta, i miglioramenti vengono sistematicamente annullati a causa della moltiplicazione del numero di unità vendute e consumate.
Principio di rentabilità sociale ed ecologica: le personas e la T(t)erra rappresentano il core dell’attenzione. La città non è una mega-infrastruttura disumanizzata in cui gli abitanti sono al suo servizio ma, al contrario, costituisce uno strumento al servizio della popolazione che permetta di raggiungere il benessere in forma sostenibile.
Principio di democrazia: i principi enunciati, e particolarmente il primo, relativo alla sufficienza, pone in rilievo la centralità della questione democratica. Definire processi e strumenti democratici che permettano realizzare effettivamente la democrazia dell’auto-limitazione e dell’autogestione collettiva delle necessità e i mezzi per la sua soddisfazione, costistuisce una linea trasversale della città del XXI secolo.
Per ciò che concerne l’applicazione pratica, questi cinque principi possono essere declinati tramite alcune idee-guida, non certo esaustive, che però orientano il cammino verso una città sostenibile, in cui incontriamo, per esempio, iniziative come le “città in transizione”, le “Slow City” o le “città dei bambini”.
Adeguare la città e il suo territorio alla propria biocapacità: ogni città, o meglio regione, ha il dovere di valutare la capacità di carico del proprio territorio, mantenendo la realtà ecologica come orizzonte e riferimento per ri-orientare la propria organizzazione socio-economica. Per esempio, l’obiettivo di Bilbao dovrebbe essere quello di ridurre tre volte l’impronta ecologica o, per lo meno, mantenere un consumo di risorse e produzione di residui compatibile con la biocapacità basca, considerando, ovviamente, il resto delle località della provincia. In particolare, è importante calcolare la quantità di terra agricola necessaria per rifornire la popolazione e compararla con l’uso attuale, determinando cosí la quantità di superficie agraria e creare una riserva di suolo.
Fermare la crescita delle città: attualmente, il tasso di crescita delle città europee è di poco inferiore all’1 per cento. È necesario porre fine all’espansione urbana e organizzare un piano di contenzione dell’urbanizzazione e dell’artificializzazione del suolo (Bilbao, per esmpio, occupa già oltre il 50 per cento del suolo disponibile; dati Udalplan). Al tempo stesso, urge porre fine alla costruzione delle grandi infrastrutture di trasporto, che provocano il chiamato sprawl urbano, un uso intensivo d’energia fossile e di auto. In particolare, non è possibile pemettere più di 3A: Autostrade, Aereoporti12 o Alta Velocità. Il fallimento (annunciato) della Supersur indica chiaramente che l’epoca del mattone e delle grandi infrastrutture viarie deve lasciare spazio ad una città di pedoni, bici e trasporto collettivo.
Riciclare e rivalorizzare le città esistenti: la priorità, pertanto, è poter riciclare ciò che esiste. Da un lato, si stimano circa 15.000 residenze disoccupate nella città di Bilbao mentre, nell’interna regione dei Paesi Baschi, le famiglie senza tetto hanno raggiunrto le 11.000 unità agli inizi del 2008. Non esiste necessità di costruire ancora, bensì di repartire meglio lo stock attuale, senza aumentare la pressione sul suolo e rendendo effettivo il diritto alla casa per tutti. D’altra parte, di fronte alla crisi ecologica, la ri-abilitazione rappresenta un’asse prioritario per l’obiettivo di riduzione dell’impronta ecologica, posto che il miglioramento degli edifici (isolamento, recupero delle acque, riscaldamento termico, ecc.) consente di realizzare grandi riduzioni di consumo energetico e di emissioni di CO2.
Infine, tutto ciò rappresenta una fonte d’impiego: secondo studi del Conama, la riforma di 10 milioni di residenze nello Stato spagnolo, fino al 2050, consentirebbe di ridurre la spesa per il riscaldamento di un 80 per cento e coprire un 60 per cento delle necessità d’acqua calda, contribuendo a generare circa 130.000 nuovi posti di lavoro in una prima fase, che va da qui al 2020. La tendenza si vedrebbe poi rafforzata includendo il costo energetico degli immobili, attraverso la loro valorizzazione nel mercato.
Ri-localizzare le attività: all’interno di una transizione ordinata verso la sostenibilità, è necessario costruire un modello economico in cui prevalga la distanza corta, ossia modulare una produzione e un consumo locale: orti urbani (funzionali all’auto-consumo, a diffondere le tecniche d’agricoltura, al recupero di zone o solai in disuso o alla ruralizazzione della città), decentralizzazione della produzione di energie rinnovabili (per l’autoconsumo e la somministrazione a domicili privati, imprese e trasporti colletivi locali), attivazione di monete locali che favoriscano il commercio a corta distanza (ossia, a piedi e in bicicletta), cooperative e gruppi di consumo che, senza l’intermediazione, mettano a diretto contatto produttori e consumatori a livello locale (indipendenti dalle grandi infrastrutture e piattaforme logistiche, altamente “energivore”), privilegiando un modo di vita ecologico.
Favorire una mobilità sostenibile: come obiettivo, il report Globale fissa, per il 2020, tornare a livelli di 0,4 turismi/abitanti e, per il 2050, ridurre questa variabile a la metà. Significa, tra le altre cose, raggingere una ripartizione modale del 10 per cento per auto, del 30 per cento per il trasporto colettivo e del 60 per cento per pedone e bicicletta. In forma combinata con le altre proposte, si tratta di concentrare (poco a poco) la mobilità domestica in un raggio che consenta spostamenti a piedi (raggio di un chilometro) e in bici (raggio di tre km), oltre alla mobilità professionale in un raggio adattato ai trasporti collettivi (cinque chilometri). Suppone, inoltre, costruire città policentriche, in cui si superi finalmente l’urbanismo funzionalista (che separa per funzione le differenti zone della città dividendole in: aree commerciali, dormitori, attività economiche ed aree d’ozio, che richiedono l’auto come elemento canalizzatore), concentrandosi nel mix d’attività ed usi di ogni quartiere.
Ri-equilibrare città e campagna: secondo varie ipotesi, sarebbe necesario un 30 per cento in più di lavoro per poter passare de un’agricoltura industriale ad una maggioritariamente ecologica. Per esempio, il collettivo Desazkundea, con la critica alla proposta del Governo Basco sulle Direttrici di Ordinamento del Territorio e la battaglia per la sovranità alimentare, ricorda che se si proponesse l’obiettivo dell’auto-approvigionamento agricolo del 20 per cento nei Paesi Baschi (ad oggi pari al 5 per cento), si dovrebbero dedicare oltre 330.000 ettari al progetto, con un aumento della popolazione attiva che va dall’1,5 per cento al 5 per cento (25.000 posti di lavoro). Ciò suppone favorire la riconversione di terre oggi dedicate a monocolture (come l’agroforestale ed il business del pino-eucalipto-cartiere). Inoltre, costituendo una fonte importante d’impiego, implicherebbe ri-valorizzare il lavoro nei campi ed il ruolo degli agricoltori nella società, proponendo un ri-equilibrio progressivo della distribuzione della popolazione tra città e campagna.
Democratizzare la città: la dimensione sproporzionata delle città allontana irrimediabilmente la cittadinanza dagl’ambiti decisionali. Di fatto, Fitopopulos, filosofo e impulsore dell’iniziativa Democrazia Inclusiva, propone (ri)costruire nuclei urbani con un massimo di 30.000 abitanti (come le città della Grecia Antica) per consentire lo sviluppo di una democrazia reale. Per altri versi, città come Porto Alegre (1 milione di abitanti), hanno iniziato ad applicare sistematicamente il bilancio partecipativo che, in teoria, presuppone un sistema dal basso verso l’alto, in cui le assemblee di quartiere discutono proposte ed i loro rappresentanti le concertano in altrettante assemblee del complesso urbano. Nuovamente, conformazioni urbane di questo tipo richiedono città e territori policentrici, a scala umana (a piedi o in bici) e con democrazia diretta, coordinando sucessivamente a livello supralocale (regione, conca idrografica, stato, Europa), con meccanismi a loro volta democratici e trasparenti.
Cambiare valori e mentalità: cruciale come il disegno urbanistico o l’attrezzatura per la residenza, è la gente stessa che vive le città. Non ci sarà diminuzione radicale dell’impronta ecologica senza un cambio strutturale, di mentalità e di abiti di consumo. Nell’ambito della mobilità sostenibile, un buon esempio è quello del “Car sharing”: molto diffuso in paesi come la Svizzera, prevede la proprietà in comune di un auto tra varie unità familiari (il che genera meno unità prodotte, meno spazio per il parcheggio, divisione dei costi vincolati all’auto, ri-valorizzazione delle cose in comune, ecc.). Allo stesso modo, e a partire da una visione globale, le cooperative di residenza, che practicano il comodato d’uso, pongono in comune spazi ed elettrodoemstici tra gli inquilini, utilizzano la bio-riabilitazione e fissano prezzi accessibili e giusti.
Senza dubbio, i punti segnalati rappresentano una’enorme sfida, il che implica affrontare ogni tema in forma virtuosa e, sopratutto, dal basso, attraverso una dinamica deliberativa. In questo modo, le differenti iniziative e le diverse forme di pianificazione (come i Piani Generali di Ordinamento Urbano) a porre in marcia, potranno (retro)alimentarsi ed impulsare principi e buone pratiche in chiave del “vivere bene e felici”, dentro i limiti ecologici del Pianeta.
Riferimenti Bibliografici:
- Agencia internacional de la Energía (2008): World Outlook Energy 2008. IEA.
- Ewing B., S. Goldfinger, M. Wackernagel, M. Stechbart, S. M. Rizk, A. Reed and J. Kitzes (2008): The Ecological Footprint Atlas 2008. Oakland: Global Footprint Network.
- Orcáriz, J., Prats, F. (2009): Informe Global España 2020/50. Programa ciudades. Hacia un pacto de las ciudades españolas ante el cambio global. Centro Complutense de Estudios e Información Medioambiental.
- Marcellesi, F. (2012): Cooperación al posdesarrollo. Bases teóricas para la transformación ecológica de la cooperación al desarrollo, Bakeaz, Bilbao.
- McKinsey Global Institute (2011): Urban world. Mapping the economic power of cities. MGI.
- Observatorio de la Sostenibilidad en España (2010): Sostenibilidad local: una aproximación rural y urbana.
- Poumanyvong P., Kaneko S., (2010): “Does urbanization lead to less energy use and lower CO2 emissions? Across-country analysis”, en Ecological Economics, 15 de diciembre del 2010.
*Florent Marcellesi, coordinatore di Ecopolítica e redattore della Rivista Ecología Politica, è un ricercatore ed ecologista francese residente in Spagna, autore di numerose pubblicazioni (l’ultimo libro è Adiós al crecimiento. Vivir bien en un mundo solidario y sostenible – El Viejo Topo). Comune è il sito italiano al quale invia periodicamente i suoi articoli (come questo, preparato in occasione delle giornate del Piano Generale per l’Ordinamento Urbano di Bilbao). Altri interventi di Marcellesi sono QUI.
Traduzione di Roberto Casaccia per Comune.
Nessun commento:
Posta un commento