mercoledì 4 dicembre 2013

Alla fiera della natura

di Antonio Tricarico*
Come continuare a costruire sui nostri territori anche laddove non si potrebbe in nome della difesa della biodiversità e della natura in tutto il pianeta? La domanda sembra una contraddizione in termini, eppure la risposta è al cuore di una delle ricetta di green economy proposta dalle principali banche ed istituzioni finanziarie del pianeta con il patrocinio delle Nazioni Unite e di vari governi europei. Diamo un valore economico alla natura, o per meglio dire ai “servizi” che generosamente questa ci fornisce oggi gratuitamente, cosicché il prezzo della devastazione ambientale includerà anche questi ultimi e qualcuno pagherà per il danno fatto.
Facciamo pagare la difesa della biodiversità e degli habitat naturali a rischio generando finanziamenti per creare altrove nuove aree protette o riserve che abbiamo un valore naturale equivalente. La logica sarebbe la stessa dei permessi di emissione generati dai meccanismi del Protocollo di Kyoto della Convenzione contro i cambiamenti climatici e dal successivo impianto legislativo costruito dall’Unione Europea. In questo caso ci sarebbero i certificati di “distruzione” della biodiversità che i cementificatori acquisterebbero da chi realizza progetti verdi (presunti) altrove per compensare i propri scempi.
Questa nuova fiaba di fanta-ambientalismo suona molto sospetta se i principali promotori sono coloro che ci hanno portato sull’orlo del baratro della crisi economica e finanziaria. Lo scorso giovedì si è infatti svolto ad Edimburgo il primo forum mondiale sul “capitale naturale”, ospitato dalla Royal Bank of Scotland per dare seguito alla Dichiarazione sul capitale naturale presentata dalle banche globali al vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro nel giugno 2012.
Se si da un valore alla natura, come accennato, si creano anche nuove “merci naturali” – i permessi di distruzione ad esempio – che permettono nuovi profitti e accumulazione di capitale, naturale o finanziario. Infatti così come per i mercati del carbonio, il passo è breve per la costruzione di prodotti derivati ed altri titoli finanziari a partire dal commercio dei permessi di distruzione.
Per spiegare meglio come funzionerebbe in pratica il meccanismo perverso, è utile focalizzarsi su un caso pilota oggi in discussione in Inghilterra. La centrale nucleare di Hinkley Point, vicino alla città di Bridgewater, nel Somerset, è in via di chiusura. Eppure ci sono piani molto concreti del colosso energetico francese EDF e della ditta di stato transalpina Areva, che costruisce i nuovi impianti nucleari di tipo EPR, di costruire un terzo blocco di reattori. Tale progetto richiederebbe ulteriori lavori nella zona circostante, con impatti evidenti sul territorio e la sua biodiversità, senza parlare dei rischi nucleari di lungo termine.
Torri1Per rispondere in anticipo alle critiche previste, i proponenti, in accordo con il governo inglese, stanno ragionando già su come compensare questi impatti ambientali con un progetto verde da realizzare altrove, in particolare come capitato spesso nei mercati del carbonio nei paesi in via di sviluppo.
L’Areva, infatti, in Namibia estrae uranio per le centrali francesi, con ovvi impatti sul territorio. Di fronte alle rimostranze nei pressi di una miniera da parte di alcune comunità locali, la società ha pianificato di ricreare delle aree protette dove spostarle. Un progetto di “infrastrutture verdi”, come si chiamano in gergo. Saranno aree belle e di alto valore, così si dice, cosicché genereranno crediti di “distruzione” di biodiversità pregiati, proprio quelli che servono per far andare avanti l’impianto nucleare di Hunkley Point. Il tutto aggirando i vincoli ambientali.
Se i progetti andranno avanti come previsto, le due comunità saranno esposte a rischi enormi, ma all’una verrà detto che un’altra almeno vivrà in aree verdi e la somma teorica della biodiversità nel pianeta non cambierà. Ovviamente nessuno ad oggi ha chiesto alle due comunità cosa vogliono fare realmente. Peccato che ogni habitat, chi ci abita e le loro storie e culture abbiano un valore inestimabile. Ma questo poco conta per i nuovi “capitalisti verdi”, cementificatori e banchieri in cerca di distruzione ed extra profitti in nome della difesa dell’ambiente globale.
Sarebbe ben diverso dire che la biodiversità ed i servizi degli ecosistemi non hanno prezzo, ma un valore inestimabile, e per questo devono essere considerati beni comuni fuori dalla logica di mercato e su cui le comunità locali devono avere voce in capitalo, se vogliamo davvero proteggerli nel lungo termine. Ma poi cosa ci guadagnerebbero costruttori e banchieri assettati di profitti che la old economy non assicura più?


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