LE 'NDRINE NON PERDONANO - LA STORIA DEL BOSS CALABRESE EMANUELE MANCUSO, PRIMO NELLA STORIA DEL SUO CLAN A DIVENTARE COLLABORATORE DI GIUSTIZIA, CHE È STATO RIPUDIATO ANCHE DALLA MOGLIE, NENSY VERA – PER CONVINCERLO A RITRATTARE LA DONNA È ARRIVATA A USARE ADDIRITTURA LA FIGLIA DI 30 MESI – ORA È FINITA A PROCESSO, MA LA PICCOLA VIVE ANCORA CON LEI…
Giuseppe Salvaggiulo per "La Stampa"
Una figlia. Un padre mafioso pentito. Una madre che lo ha ripudiato, rimanendo solidale con la famiglia. Un processo che mette i genitori l'uno contro l'altro, e la bimba parte civile contro la madre. La protagonista, suo malgrado, dell'ultima storia di 'ndrangheta ha solo 30 mesi. Il suo torto è nel cognome: Mancuso. Famiglia tra le più potenti.
Segni particolari: narcotraffico. Piedi nelle campagne di Limbadi, Vibo Valentia, e mani nel mondo: dalla Germania al Brasile, dove fu arrestato il boss Pantaleone, detto «l'ingegnere». Suo figlio Emanuele, trentenne, per il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri «è la persona più competente nella coltivazione di marijuana che ho ascoltato in oltre trent' anni di carriera».
Quando viene arrestato, nella primavera 2018, la sua compagna Nensy Vera è incinta. «La speranza di offrire a mia figlia un futuro diverso» lo motiva a collaborare con la magistratura. Primo Mancuso a farlo, tanto che la notizia getta nel panico i familiari e li induce a una controffensiva per neutralizzarlo.
Il padre Pantaleone, in libertà vigilata, si dà alla macchia con un documento falso. Il fratello Giuseppe, informato in tempo reale in carcere, si scatena. «Non parlare, le parole si pagano», gli scrive. «Pecorone, cane, torna indietro o fai la fine degli altri», gli urla affacciandosi di notte dalle sbarre della cella. Più sottile la strategia delle donne di famiglia.
Madre Giovannina e zia Rosaria convocano Nensy Vera, che in lacrime garantisce fedeltà, e partono all'attacco del reprobo. Lo insultano («Tossico, bugiardo, uomo di merda»). Gli passano i nomi degli avvocati pronti a «farlo passare per pazzo» («'u malatu»). Lo allettano con promesse di soldi, di un bar o un negozio da gestire. Magari all'estero. Ma soprattutto, dopo la nascita della bambina, se ne servono spregiudicatamente per fargli «cambiare direzione».
Gliela fanno vedere raramente, a meno che non ritratti le accuse al clan. «Hai bisogno di noi», gli scrive la compagna Nensy Vera allegando la foto della neonata in braccio al fratello del pentito, Giuseppe, lo stesso che lo ha minacciato di morte. «Tuo fratello è ora ai domiciliari, ti aspettiamo tutti», c'è scritto dietro la foto. E ancora: «Ti dirò ti amo solo quando tornerai a casa, altrimenti non mi interessa più di te». L'uso cinico e spesso tragico dei figli per neutralizzare i pentiti è un classico mafioso.
La sorte del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito di mafia rapito e sciolto nell'acido in Sicilia, indignò l'Italia nel 1996. A Rosarno, in Calabria, nel 2011 il desiderio di non perdere i figli costò la vita a Maria Grazia Cacciola, che aveva rinnegato il clan Bellocco: fatta rientrare a casa, finì «suicidata».
Per questo negli ultimi anni il tribunale dei minori di Reggio Calabria, sotto la guida di Roberto Di Bella, ha elaborato un protocollo per tutelare i bambini di famiglie 'ndranghetiste, chiamato «Liberi di scegliere» e cristallizzato nel 2017 dal Csm in linee guida nazionali. Almeno 80 minori (un terzo figli di pentiti e testimoni di giustizia) sono stati sottratti al giogo criminale. Liberati, letteralmente. Il caso Mancuso è dunque ordinaria amministrazione, per la 'ndrangheta. Lo sanno la Procura di Catanzaro e i carabinieri. A
ttraverso telefonate, chat e corrispondenza ricostruiscono la vicenda in cui, hanno detto gli investigatori, «non c'è onore, non ci sono valori, non c'è umanità». Compagna, madre, zia e fratello del pentito Mancuso vengono imputati di violenza privata, favoreggiamento e altri reati aggravati dal metodo mafioso. Il processo ha due parti civili.
Lo stesso Mancuso e la figlia, che quindi risulta controparte (e in ipotesi di condanna, titolare di un diritto al risarcimento del danno) della madre con cui vive e che la sta crescendo. «Da padre non riesco a darmi pace», scrive Mancuso in una lettera aperta, manifestando «frustrazione e preoccupazione per le sorti di mia figlia», che nonostante tutto «mantiene contatti con gli ambienti 'ndranghetisti grazie alla disponibilità della madre, che incontra anche latitanti».
Dalle chat dei familiari depositate nel processo emerge «l'interessamento della cosca alle sorti della mia bambina, usata come merce di scambio», per cui Mancuso chiede «a gran voce» che sia emancipata dal «maledetto cognome» e «strappata definitivamente dalle mani della 'ndrangheta», per vivere in un «ambiente familiare sano». La lettera è rivolta al tribunale dei minori di Catanzaro. Che finora, con orientamento diverso dalla Procura, ha ritenuto di non spezzare il rapporto madre-figlia.
Respinte tre istanze di Mancuso, per i suoi precedenti penali, gli aveva anche limitato la potestà genitoriale, poi ripristinata dalla Corte d'appello. Il tribunale, che contesta le accuse, ritiene che la bimba sia al sicuro, avendola collocata con la madre in una località protetta sotto la protezione della polizia. In attesa delle sentenze, il caso resta aperto. Come il destino della piccola Mancuso. L'unica, in questa storia, sicuramente innocente.
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