sabato 30 novembre 2013

La ribellione del «noi»

Non sappiamo se sia nata una nuova civiltà dello stare insieme, come sostiene l’autore di «L’egoismo è finito». Di sicuro si moltiplicano i tentativi per ricomporre le relazioni tra persone e per ripensare la vita nelle città. La cultura della proprietà e del consumo individuale rischia di perdere il suo primato. Mutuo soccorso e cooperazione guidano sempre più spesso i comportamenti di persone e reti
di Gianluca Carmosino
Per molti anni la fabbrica, il partito, il sindacato ma anche la parrocchia e soprattutto la piazza sono stati i luoghi dello stare insieme. Il cortocircuito che li ha svuotati o eliminati dalla scena è ancora in corso. Tuttavia, il bisogno di spazi per il «noi» è sempre alla ricerca di soddisfazioni. «L’egoismo è finito» (Einaudi) di Antonio Galdo cerca di individuare le nuove forme con le quali le persone mettono in discussione il dogma dell’«io», sperimentando case comuni diverse.
L’indagine, perché di questo si tratta, comincia in modo sorprendente. «Questo è un libro sull’amore – scrive l’autore – Su quella parte di noi, di ciascuno di noi, che ha bisogno dell’altro, di una relazione che unisce laddove la solitudine separa». Non siamo abituati a utilizzare la categoria «amore» come valvola del cambiamento. In questo caso, in modo leggero viene subito indicato senza nominarlo il problema: il neoliberismo ha frantumato i legami sociali. Comincia allora un lungo elenco che secondo l’autore costituisce la «nuova civiltà dello stare insieme», ricco di analogie con il lavoro di Roberta Carlini, «L’economia del noi» (Laterza).
L’elenco di Galdo include esperienze e spazi piuttosto noti ai lettori di Comune-info. Si citano, ad esempio, città dove comincia a diffondersi il co-housing, la condivisione di alcuni spazi abitativi, oppure gli orti urbani che in molte luoghi, Roma in primis, vengono riscoperti per avere cibo buono e sano a prezzi accessibili e per limitare la cementificazione, ma anche perché uniscono le persone nella quotidianità. La mappatura di Zappata romanadi cui ci siamo occupati, richiamata da Galdo, dimostra come a Roma esista ormai un vero movimento di orti autogestiti, accanto al quale si diffondono le azioni di guerrilla gardening (leggi il reportage «Il suono dei tulipani»).
L’elenco comprende le città nelle quali sono stati avviati importanti progetti di conversione ecologica e sociale. A Vauban, nel quartiere di Friburgo, Germania, l’ex mensa ufficiali della zona militare è stata trasformata per ospitare il mercato contadino a chilometro zero, l’asilo nido, la palestra per lo yoga, la caffetteria e, una volta a settimana, il barbiere con i suoi servizi a prezzi popolari. Intanto, il villaggio è diventato noto per essere car free, in pratica puoi possedere l’auto ma non puoi lasciarla in strada e devi sistemarla nei parcheggi pubblici (piacerebbe ai promotori della campagna Salvaiciclisti). Un altro condominio di venti appartamenti, a Follonica (Grosseto), sfrutta materiali isolanti e una piccola centrale geotermica collettiva per ottenere dal sottosuolo il calore d’inverno e il raffreddamento d’estate. Sono le «case passive». A Follonica, la condivisione del progetto ecologico ha superato individualismi e litigiosità.
Il «noi» è il protagonista di altre pratiche di condivisione conosciute con i loro nomi inglesi, come il car pooling (l’autostop organizzato), il baratto via web, il couchsurfing(letteralmente, navigare sul sofà, cioè lo scambio di un posto letto o di un appartamento, foto a lato), il crow-founding (la raccolta fondi on line per un progetto attraverso piccole somme) e il co-working (la condivisione di luoghi e servizi di lavoro), oppure eventi come lo Swap day negli Stati uniti, quando migliaia di persone riempiono cinema, teatri, piazze e strade per scambiare qualsiasi genere di oggetti, e l’analogo Swap in the city promosso in Germania, o la Settimana del barattotra i proprietari di bed and breakfast sparsi per l’Italia.
Nel momento in cui l’indagine tenta qualche osservazione più teorica il quadro appare meno convincente. In alcuni paragrafi si parla di capitalismo collaborativo, in altri si richiamano i punti di vista della cosiddetta economia civile (Zamagni), in altri ancora del «welfare» promosso da alcuni padroni in diverse fabbriche-comunità, fino a includere la Nestlé come buon esempio di azienda attenta ai lavoratori (sottovalutando le denunce di cittadini, reti, lavoratori, ad esempio quelli raccolti nella Guida al consumo critico, Emi). Ma un’economia alternativa con tutte le sue varianti, «civile», «solidale», «altra», «green» oscura un elemento: il fare diverso che risponde alla logica del noi è prima di tutto un atto di ribellione più o meno esplicita (John Holloway parla di «contro-e-oltre»). Se questa rottura viene negata, l’economia alternativa viene assorbita e resa priva di senso dalla produzione capitalista. Qualsiasi economia alternativa, inoltre, è basata sulla separazione tra ciò che sarebbe economia e ciò che non lo sarebbe, vale a dire la vita vera, le attività quotidiane, il mangiare, il fare, l’amare. Se il cambiamento profondo è la non subordinazione ai dettami del denaro, del profitto e della crescita, allora per trasformare la società in modo radicale dobbiamo uscire da quella subordinazione e non risconoscere quella separazione.
Dal nostro punto di vista, la «civiltà del noi» ha senso soltanto se non separa l’atto di ribellione dal fare sociale creativo e concreto con il quale smettiamo di creare nella vita quotidiana il capitalismo, che resta prima di tutto un tipo di relazione sociale. Vivere adesso il mondo che vogliamo creare, sperimentando mutuo soccorso, autodeterminazione, solidarietà, cooperazione, gratuità, significa che la società del noi non è un’astrazione ma una possibilità con cui costruire relazioni sociali differenti.
In una intervista di Comune-info, Serge Latouche spiega perché rifiuta l’espressione green economy e perché l’obiettivo  dovrebbe essere «uscire dall’economia». «Il problema è la parola “economia”, vale a dire il capitalismo – dice Latouche – Naturalmente questo significa che si deve ancora produrre e consumare ma non più nella logica economica, utilitarista e quantitativa. È un discorso complesso e spesso lascio parlare i miei amici di “altra economia”, lo accetto come un compromesso. Ma in fondo tutto il mio lavoro, la mia ricerca, il mio pensiero, comincia dal contestare l’invenzione dell’economia, un’invenzione teorica, storica e semantica, dalla quale dobbiamo uscire».
L’intuizione di «L’egoismo è finito» resta comunque preziosa e andrebbe portata avanti fino in fondo, non rinunciando a indagare i limiti della nozione «noi», come il localismo e il suo carico di esclusione sociale di cui il fenomeno Lega è stato per anni uno dei simboli. Ma ci sono altri esempi importanti di spazi del «noi» che hanno cominciato a cambiare la vità di migliaia di persone e di molte città: le occupazioni e il recupero di spazi abbandonati (dal Cinema Palazzo al Teatro Valle e Scup di Roma, passando per l’ex colorificio di Pisa e il teatro Pinelli di Messina, solo per fare alcuni nomi), i Gruppi di acquisto solidale, le fabbriche autogestite. In «NowUtopia» (shake edizioni), Chris Carlsson tra le esperienze di quella che definisce «antieconomia», include anche altre attività che si sviluppano oltre il lavoro salariato, pratiche che richiedono tempo e fatica, condivisione e aiuto reciproco, come l’orticoltura comunitaria e la permacultura, l’universo delle ciclofficine e della critical mass e la galassia del creative common.
Qual è il tratto distintivo di questa società del noi che comincia a fiorire ovunque? È la convinzione generale dei suoi protagonisti, che sentono di non poter più delegare ad altri le proprie capacità e responsabilità nel condurre il cambiamento. Non sono più disposti a incaricare altri e meno ancora le macchine: in tempi di elezioni e di deliri da democrazia 2.0 non è scontato.

Foto (di Alessandro Di Ciommo) in alto: Titubanda in azione durante il guerrilla gardening promosso il 7 ottobre a Corviale (Roma) da Giardinieri sovversivi





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