martedì 8 aprile 2014

Rwanda 20 anni dopo

Persone che mancano – foto: CFSI
Rithy Panh è un regista e scrittore cambogiano sopravvissuto agli anni del regime di Pol Pot durante i quali è avvenuto un tragico genocidio. Così scrive: “Per ricominciare a vivere ci vogliono molti anni. È necessario riapprendere tutto. Ci si dice che non vale la pena andare avanti, ci si chiede perché mangiare, perché ridere, perché amare. Si deve iniziare a riflettere su come rendersi utili. Là dove il regime ha tentato di cancellare io ricostruisco. Anche noi cancelliamo le vittime dicendo che il genocidio ha fatto un milione e 800 mila morti: sono molti e niente, sono un milione e 800 mila vite differenti, inglobarle in una cifra le nasconde. Bisogna imparare a vivere con quello che è successo. Parlando la storia diventa universale e questo è importante perché gli uomini possano comprendere”.
Sappiamo che, nella giurisprudenza internazionale, il termine genocidio si applica in pochi casi, soltanto laddove gli stermini di massa sono perpetrati con l’intenzione di cancellare un’intera  popolazione o etnia, quando si pianifica l’omicidio di migliaia, se non di milioni di persone. Quello di “sterminismo” è un concetto quasi apocalittico, si vuole purificare il mondo, renderlo uniforme, giusto, finalmente liberato da chi lo sta portando alla rovina. Naturalmente i buoni siamo sempre noi, i cattivi quelli che vengono massacrati: questa l’ideologia di chi pianifica i genocidi. Ricordiamo però sempre che gli sterminatori erano (sono) uomini come noi. Erano di volta in volta tedeschi – europei, colti, cristiani -, turchi, rwandesi, cambogiani, russi, cinesi, ma un tempo anche spagnoli in Sud America, americani negli Stati Uniti. Vittime e carnefici appartengono alla stessa razza, quella umana. Certo non si potranno mai mettere sullo stesso piano assassini e assassinati, esisterà per sempre un solco incolmabile. Tuttavia in queste stragi che ci sembrano così lontane e così impossibili possiamo rispecchiarel’odio per il diverso che alberga dentro di noi e che, a livello collettivo, può davvero generare mostri.
Chi non ha vissuto in prima persona questo tipo di tragedie può solo ascoltare i testimoni. Dobbiamo imparare da persone come Rithy Panh, che ha perso padre, madre, sorelle e cugini nell’incubo della rivoluzione di Pol Pot. L’ultimo film documentario di Panh, “The missing picture”, parla direttamente del genocidio, ma non ci sono attori, soltanto pupazzi: troppo il dolore ancora vivo per rappresentare le vittime come uomini in carne ed ossa. Sarebbe come mettere in scena un’opera teatrale in cui i protagonisti non hanno vissuto la tragedia e che quindi non possono capire. Per questo anche noi dobbiamo metterci in ascolto. Prima di tutto ricordando che questi avvenimenti sono accaduti.
Oggi si commemorano i 20 anni dal genocidio in Rwanda. Non si è d’accordo neppure sulla data di inizio dei massacri. Ma questo ha poca importanza. Fare memoria significa ricercare le colpe, portare gli sterminatori in tribunale (magari internazionale), ma prima di tutto significa ascoltare i testimoni. Unimondo dedica tutta questa settimana a un approfondimento sui genocidi. Il nostro Fabio Pipinato, che era lì, in Rwanda, proprio in quei terribili giorni, ci offrirà un racconto in prima persona. Ci farà capire che nulla è avvenuto a caso, che il genocidio ha certamente radici storiche lontane, ma che è pure stato organizzato nei mesi precedenti a quella terribile primavera.
Una carneficina preparata a tavolino. Così scrive Daniele Scaglione, un giornalista che ha ricostruito passo dopo passo quella tragica primavera del 1994: “nulla di quanto accadde fu improvvisato, ma avvenne secondo un piano accurato  e moderno che includeva l’uso di mezzi di propaganda come la radio, l’acquisto e la distribuzione di un quantitativo di armi spaventoso e una sofisticata organizzazione che consentì di massacrare decine di migliaia di persone al giorno per cento giorni di fila. Che la tragedia stava per accadere era noto: lo sapevano i dirigenti dell’Onu e i governi più potenti del mondo”. Nessuno ascoltò i disperati appelli che nei mesi precedenti il responsabile del contingente Onu nel Paese, generale Dallaire, aveva rivolto al suo superiore Kofi Annan o alla rappresentante Usa in Consiglio di sicurezza Madaleine Albright: dopo il genocidio ambedue furono “promossi”.
Insomma, parlando del genocidio in Rwanda possiamo riflettere sulle organizzazioni internazionali, sulle “potenze” che si addormentano davanti a quello che succede in Africa o in altre zone di poca importanza geopolitica. Possiamo riflettere sugli strumenti giuridici che ci diamo per prevenire ulteriori tragedie. Infine possiamo riflettere su quel disperato amore per l’odio e per la guerra che purtroppo abbiamo tutti dentro.
Piergiorgio Cattani        

http://www.unimondo.org/Notizie/Rwanda-20-anni-dopo-145417

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